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Moderna potrebbe ammettere che il vaccino dura 6 mesi e che la dose di rinforzo «potrebbe essere necessaria»
Durante una recente riunione con gli investitori, il produttore di vaccini Moderna è parso ammettere che il loro vaccino contro il COVID-19 dura solo 6 mesi, aggiungendo che una terza iniezione di «richiamo» sarà «probabilmente necessaria» a causa della variante Delta.
Moderna aveva rilasciato una dichiarazione giovedì affermando che l’efficacia del vaccino contro il COVID-19 «non diminuisce nei primi 6 mesi dopo la seconda dose», ha riferito il New York Times.
Tuttavia, come scrive il sito National File, la farmaceutica sembrava aver cambiato idea durante una earning call (incontro con gli investitori) poco dopo, sostenendo che sarebbero state necessarie dosi di richiamo questo autunno per frenare la variante Delta.
«Riteniamo che sarà probabilmente necessaria una dose tre di un richiamo per mantenerci il più sicuri possibile durante la stagione invernale nell’emisfero settentrionale», ha affermato il presidente di Moderna, il dott. Stephen Hoge durante la chiamata con gli investitori.
«Riteniamo che sarà probabilmente necessaria una dose tre di un richiamo per mantenerci il più sicuri possibile durante la stagione invernale nell’emisfero settentrionale»
Il pezzo ha anche sottolineato il rapporto di Pfizer e BioNTech sulla durata del proprio vaccino mRNA, che ha mostrato che l’efficacia stimata dei vaccini diminuisce di oltre il 12% dopo 6 mesi. Una notevole rivelazione dell’articolo del New York Times è stata che la forza degli anticorpi contro le varianti «è diminuita sostanzialmente di sei mesi dopo la seconda dose», per coloro che hanno ricevuto il vaccino contro il coronavirus Moderna.
«In una chiamata sugli utili della scorsa settimana, Pfizer ha anche affermato che il suo booster [dose supplementare di vaccino, ndr] ha aumentato gli anticorpi al di sopra del loro livello originale. Gli studi di richiamo di entrambe le società devono ancora essere pubblicati su una rivista scientifica» scrive il NYT.
Il rapporto del New York Times ha osservato che paesi come Germania, Francia e Israele hanno già iniziato a somministrare colpi di richiamo ai loro cittadini per «rafforzare la loro immunità di fronte a un’ondata di casi guidata da Delta», aggiungendo che l’amministrazione Biden sta «considerando una strategia simile».
Anche l’OMS sta facendo il ragionamento sulla terza dose. In un impeto di terzomondismo immunitario, l’ente guidato dall’etiope Tedros Ghebreyesus ha domandato di posticipare la terza dose di vaccino COVID a settembre, così da consentire la vaccinazione «di almeno il 10% della popolazione di ogni Paese» del mondo.
Il rapporto di Pfizer e BioNTech sulla durata del proprio vaccino mRNA, che ha mostrato che l’efficacia stimata dei vaccini diminuisce di oltre il 12% dopo 6 mesi
L’Italia segue a ruota.
La terza dose e l’immunizzazione a scadenza semestrale erano stati tirati in ballo dal dottor Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità: «Per ora sappiamo che la risposta immunitaria va oltre i 6 mesi, nuovi studi dicono più di 8. Sono, però, dati in via di aggiornamento. Per questo oggi non possiamo ancora dire se e quando sarà necessaria».
«Diverso è il discorso per gli immunodepressi che hanno una risposta più debole e per cui si stima opportuno un richiamo a 6-7 mesi dal completamento del ciclo vaccinale», ha proseguito il Brusaferro. L’idea che anche gli immunodepressi vadano vaccinati è discussa da Renovatio 21 con l’intervista ad un medico in un articolo uscito oggi.
Pochi giorni fa il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri ha dichiarato che «verosimilmente per la stagione autunnale e invernale è ipotizzabile che possa essere necessaria una terza dose a partire da coloro i quali sono più fragili o più anziani“
«Conosciamo l’efficacia dei vaccini a partire da ottobre-novembre e sappiamo che a oggi c’è ancora l’immunità per coloro che lo hanno fatto. Questa immunità, però, tenderà a ridursi nel corso dei mesi» ha puntualizzato il membro del partito del comico Beppe Grillo.
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L’Ucraina vieta gli episodi del «Trono di spade» con un attore russo
Piattaforme di streaming ucraine stanno eliminando gli episodi della quarta stagione di Game of Thrones (in italiano noto come Il trono di spade che includono l’attore russo Yurij Kolokolnikov, la cui fama internazionale è cresciuta negli ultimi anni, come riferito dai media locali. Lo riporta la stampa russa.
Ad agosto il ministero della Cultura ucraino lo ha inserito nella blacklist di individui ritenuti una minaccia per la sicurezza nazionale di Kiev, citando la sua partecipazione a film finanziati dallo Stato russo, dove lavora anche come regista e produttore.
Secondo la stampa russa, dalle stesse piattaforme sarebbero sparite altre opere con Kolokolnikov, tra cui la terza stagione di The White Lotus, il film Tenet di Cristoforo Nolan e il recente action-movie targato Marvel Kraven il cacciatore. Gli screenshot diffusi sabato mostrano il messaggio: «Questo contenuto non è visualizzabile in Ucraina».
L’agenzia Statale per il Cinema ha ordinato a distributori e media di rimuovere film e serie specifici dai cataloghi broadcast e streaming, ha riportato Kommersant Ucraina. L’agenzia sta inoltre dialogando con piattaforme internazionali per estendere il blocco ai titoli proibiti.
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Kolokolnikov ha recitato in numerose produzioni occidentali negli ultimi dieci anni; tra i progetti recenti, Caught Stealing di Darren Aronofsky (2025) e The Last Frontier (2025) per Apple TV.
Dall’intensificarsi del conflitto ucraino nel febbraio 2022, gli artisti russi subiscono restrizioni crescenti all’estero: film esclusi dai festival, proiezioni annullate, attori e registi disinvitati o banditi da eventi culturali in Occidente. Mosca denuncia tali misure come «censura russofoba», sostenendo che i tentativi di «cancellare» la cultura russa siano destinati al fallimento.
Il destino della cancellazione culturale per motivi geopolitici è inflitto anche allo storico balletto Lo Schiaccianoci del compositore Pëtr Il’ič Tchaikovskij, un grande classico internazionale per le famiglie che vanno a teatro prima di Natale.
Come riportato da Renovatio 21, la campagna dell’Ucraina contro la musica russa in tutto il mondo coinvolge anche cantanti di altissimo livello, come il soprano Anna Netrebko, la cui presenza è stata contestata in varie città europee.
Il livello più grottesco è stato forse toccato all’inizio del 2024, quando la direttrice Keri-Lynn Wilson, moglie del direttore generale del Metropolitan Opera di Nuova York Peter Gelb, ha annunciato che la sua «Ukrainian Freedom Orchestra» avrebbe modificato la famosa nona sinfonia di Beethoven (conosciuta anche come An die Freude, cioè Inno alla gioia) sostituendo nel testo la parola «Freude» con «Slava». «Slava ukraini» o «Gloria all’Ucraina» era il famigerato canto delle coorti ucraine di Hitler guidate dal collaborazionista Stepan Bandera durante la Seconda Guerra Mondiale. Da allora è stato conservato come canto di segnalazione dalle successive generazioni di seguaci di Bandera, i cosiddetti «nazionalisti integrali», chiamati più semplicemente da alcuni neonazisti ucraini o ucronazisti.
Vi è poi stata la vicenda dell’artista australiano Peter Seaton, costretto a cancellare un suo grande murale soprannominato «Peace Before Pieces», che mostrava un soldato russo e uno ucraino che si abbracciano, dopo le pressioni della comunità ucraina locale e dell’ambasciatore in Australia che aveva bollato il lavoro come «offensivo».
Come riportato da Renovatio 21, la censura ucraina si è vista anche in Italia: è il caso del Teatro Comunale di Lonigo, dove due anni fa, dopo lo scoppio della guerra ucraina, doveva andare in scena Il lago dei cigni, altro capolavoro di Tchaikovskij.
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Trump fissa a 7.500 il numero di rifugiati ammessi, dando priorità ai sudafricani bianchi
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Stati Uniti, l’ondata conservatrice raggiunge i giovani sacerdoti
È stato appena condotto un nuovo studio su larga scala sulla mentalità del clero negli Stati Uniti: rivela il divario generazionale tra i giovani sacerdoti e i loro predecessori riguardo al concetto stesso di cattolicesimo. E non necessariamente nel modo che ci si potrebbe aspettare.
Fare del vecchio con del nuovo: i giovani sacerdoti oltreoceano stanno dimostrando che la parabola del Vangelo è sbagliata? Secondo il National Survey of Priests, i cui risultati sono stati pubblicati il 14 ottobre 2025, il sondaggio, condotto da The Catholic Project presso la Catholic University of America, rivela le linee di frattura che attraversano il clero: i giovani sacerdoti sono più inclini a definirsi «teologicamente conservatori» e a considerare l’accesso alla Messa latina tradizionale una priorità.
Il rapporto fa seguito a uno studio iniziale sui sacerdoti negli Stati Uniti, pubblicato nel 2022, che all’epoca costituiva il più ampio sondaggio sull’argomento in oltre mezzo secolo. I risultati hanno evidenziato un clero che nutre una certa sfiducia nei confronti dei vescovi e vive nel timore di essere falsamente accusato di abusi.
Qualche anno dopo, il nuovo studio evidenzia che la percentuale di sacerdoti americani neoordinati che si identificano come teologicamente «progressisti» è invertita rispetto a quella dei loro predecessori nel sacerdozio: mentre oltre il 70% dei sacerdoti ordinati prima del 1975 si identifica con le tendenze più moderne, solo l’8% si identifica con coloro che sono stati ordinati dopo il 2010.
Analogamente, oltre il 70% dei giovani sacerdoti si identifica con le etichette di «conservatore» o addirittura «molto conservatore», secondo un sondaggio d’opinione condotto dal Gallup Institute lo scorso maggio e giugno su un campione rappresentativo di 1.164 sacerdoti, sempre negli Stati Uniti.
Il divario generazionale gioca ancora un ruolo nelle questioni liturgiche: solo l’11% dei sacerdoti ordinati prima del 1980 ritiene che l’accesso alla Messa in latino tradizionale debba essere una priorità, rispetto al 20% di coloro che sono stati ordinati tra il 1980 e il 1999 e al 39% di coloro che sono stati ordinati negli anni 2010. Eppure, molti vescovi americani, contrariamente alle tendenze tra i sacerdoti più giovani, hanno limitato la celebrazione della Messa tradizionale dopo la pubblicazione di Traditionis Custodes nel 2021.
Sembra che lo spirito di «ascolto» e «partecipazione» abbia i suoi limiti quando si tratta di bloccare un ritorno alle pratiche tradizionali…
Allo stesso modo, e sempre secondo il National Clergy Survey, i sacerdoti più giovani sono più inclini a enfatizzare la devozione eucaristica e molto meno sensibili dei loro predecessori alle questioni ecologiche, migratorie o «sociali», in particolare per quanto riguarda la controversa «inclusività» dei «cattolici LGBT».
Il dibattito tra tradizionalisti e modernisti non è meno acceso riguardo alla sinodalità: solo il 29% dei sacerdoti ordinati dopo il 2000 la menziona come priorità, rispetto al 57% del gruppo di sacerdoti ordinati tra il 1980 e il 1999, e al 77% dell’ultimo gruppo ordinato prima del 1980 che crede ancora nei mantra postconciliari.
Anche il posto delle donne nella Chiesa, un tema caro al defunto Papa Francesco, non è una priorità per i giovani sacerdoti, tutt’altro: mentre oltre due terzi dei sacerdoti ordinati prima del 1980 hanno dichiarato di essere «estremamente preoccupati» per questo tema, solo il 20% di coloro che sono stati ordinati nel terzo millennio condivide questa priorità.
Il rapporto esamina anche le opinioni dei sacerdoti su Papa Leone XIV, eletto l’8 maggio 2025: l’86% esprime una fiducia «grande» o «abbastanza grande» nel nuovo pontefice, e l’80% ritiene che le relazioni tra la Santa Sede e la Chiesa americana dovrebbero migliorare significativamente in futuro.
Ciò non sorprende se si considera che l’attuale successore di Pietro è anche il primo papa americano della storia. Resta da vedere se i prossimi mesi confermeranno le speranze e le legittime aspirazioni del clero d’oltreoceano.
Articolo previamente apparso su FSSPX.News
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
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