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Geopolitica

Perché una seconda Yalta? Il nuovo ordine mondiale prende forma (I parte)

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Renovatio 21 pubblica questo articolo di Réseau Voltaire. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21

 

 

Gli Stati Uniti non sono la superpotenza che sognavano di essere. Hanno subito una tremenda sconfitta militare in Siria, insieme a un centinaio di Stati alleati, che però si ostinano a cullarsi nelle proprie illusioni. Ma è arrivato il momento della resa dei conti. Per sopravvivere Washington ha un’unica scelta: allearsi con uno degli avversari. La Russia o la Cina? Questo è il nocciolo della questione.

 

 

 

Non possiamo vivere in una società senza regole: quando sono ingiuste ci ribelliamo e le cambiamo. È inevitabile, perché ciò che in un dato momento appare giusto non lo è necessariamente più in un altro. In ogni caso, abbiamo bisogno di un ordine, senza il quale ognuno diventa nemico di ogni altro. Quel che è valido per i singoli uomini lo è anche per i popoli.

 

Nel 1945 la Conferenza di Yalta gettò le basi della divisione del mondo in zone d’influenza dei tre grandi vincitori della seconda guerra mondiale: Stati Uniti, Regno Unito e Unione Sovietica. Per tutta la guerra fredda gli schieramenti si sono insultati pubblicamente, ma hanno stipulato accordi sottobanco. La ricerca storica ha dimostrato che, sebbene l’accordo avrebbe potuto in qualunque momento tramutarsi in scontro, le invettive erano più finalizzate a consolidare il campo d’appartenenza che a colpire l’avversario/partner.

 

Il sistema, mai messo in discussione, resistette fino alla sparizione dell’Unione Sovietica, nel 1991.

 

Da allora gli Stati Uniti hanno preteso di essere l’unica superpotenza in grado di organizzare il mondo. Non ci sono riusciti. Cina e Russia − eredi dell’URSS − hanno tentato di rimescolare le carte in molte occasioni. A loro volta non ci sono riuscite, ma hanno continuato a svilupparsi. Il Regno Unito, che durante la guerra fredda aveva aderito all’Unione Europea, ne è uscito per entrare di nuovo in competizione (Global Britain). Così le potenze che ora ambiscono spartirsi il mondo sono diventate quattro.

Alla fine del periodo di disordini 1991-2021 − dalla «Tempesta del deserto” al “rimodellamento del Medio Oriente Allargato» − le ambizioni degli Stati Uniti sono andate in frantumi in Siria. Sono occorsi diversi anni a Washington per ammettere la sconfitta. Le forze armate russe sono tecnologicamente molto più avanzate, quelle cinesi hanno personale molto più qualificat

 

Alla fine del periodo di disordini 1991-2021 − dalla «Tempesta del deserto” al “rimodellamento del Medio Oriente Allargato» − le ambizioni degli Stati Uniti sono andate in frantumi in Siria. Sono occorsi diversi anni a Washington per ammettere la sconfitta. Le forze armate russe sono tecnologicamente molto più avanzate, quelle cinesi hanno personale molto più qualificato. È urgente per gli USA prenderne atto e accettare un accordo; in caso contrario perderà tutto. Non si tratta più di valutare cosa sia meglio, ma di fare tutto il possibile per sopravvivere.

 

Gli alleati degli Stati Uniti non hanno capito la portata della catastrofe militare in Siria. Continuano a mentire a loro stessi e a considerare questo importante conflitto − che ha coinvolto più Stati di quelli della seconda guerra mondiale − una «guerra civile» in un piccolo Paese remoto. Faticheranno quindi ad accettare gli arretramenti a catena di Washington.

 

Una Yalta II è per il Regno Unito l’ultima chance. Quello che fu «l’Impero sul quale non tramonta mai il sole» non dispone più di mezzi militari all’altezza delle ambizioni. Però conserva abilità eccezionali e un cinismo ferreo (la «Perfida Albione»). Non disdegnerà alcuna opzione, purché gli assicuri una rendita. Nella scia degli Stati Uniti, il Regno Unito approfitta della cultura comune e di solide reti d’influenza. Alla Casa Bianca è di ritorno la Pilgrim’s Society (Associazione dei Padri Pellegrini), molto presente nel primo mandato di Obama.

 

La Russia non è l’URSS, con i suoi pochi dirigenti russi. Mosca non cerca di far trionfare un’ideologia; la sua politica estera non si fonda su una fumosa teoria geopolitica, ma sulla proiezione della sua forte personalità. È pronta a negligere i propri interessi pur di non rinnegare sé stessa.

La Russia non è l’URSS, con i suoi pochi dirigenti russi. Mosca non cerca di far trionfare un’ideologia; la sua politica estera non si fonda su una fumosa teoria geopolitica, ma sulla proiezione della sua forte personalità. È pronta a negligere i propri interessi pur di non rinnegare sé stessa

 

Da lungo tempo la Cina non deve riconoscenza ad alcuno, soprattutto ai Paesi che l’hanno distrutta agli inizi del XX secolo. Beijing vuole soprattutto recuperare la propria zona d’influenza nella regione e commerciare con il resto del mondo. Sa essere paziente, ma non è disponibile a fare concessioni. Oggi è alleata della Russia, di cui però non ha dimenticato il ruolo nella colonizzazione; inoltre non ha rinunciato alle pretese territoriali sulla Siberia orientale.

 

Riassumendo, nessuna delle quattro grandi potenze agisce secondo la medesima logica e persegue i medesimi obiettivi. Questo facilita il raggiungimento di un accordo, ma fa sì che sia più difficile rispettarlo.

 

Il Pentagono ha affidato a un gruppo di lavoro l’incarico di riflettere sulle possibili opzioni rispetto alla Cina (DoD China Task Force), che teme più della Russia. Infatti, quel che Beijing recupererà nella propria zona d’influenza regionale andrà a scapito delle posizioni di Washington in Asia. La Casa Bianca ha da parte sua designato un gruppo di lavoro ultrasegreto, con l’incarico di esaminare i nuovi possibili scenari mondiali. La task force del Pentagono ha già consegnato il rapporto, subito secretato. Non si sa invece se il gruppo della Casa Bianca abbia portato a termine il suo.

 

Riassumendo, nessuna delle quattro grandi potenze agisce secondo la medesima logica e persegue i medesimi obiettivi. Questo facilita il raggiungimento di un accordo, ma fa sì che sia più difficile rispettarlo

Il gruppo della Casa Bianca deve vigilare sul destino degli Stati Uniti. La sua stessa composizione è segreta, ma sicuramente i suoi membri sono più potenti di un presidente anziano. Svolge un ruolo decisionale centrale, comparabile a quello svolto, durante l’amministrazione Bush-Cheney, dal Gruppo per lo Sviluppo e la Politica Energetica nazionale (National Energy Policy Development Group – NEDP).

 

Al momento nulla permette di capire se questo gruppo rappresenti obiettivi politici e/o finanziari. È comunque ovvio che la finanza globale influenzi sia la NATO sia la Casa Bianca. Essa non ha per obiettivo modificare alleanze, ma disporre delle informazioni che le sono indispensabili per adattarsi ai mutamenti mantenendosi nell’ombra, nonché per salvaguardare la propria posizione sociale.

 

Gli spostamenti dei vari inviati speciali di Washington inducono a supporre che l’amministrazione Biden abbia già scelto: ripristinare il duopolio della guerra fredda, unico modo per Washington di evitare una guerra contro un’alleanza russo-cinese, cui probabilmente non sopravvivrebbe.

 

Dobbiamo renderci conto che il principale ostacolo, in USA, è di ordine mentale. Dal 2001 Washington è persuasa che l’instabilità giochi a suo vantaggio. Per questo motivo strumentalizza, senza troppi scrupoli, gli jihadisti ovunque nel mondo, attuando la strategia Rumsfeld/Cebrowski. Un accordo tipo Yalta sarebbe invece una scommessa sulla stabilità, che Mosca auspica da due decenni

Per Washington, questa scelta implica l’impegno a difendere contro le pretese cinesi l’integrità della Siberia russa; per Mosca, l’impegno a difendere, reciprocamente, le basi e installazioni USA che si trovano nella zona d’influenza cinese.

 

Un’opzione che presuppone il riconoscimento da parte di Washington della supremazia economica cinese nel mondo, ma che al tempo stesso gli consente di contenere politicamente l’«Impero di Mezzo» e così evitare che diventi una potenza mondiale nel pieno senso del termine.

 

Unica perdente: la Cina, che continuerebbe a essere priva della propria zona d’influenza e politicamente isolata. Potrebbe però essere per il momento tenuta a bada, consentendole di recuperare Taiwan, che da una settimana il Think Tank del Pentagono considera «non essenziale» per gli Stati Uniti.

 

Dobbiamo renderci conto che il principale ostacolo, in USA, è di ordine mentale. Dal 2001 Washington è persuasa che l’instabilità giochi a suo vantaggio. Per questo motivo strumentalizza, senza troppi scrupoli, gli jihadisti ovunque nel mondo, attuando la strategia Rumsfeld/Cebrowski. Un accordo tipo Yalta sarebbe invece una scommessa sulla stabilità, che Mosca auspica da due decenni.

 

Il presidente Biden ha messo in calendario dapprima un incontro con i partner britannici per rafforzare l’alleanza sul modello della Carta Atlantica; poi la riunione per il G7 dei principali alleati; infine il meeting con gli alleati civili e militari della NATO e dell’Unione Europea. Soltanto dopo essersi assicurato la fedeltà di tutti, il 16 giugno Biden incontrerà a Ginevra l’omologo russo.

Tutto questo è paradossale: significa far fare all’amministrazione Biden esattamente quello che è stato impedito all’amministrazione Trump di portare a termine. Si sono persi quattro anni

 

Tutto questo è paradossale: significa far fare all’amministrazione Biden esattamente quello che è stato impedito all’amministrazione Trump di portare a termine. Si sono persi quattro anni.

 

(Segue…)

 

 

Thierry Meyssan

 

 

Articolo ripubblicato su licenza Creative Commons CC BY-NC-ND

 

 

 

 

Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

 

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Droga

Trump punta ad attaccare le «strutture della cocaina» in Venezuela

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Il presidente statunitense Donald Trump sta esaminando proposte per operazioni militari americane contro presunte «strutture per la produzione di cocaina» e altri bersagli legati al narcotraffico all’interno del Venezuela. Lo riporta la CNN, che cita fonti anonime.

 

Due funzionari non identificati hanno dichiarato alla rete che Trump non ha scartato l’ipotesi di un negoziato diplomatico con Nicolás Maduro, nonostante recenti indicazioni secondo cui gli Stati Uniti avrebbero interrotto del tutto i colloqui con Caracas, mentre valutano una possibile campagna per destituire il leader venezuelano.

 

Tuttavia, una fonte della CNN ha precisato che «ci sono piani sul tavolo che il presidente sta esaminando» per azioni mirate all’interno del Venezuela. Un terzo funzionario ha indicato che l’amministrazione Trump sta considerando varie opzioni, ma al momento si concentra sulla «lotta alla droga in Venezuela».

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A giudizio di alcuni esponenti dell’amministrazione statunitense, una campagna antidroga nel Paese sudamericano potrebbe accrescere la pressione per un cambio di regime a Caracas. Trump ha pubblicamente smentito l’intenzione di rimuovere Maduro dal potere.

 

Nelle scorse settimane, le forze armate americane hanno condotto vari raid contro imbarcazioni sospettate di narcotraffico e, secondo Washington, collegate al Venezuela, causando decine di vittime.

 

 

Giovedì, Trump – che aveva già confermato l’autorizzazione di operazioni della CIA in Venezuela – ha dichiarato che gli Stati Uniti potrebbero estendere la loro campagna antidroga dal mare alla terraferma, senza entrare in dettagli. Inoltre, la portaerei USS Gerald R. Ford è stata inviata nei Caraibi per sostenere l’operazione antidroga.

 

Maduro ha respinto ogni legame del suo governo con il traffico di stupefacenti, insinuando che gli Stati Uniti stiano usando le accuse come copertura per un cambio di regime. Dopo le notizie sul dispiegamento della portaerei, il presidente venezuelano ha accusato Washington di perseguire «una nuova guerra eterna».

 

Secondo un reportaggio del New York Times, Maduro stesso avrebbe proposto agli Stati Uniti significative concessioni economiche, inclusa la possibilità per le aziende americane di acquisire una quota rilevante nel settore petrolifero, durante negoziati segreti durati mesi. Tuttavia, Washington avrebbe rifiutato l’offerta, con il futuro politico del presidente Nicolas Maduro come principale ostacolo.

 

Un precedente articolo del quotidiano neoeboraceno riportava che Trump avesse ordinato l’interruzione dei colloqui con il Venezuela, «frustrato» dal rifiuto di Maduro di cedere volontariamente il potere. Il giornale suggeriva anche che gli Stati Uniti stessero pianificando una possibile escalation militare.

 

Nel frattempo, Maduro ha avvertito che il Venezuela entrerebbe in uno stato di «lotta armata» in caso di attacco, aumentando la prontezza militare in tutto il Paese.

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Come riportato da Renovatio 21, il mese scorso, gli Stati Uniti hanno inviato almeno otto navi della Marina, un sottomarino d’attacco e circa 4.000 soldati vicino alla costa venezuelana, dichiarando che la missione mirava a contrastare i cartelli della droga. Washington ha sostenuto che l’armata ha affondato tre imbarcazioni venezuelane, senza però fornire prove che le persone a bordo fossero criminali.

 

La Casa Bianca accusa da tempo Maduro di guidare una rete di narcotrafficanti nota come «Cartel de los Soles», sebbene non vi siano prove schiaccianti o prove concrete che lo dimostrino, tuttavia lo scorso anno gli USA sono arrivati a sequestrare un aereo presumibilmente utilizzato dal presidente di Carcas. È stato anche accusato di aver trasformato l’immigrazione in un’arma, sebbene Maduro si sia mostrato pronto a dialogare con le delegazioni diplomatiche americane sulla questione.

 

Come riportato da Renovatio 21, a inizio anno Maduro aveva dichiarato che Washington ha aperto il suo libretto degli assegni a una schiera di truffatori e bugiardi per destabilizzare il Venezuela, quando gli Stati Uniti si sono rifiutati di riconoscere le elezioni del 2024 in Venezuela.

 

Secondo Maduro, almeno 125 militanti provenienti da 25 Paesi sono stati arrestati dalle autorità venezuelane. Aveva poi accusato Elone Musk di aver speso un miliardo di dollari per un golpe in Venezuela. Negli stessi mesi si parlò di un piano di assassinio CIA di Maduro sventato.

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Geopolitica

Thailandia e Cambogia firmano alla Casa Bianca un accordo di cessate il fuoco

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Cambogia e Thailandia hanno siglato un accordo di cessate il fuoco ampliato per porre fine a un violento conflitto di confine scoppiato a inizio anno. La cerimonia di firma, tenutasi domenica, è stata presieduta dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che aveva mediato la tregua iniziale.   Le tensioni storiche tra i due Paesi del Sud-est asiatico, originate da dispute territoriali di epoca coloniale, sono esplose a luglio con cinque giorni di scontri armati, che hanno spinto centinaia di migliaia di persone a fuggire dalla zona di confine. Un incontro ospitato dalla Malesia aveva portato a una prima tregua, segnando l’inizio della de-escalation.   Trump ha dichiarato di aver sfruttato i negoziati commerciali con entrambi i paesi per favorire una riduzione delle tensioni.  

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Durante il 47° vertice dell’ASEAN in Malesia, il primo ministro cambogiano Hun Manet e il primo ministro thailandese Anutin Charnvirakul hanno firmato l’accordo, che amplia la tregua di luglio.   Il documento stabilisce un piano per ridurre le tensioni e assicurare una pace stabile al confine, prevedendo il rilascio di 18 soldati cambogiani prigionieri da parte della Thailandia, il ritiro delle armi pesanti, l’avvio di operazioni di sminamento e il contrasto alle attività illegali transfrontaliere.   Dopo la firma, il primo ministro thailandese ha annunciato l’immediato ritiro delle armi dal confine e il rilascio dei prigionieri di guerra cambogiani, insieme a un’intesa commerciale congiunta. Il primo ministro cambogiano ha lodato l’accordo, impegnandosi a rispettarlo e ringraziando Trump per il suo ruolo, proponendolo come candidato al Premio Nobel per la Pace del prossimo anno.   Trump ha definito l’accordo «monumentale» e «storico», sottolineando il suo contributo e descrivendo la mediazione di pace come «quasi un hobby». Dopo la cerimonia, ha firmato un accordo commerciale con la Cambogia e un importante patto minerario con la Thailandia.

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Geopolitica

La Cina snobba il ministro degli Esteri tedesco

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Il ministro degli Esteri tedesco Johann Wadephul ha dovuto cancellare un viaggio previsto in Cina dopo che Pechino si sarebbe rifiutata di organizzare incontri di alto livello con lui, secondo quanto riportato venerdì da diversi organi di stampa.

 

Il Wadephul sarebbe dovuto partire per Pechino domenica per discutere delle restrizioni cinesi sull’esportazione di terre rare e semiconduttori, oltre che del conflitto in Ucraina.

 

«Il viaggio non può essere effettuato al momento e sarà posticipato a data da destinarsi», ha dichiarato un portavoce del Ministero degli Esteri tedesco, citato da Politico. Il Wadephullo avrebbe dovuto incontrare il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, ma l’agenda prevedeva troppo pochi incontri di rilievo.

 

Secondo il tabloide germanico Bild, i due diplomatici terranno presto una conversazione telefonica.

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Questo intoppo diplomatico si inserisce in un contesto di crescenti tensioni commerciali tra Cina e Unione Europea. Nell’ultimo anno, Bruxelles e Pechino si sono scontrate sulla presunta sovrapproduzione industriale cinese, mentre la Cina accusa l’UE di protezionismo.

 

All’inizio di questo mese, Pechino ha rafforzato le restrizioni sull’esportazione di minerali strategici con applicazioni militari, una mossa che potrebbe aggravare le difficoltà del settore automobilistico europeo.

 

La Germania è stata particolarmente colpita dal deterioramento del clima commerciale.

 

Come riportato da Renovatio 21, la Volkswagen sospenderà la produzione in alcuni stabilimenti chiave la prossima settimana a causa della carenza di semiconduttori, dovuta al sequestro da parte dei Paesi Bassi del produttore cinese di chip Nexperia, motivato da rischi per la sicurezza tecnologica dell’UE. In risposta, Pechino ha bloccato le esportazioni di chip Nexperia dalla Cina, causando una riduzione delle scorte che potrebbe portare a ulteriori chiusure temporanee di stabilimenti Volkswagen e colpire altre case automobilistiche, secondo il quotidiano.

 

Venerdì, il ministro dell’economia Katherina Reiche ha annunciato che Berlino presenterà una protesta diplomatica contro Pechino per il blocco delle spedizioni di semiconduttori, sottolineando la forte dipendenza della Germania dai componenti cinesi.

 

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