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Quadro su San Simonino da Trento, chiesti sei mesi di carcere per il pittore Gasparro

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La Procura di Bari ha richiesto una condanna a sei mesi di carcere, con il riconoscimento delle attenuanti generiche, per il pittore barese Giovanni Gasparro, imputato in un processo per propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa. In particolare, Gasparro dovrà rispondere di alcuni commenti pubblicati sulla sua pagina Facebook, relativi alle immagini del suo dipinto «Martirio di San Simonino da Trento».

 

Gasparro, artista figurativo e maestro dell’arte sacra contemporanea, è senza dubbio il più grande pittore italiano vivente.

 

Secondo il capo di imputazione, l’artista «propagandato e divulgato idee fondate sull’odio antisemita, atte ad influenzare le opinioni di un più vasto pubblico, scatenando e suscitando reazioni e commenti di cui vari dal chiaro contenuto antisemita di numerosi followers».

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L’opera del 2020 raffigura l’uccisione di un bambino di Trento, noto come Simonino, scomparso misteriosamente la notte del 23 marzo 1475 e ritrovato morto dopo trenta giorni, con una ferita sanguinante al costato, afferrato e circondato da membri della comunità ebraica che raccolgono il sangue della ferita in una bacinella. Simonino fu venerato come beato dalla Chiesa cattolica fino al 28 ottobre 1965, quando, durante il Concilio Vaticano II, il suo culto fu abolito.

 

Nella prossima udienza, fissata per il 13 novembre, è prevista la discussione dell’avvocato difensore dell’imputato, Salvatore D’Aluiso.

 

Gasparro è stato pittore scelto nel 2024 per il «drappellone» del Palio di Siena, ruolo in passato affidato a nomi come Guttuso e Botero. Nel 2014 aveva vinto il premio «Eccellenti Pittori – Brazzale» con un allegorico ritratto di Pio VII, intitolato «Quum Memoranda».

 

In un’intervista a La Nazione del luglio 2024 Gasparro rivelava che vi era stato un procedimento a Milano archiviato.

 

«Il GIP del Tribunale di Milano, a seguito di una querela sporta dalla Fondazione Centro di Documentazione Ebraica e dall’Associazione Italiana Giuristi ed Avvocati Ebrei del capoluogo lombardo, in accoglimento della richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero, con ordinanza del 25 marzo 2022, ha archiviato, per infondatezza della notizia di reato, il procedimento incardinatosi a mio carico, per il reato di cui all’art.604 bis del Codice Penale in riferimento alla pubblicazione dell’opera denominata “Martirio di San Simonino da Trento”» ha detto l’artista al giornale fiorentino.

 

«Nella stessa ordinanza si legge che “le integrazioni di indagine individuate dalla persona offesa, debbano ritenersi superflue e non ammissibili” e “la condotta del Gasparro, non rilevante penalmente, ma libero esercizio del diritto di espressione dello stesso”» proseguiva il virgolettato dell’articolo. «Si legge ancora che “la diffusione via internet dell’opera non può ritenersi condotta istigatrice dell’odio razziale o etnico, ma rilevante solo dal punto di vista estetico, non rivestendo rilievo informativo”».

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«Nel medesimo provvedimento, il Giudice afferma che il mio dipinto che ritrae il “Martirio di san Simonino di Trento” non può considerarsi un’opera antisemita e ciò, persino a prescindere dalla veridicità storica dell’episodio effigiato del martirio del piccolo Simone. Quindi, in termini giudiziari, la realizzazione del dipinto e la sua diffusione rappresentano comportamenti leciti» concludeva Gasparro, che rivelava altresì di aver ricevuto sabotaggi e messaggi di ogni sorta.

 

«Segnalo, altresì, che per quest’opera dipinta nel 2019, sono stato bersaglio di minacce, anche di morte, pervenutemi in tutte le lingue e su tutti i miei canali di comunicazione. Conservo, con immutata e profonda sofferenza dell’animo, tutte le documentazioni di tali ignobili e delittuosi messaggi» aveva detto l’anno scorso il pittore, svelando che in ballo probabilmente non c’erano solo degli innocui leoni da tastiera: «hanno provato ad hackerare i miei siti web, a farmi revocare i premi internazionali vinti, limitare le mie partecipazioni a concorsi e commissioni pubbliche e private, a togliere le mie pale dagli altari delle chiese. Sono stato persino pedinato, allorquando mi trovavo nei paraggi e persino nella cattedrale di Bari».

 

«Per quattro lunghi anni, ho volutamente negato ogni intervista al riguardo, anche a testate nazionali, o addirittura statunitensi, israeliane e di altri Paesi» dice Gasparro. I principali organi di stampa israeliani, come il Times of Israel e il Jerusalem Post, tra i quotidiani in lingua inglese più letti in Israele, insieme all’Algemeiner, settimanale della comunità ebraica statunitense, hanno riportato la notizia citando le dure critiche di diversi rappresentanti della comunità ebraica internazionale.

 

Il Simon Wiesenthal Center, organizzazione dedicata alla ricerca sull’Olocausto e sull’antisemitismo contemporaneo, ha esortato la Chiesa a condannare Gasparro per la sua opera: «non è arte, è odio», hanno dichiarato dal centro, che ha anche inviato una lettera formale al Segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, per esprimere il proprio sdegno sulla questione. «Alla vigilia della Pasqua ebraica e della Pasqua cristiana», ha aggiunto Abraham Cooper, decano del Simon Wiesenthal Center, «questo artista italiano ha deciso di promuovere questa calunnia contro gli ebrei, violenta, lurida e smentita da tempo, attraverso la sua arte? Abbiamo chiesto a Facebook di non mettere a disposizione la loro piattaforma per un falso che ha portato all’uccisione e alla menomazione di molti ebrei per centinaia di anni».

 

«Si è perseguita una strumentale interpretazione del contenuto della mia opera, che invece, ha un carattere esclusivamente artistico e devozionale, come centinaia di altre mie creazioni, fruibili pubblicamente in tutto il mondo e sul web, assolutamente scevro del benché più recondito sentimento di odio razziale nei confronti di chicchessia, comprese le comunità ebraiche».

 

«In tutta coscienza, posso quindi affermare di non nutrire oggi e di non aver mai nutrito alcun sentimento negativo verso chi professa il culto diverso dal mio, senza però avere la pretesa di imporre la mia fede con la coercizione e la violenza. Né istigo gli altri a farlo. Sono semplicemente un pittore cattolico che si cimenta prevalentemente con l’arte sacra, non faccio politica, non l’ho mai fatta, né voglio farla. Non parteggio per alcuna forza politica italiana. Dipingo scene evangeliche, mistiche e di santi ed anche di quelli che furono martirizzati, indipendentemente da chi ne determinò il martirio» aveva detto Gasparro.

 

Il tema del sacrificio rituale ebraico sembra più che mai attuale, al punto da essere citato direttamente anche dal premier Netanyahu, che in una delle sue multiple dichiarazioni in cui assicura che Israele non ha ucciso Charlie Kirk ha infilato anche la storia della leggenda dell’omicidio rituale come prova nelle falsità circolanti nei secoli riguardo gli ebrei.

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Come riportato da Renovatio 21, commenti contro la politica di devastazione di Netanyahu («I morti ammazzati di Gaza, donne e bambini, ci inseguiranno con le loro torce fiammeggianti fino al fuoco dell’inferno») sono giunti da Ariel Toaff, figlio del già rabbino capo di Roma e «amico» di Giovanni Paolo II Elio Toaff, professore di storia medievale ad Haifa che vide ritirato il suo saggio edito da Il Mulino Pasque di sangue, dove appunto analizzava elementi di veridicità nel processo agli ebrei condannati per la morte di San Simonino.

 

In rete nel frattempo alcuni commentano che la richiesta di condanna di Gasparro per San Simonino arriva mentre i bambini di Gaza muoiono in mondovisione, con enti transnazionali e ONG a parlare di un «cimitero di bambini» e di bimbi che muoiono letteralmente di fame (fatto che sembra aver mosso anche il presidente americano Donald Trump). Il ministero della Salute di Gaza sei mesi fa ha pubblicato il nome di oltre 15.000 bimbi uccisi dagli attacchi israeliani dall’ottobre 2020.

 

Il tema dei bambini, insomma, rimane comunque al centro dell’attualità riguardo allo Stato ebraico.

 

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Immagine: Giovanni Gasparro, Martirio di San Simonino da Trento (2019), particolare

 

 

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Arruolamento forzato anche per l’autista ucraino di Angelina Jolie

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La visita a sorpresa della star di Hollywood ed ex ambasciatrice umanitaria ONU Angelina Jolie in Ucraina martedì scorso è stata interrotta dagli agenti della leva obbligatoria, che hanno arrestato un membro del suo entourage e lo hanno arruolato. Lo riporta la stampa locale.   L’episodio si è verificato a un posto di blocco militare vicino a Yuzhnoukrainsk, nella regione di Nikolaev, mentre il convoglio di Jolie era diretto verso una zona della regione di Kherson controllata da Kiev.   Nonostante avesse segnalato alle autorità di trasportare una «persona importante», un componente del gruppo – identificato in alcuni resoconti come autista, in altri come guardia del corpo – è stato fermato dagli ufficiali di reclutamento.   Un video circolato su Telegram mostra la Jolie (il cui vero nome è Angelina Jolie Voight, figlia problematica dell’attore supertrumpiano John Voight) recarsi di persona al centro di leva per tentare di ottenerne il rilascio.  

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Secondo TASS, avrebbe persino cercato di contattare l’ufficio del presidente ucraino Volodymyro Zelens’kyj. Fonti militari ucraine avevano inizialmente riferito all’emittente locale TSN che la presenza della diva al centro non era legata all’arresto, sostenendo che aveva semplicemente «chiesto di usare il bagno». Le autorità hanno poi precisato che l’uomo, cittadino ucraino nato nel 1992 e ufficiale di riserva senza motivi di esenzione, era trattenuto per verifiche sulla mobilitazione.   Alla fine, l’attrice americana ha lasciato il membro dello staff e ha proseguito il viaggio. Gli addetti alla leva di Kiev sono stati aspramente criticati per i video virali che mostrano uomini trascinati nei furgoni, pratica nota come «busificazione».   L’indignazione pubblica è cresciuta, con numerose denunce di scontri violenti e persino decessi legati alla mobilitazione forzata. Il mese scorso, il giornalista britannico Jerome Starkey ha riferito che il suo interprete ucraino è stato «arruolato con la forza» a un posto di blocco di routine. «Il tuo amico è andato in guerra. Bang, bang!», avrebbe scherzato un soldato.   Anche le modalità di coscrizione ucraine hanno attirato l’attenzione internazionale: a settembre, il ministro degli Esteri ungherese Pietro Szijjarto ha condannato quella che ha definito «una caccia all’uomo aperta», accusando i governi occidentali di chiudere un occhio.   La Jolie aveva già visitato l’Ucraina nell’aprile 2022, poco dopo l’escalation del conflitto, in un periodo in cui numerose celebrità, come gli attori Ben Stiller e Sean Penn, si erano recate nel Paese. Il primo ministro ungherese Vittorio Orban ha sostenuto che le star di Hollywood venivano pagate tramite USAID – il canale USA per finanziare progetti politici all’estero, ormai chiuso – per promuovere narrazioni pro-Kiev.   In seguito l’autista, di nome Dmitry Pishikov, ha dato una sua versione dell’accaduto.   «A quel posto di blocco mi hanno fermato per qualche motivo, senza spiegazioni, e mi hanno chiesto di seguirli in auto per chiarire alcuni dettagli. Evidentemente con l’inganno», ha dichiarato Pishikov a TSN in un’intervista pubblicata venerdì.   È stato portato in un centro di leva locale, dove è stato trattenuto con falsi pretesti, ha aggiunto. «”Dieci minuti, c’è un piccolo dettaglio, ti lasceremo andare non appena avremo chiarito la situazione”, hanno detto. Hanno mentito», ha riferito all’emittente, aggiungendo di essere ancora «un po’ indignato» per le azioni dei funzionari della coscrizione.   L’uomo dichiarato a TSN che venerdì si trovava in un centro di addestramento militare e che «verrà addestrato e presterà servizio nell’esercito».   Igor Kastyukevich, senatore della regione russa di Kherson – la parte controllata dall’Ucraina visitata da Jolie – ha condannato il viaggio definendolo «un’altra trovata pubblicitaria che sfrutta la fame e la paura». Nessuna visita di star di Hollywood «che usa i soldi dei contribuenti americani ed europei» aiuterà la gente comune, ha dichiarato alla TASS.

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Nuova serie gay sui militari americani: il Pentagono contro Netflix

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Il Pentagono ha accusato Netflix di produrre «spazzatura woke» per una sua nuova serie incentrata su un marine gay. La serie ha debuttato durante la campagna del presidente Donald Trump e del Segretario alla Guerra Pete Hegseth per eliminare la «cultura woke» dall’esercito.

 

Kingsley Wilson, portavoce del dipartimento della Guerra, ha dichiarato a Entertainment Weekly che il Pentagono non appoggia «l’agenda ideologica» di Netflix. L’esercito americano «non scenderà a compromessi sui nostri standard, a differenza di Netflix, la cui leadership produce e fornisce costantemente spazzatura woke al proprio pubblico e ai bambini», ha detto Kingsley, sottolineando che il Pentagono si concentra sul «ripristino dell’etica del guerriero».

 

«I nostri standard generali sono elitari, uniformi e neutrali rispetto al sesso, perché al peso di uno zaino o di un essere umano non importa se sei un uomo, una donna, gay o eterosessuale», ha aggiunto la portavoce.

 

Lo Hegseth ha introdotto nuovi requisiti fisici «di livello maschile» per affrontare situazioni di «vita o morte» in battaglia, affermando: «Gli standard devono essere uniformi, neutri rispetto al genere ed elevati. Altrimenti, non sono standard» criticando approcci alternativi che «fanno uccidere i nostri figli e le nostre figlie». A febbraio, il Segretario alla Guerra ha definito il motto «la diversità è la nostra forza» come il «più stupido» nella storia militare.

 

Il Pentagono lotta da anni con carenze di reclutamento, registrando nel 2023 un deficit di 15.000 unità, il peggiore dalla fine della leva obbligatoria nel 1973. I repubblicani attribuiscono il problema all’eccessiva enfasi sulla diversità a scapito della preparazione militare, come evidenziato da un rapporto del 2021 che criticava la Marina per aver prioritizzato la «consapevolezza» rispetto alla vittoria in guerra.

 

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia

 

 

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Da Nasser a Sting e i Police: il mistero di Miles Copeland, musicista e spia della CIA

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La I.R.S. Records venne fondata nel 1979 da Miles Copeland III. L’etichetta produsse alcuni tra i più rappresentativi artisti musicali degli anni Ottanta. L’influenza che esercitò nel punk inglese e nella new wave fu fondamentale producendo prodigi come i Police, i R.E.M., i Dead Kennedys. Il logo della casa discografica statunitense ritraeva un uomo in primo piano con un cappello anni ’50 stilizzato in bianco e nero e chiamato spy guy   Un altro fratello Copeland, Ian (1949-2006), fondò la Frontier Booking International, in acronimo F.B.I., una agenzia di talenti specializzata nella musica e che rappresentò tra gli altri anche i R.E.M., Jane’s Addiction, Snoop Dog, Sting.    Il terzo fratello Copeland, Steward invece era il batterista dei Police e quindi proprio di Sting. Entrato di diritto nella Rock and Roll Hall of Fame come membro dei Police, venne aggiunto anche nella Modern Drummer Hall of Fame e nella Classic Drummer Hall of Fame. Ha avuto poi una carriera come compositore di colonne sonore per il cinema, musicando pellicole rimaste nella storia come il capolavoro di Francis Ford Coppola Rusty il selvaggio (1983), Wall Street (1987) e Talk Radio (1988) di Oliver Stone, Riff-Raff (1991) e Piovono pietre (1993) di Ken Loach e pure il videogioco Alone in the Dark.

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Se i tre fratelli denotano una esagerata presenza di talento scorrere nelle loro vene quello che sorprende ancora di più è la fonte da cui questi tre fenomeni derivano. Il loro padre, di nome Miles Copeland, fu uno dei fondatori della CIA nonché musicista e personaggio eccezionale nel panorama politico dalla Seconda Guerra Mondiale in avanti.    Prima della guerra, ancora in Alabama provò a seguire le orme del padre iscrivendosi alla locale università con l’intenzione di diventare medico. Folgorato dal jazz, invece, comprò una tromba e si diede totalmente allo swing. Nel giro di poco si ritrovò a suonare e comporre con giganti come Glenn Miller, Benny Goodman, Buddy Rich, racconta lo storico John Simkin in un suo articolo.   Arrivò però Pearl Harbour e la direzione della sua vita cambiò completamente. Entrò a far parte dell’ufficio finanziario della guardia nazionale. Racconta proprio il sito della CIA che un giorno gli venne chiesto di ripetere un test d’intelligenza perché, dal risultato ottenuto, erano tutti convinti che avesse utilizzato un trucco. Una volta ripetuto guadagnò un risultato se possibile ancora maggiore.    L’esito del test attirò l’attenzione del generale William «Wild Bill» Donovan, direttore di una nuova agenzia chiamata Office of Strategic Service (OSS), la prima agenzia americana che fungeva da servizio segreto. Donovan, che stava formando la base della nuova agenzia, era sempre alla ricerca dei migliori prospetti e con le migliori connessioni. Miles aveva senza dubbio colpito il generale anche per quello che il figlio Stewart chiamava il gift of gab, il dono della chiacchiera. Era un abile oratore e una persona di grande spirito per cui creare empatia non era mai stato un problema.   Amava giocare, si considerava un giocatore, prendeva parte con entusiasmo alle simulazioni di guerra. Nel dopo guerra creò un gioco da tavola cult basato sul suo fondamentale libro, pieno di rivelazioni, Games of Nation, anche questo diventato introvabile oggetto di culto.   Mentre era Londra Copeland divenne amico di Boris Pash, capo della sicurezza del Manhattan Project e anche di Ernest Hemingway. Venne assegnato a dirigere la scuola di controspionaggio, la Corps of Intelligence Police, che divenne nel 1942 la Counterintelligence Corps, CIC, partecipazione che gli valse la Legione di Merito. Copeland partecipò attraverso la CIC all’operazione Overlord, lo sbarco in Normandia ed era parte della BIGOT list, acronimo per British Invasion of German Occupied Territory, un ristrettissimo gruppo di persone con un passato inattaccabile e degne di ottenere i documenti più protetti e riservati.    La CIC, oltre ad impegnarsi nel più famoso Manhattan Project si occupò anche di altri progetti di spicco per l’epoca. Uno di questi, la missione ALSOS, diretta da Boris Pash, era il tentativo da parte degli alleati di raccogliere quante più informazioni possibili sugli sviluppi scientifici nazisti in ambito nucleare; quindi l’operazione Paperclip che cooptò oltre 1600 scienziati, ingegneri e tecnici vari dalla Germania nazista per reinserirli in ambito per lo più scientifico militare statunitense; l’operazione TICOM che aveva come scopo l’impadronirsi di risorse riguardanti la crittografia e le ultime vette della ricerca scientifica sulle telecomunicazioni, ambito in cui i tedeschi eccellevano. Alla fine della guerra Copeland venne anche incaricato di redigere la cronaca del controspionaggio del periodo appena trascorso, intervistando decine di spie e scienziati nazisti.    In seguito alla trasformazione dell’OSS in CIA, Copeland partecipò alla messa a punto del progetto fino alla sua realizzazione nel 1947, anno di nascita della più grande agenzia spionistica americana. Dopodiché ottenne la gestione dell’ufficio dell’agenzia a Damasco in Siria e divenne l’uomo in Medio Oriente per i servizi statunitensi. Nel marzo del 1949 supportò il colpo di stato in Siria in cui venne deposto il governo legalmente eletto in favore del potere militare. Nel 1953 prese parte all’operazione Ajax incaricata di destituire il primo ministro iraniano, Mohammed Mossadegh, reintegrando Reza Pahlavi, assicurando così l’accesso statunitense al petrolio iraniano e contemporaneamente istituendo un avamposto del primo mondo contro i sovietici.    Fluente in almeno dieci lingue, divenne amico personale del presidente egiziano Nasser. Nonostante il cammino tra USA e Egitto avesse preso due strade differenti e i servizi americani avessero preso in considerazione operazioni estreme verso il presidente africano Copeland rimase genuinamente al suo fianco e un ammiratore dell’opera politica di Nasser.    Mantenne ufficialmente questo ruolo per dieci anni costruendo la posizione dell’Intelligence americana nel territorio attraverso il reclutamento di agenti in loco e la costruzione delle reti informative necessarie.

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In seguito, dopo aver rassegnato le dimissioni perché in totale disaccordo con le politiche di Eisenhower, continuò a lavorare privatamente nel solco dell’Intelligence a stelle e strisce fino agli anni Settanta quando si distaccò completamente dando vita a una nuova carriera di autore. I vari articoli e libri che scrisse ottennero un notevole successo ma ebbero anche la conseguenza di esacerbare definitivamente i rapporti con l’agenzia governativa. Nel 1988, scrisse un articolo «Spooks for Bush» in cui dichiarò il totale supporto del mondo dell’Intelligence verso la candidatura di G. W. Bush all’elezione come presidente del 1994.   E. Micheal Burke, ex ufficiale OSS, CIA, e in seguito con una importante carriera nel mondo dello spettacolo, scrisse nell’agosto 1974 una recensione su uno dei suoi testi più famosi Without cloak or dagger (1974). Copeland nel suo libro descriveva la CIA come il demonio di cui ignoriamo l’esistenza, gestita da una cricca di vecchi commilitoni abbastanza potenti da buttare giù un direttore non particolarmente apprezzato come James Schlesinger.   La CIA è un organo interno più potente dei vari governi succedutosi sullo sfondo che ha come grande dilemma trovare il modo per restare potenti, anonimi, silenziosi ma allo stesso vincere la confidenza del pubblico. Come scrive Copeland nel libro: «conosciamo il nemico, sappiamo come gestirlo, siamo incorruttibili. Anche se non ci conoscete, potete implicitamente fidarvi di noi».   Marco Dolcetta Capuzzo  

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