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L’apostolato della FSSPX e lo «stato di necessità»

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Un sito di matrice ciellina sta pubblicando, per qualche ragione, articoli di attacco contro la Fraternità San Pio X (FSSPX), il suo fondatore, la sua istituzione, i suoi stessi sacerdoti, anche con considerazioni molto gravi. Ignoriamo ad oggi, le motivazioni di questi improvvisi attacchi – nonostante qualche voce e qualche analisi che ci sia arrivata. Per fugare qualsiasi dubbio possano avere i fedeli riguardo alla FSSPX, la sua Santa Messa e i suoi sacerdoti, Renovatio 21 pubblica per gentile concessione del suo autore questo saggio di Don Mario Tranquillo uscito tredici anni fa per la pubblicazione della Fraternità San Pio X La Tradizione Cattolica (anno XXI, n° 3 [76], 2010, pag. 18 – 24)

 

 

Et respondens ad illos dixit:
Cuius vestrum asinus, aut bos
in puteum cadet, et non continuo
extrahet illum die sabbati? (Lc 14,5)

 

 

Anche dopo la rimozione delle cosiddette scomuniche si continua a definire illegittimo il ministero dei sacerdoti della Fraternità San Pio X, perché non inquadrato in una forma canonica. Infatti questi sacerdoti confessano e amministrano i sacramenti quasi fossero parroci, mentre le autorità ordinarie della Chiesa non hanno concesso loro alcun titolo per esercitare alcun tipo di ministero.

 

Ci proponiamo dunque in questo testo di esaminare a quale titolo i sacerdoti della Fraternità continuino ad esercitare il loro apostolato, e in base a quali norme divine e giuridiche. In effetti essi invocano spesso uno «stato di necessità»: che cos’è questo stato, e quali facoltà giuridiche permette di esercitare? È forse lo stato di necessità una sorta di giungla, di regressione a uno stato pre-sociale, o è invece una situazione straordinaria in cui si applicano norme straordinarie, mentre sarebbe erroneo pretendere di applicare alla lettera quelle ordinarie? Esiste cioè, di diritto e di fatto, una situazione tale da rendere impossibile o inutile o addirittura dannosa l’applicazione delle leggi positive ordinarie, e da esigere invece il ricorso all’applicazione di norme più alte, non certo arbitrarie ma previste dal legislatore e dal diritto divino?

 

In questo articolo vorremmo mostrare quanto sia assolutamente legittimo, opportuno e adeguato alla situazione il tipo di apostolato svolto dalla Fraternità San Pio X.

La necessità, definizione e divisione

Parliamo qui dello stato di necessità spirituale, cioè della necessità di ricevere i sacramenti (e secondariamente gli altri aiuti che predispongono alla ricezione dei medesimi, dai sacramentali all’istruzione alle varie opere di misericordia spirituale); non ci occupiamo dello stato di necessità corporale, che riguarda l’obbligo in carità di prestare soccorso secondo le opere di misericordia corporale.

Lo stato di necessità spirituale è di tre tipi, se lo dividiamo quanto alla sua gravità:

 

• necessità estrema: è quella di chi non può sottrarsi a un pericolo certo e prossimo di perdere la propria anima senza l’aiuto di un altro. Questo è il caso del bambino che rischia di morire senza battesimo o del peccatore in punto di morte che non sa o non può fare un atto di contrizione perfetta, che sia fedele o infedele.

• necessità grave: è quella che si supera solo con grave difficoltà, per esempio in caso di un pericolo prossimo di perdere la fede o la grazia. Questa necessità è tipica del peccatore in pericolo di morte (la differenza con la precedente sta nel fatto che qui si suppone che possa al limite salvarsi con un atto di contrizione perfetta), ma anche di chi corre un pericolo ravvicinato di perdersi senza aiuto.

 

• necessità comune: è quella di chi senza aiuto potrebbe cadere in peccato, anche se il pericolo potrebbe essere superato senza tale aiuto. Qui l’aggettivo comune indica il fatto che tale situazione è quella abituale alla maggior parte delle situazioni della vita degli uomini.

 

Chiaramente i pastori d’anime sono tenuti in giustizia a soccorrere i loro sudditi in tali necessità, peccando più o meno gravemente a seconda del tipo di necessità in cui quelli versano; gli altri sacerdoti (e anche i laici, al loro livello) possono essere tenuti in carità a prestare ausilio a coloro che sono nella necessità spirituale, ognuno secondo le proprie possibilità e con più o meno urgenza a seconda della gravità della necessità stessa.

La situazione attuale: necessità grave generale

Ora ci chiediamo quale sia la situazione attuale, quale stato di necessità sia quello in cui versano oggi i fedeli della Chiesa. In seguito cercheremo di capire come si possa e si debba venire in soccorso a tale situazione.

 

In tutta la Chiesa oggi esiste una crisi conclamata. Essa consiste essenzialmente nel fatto, ammesso fino a un certo punto anche pubblicamente dalla stessa suprema autorità della Chiesa, che è oggi quasi impossibile continuare a vivere da cattolici nelle strutture ordinarie della Chiesa (questo non inficia ovviamente l’indefettibilità della Chiesa, dato che entrano in gioco, come vediamo in questo articolo, i mezzi straordinari dei quali la Chiesa è dotata).

 

Tutti gli aspetti della vita cattolica sono diventati problematici: anzitutto la professione esterna e completa della fede senza ambiguità, ma anche la liturgia, la vita sacramentale, la vita di preghiera, l’insegnamento della fede tanto nel catechismo quanto nella formazione dei sacerdoti, l’insegnamento morale conforme alla dottrina in tutti i suoi aspetti, la frequentazione di un ambiente pericoloso per la fede etc.

 

Solo per fare un esempio concreto, basti pensare alla difficoltà oggettiva che incontra il fedele medio che necessita di ricorrere al sacramento della confessione: ammesso e non concesso che trovi un confessore disposto ad ascoltarlo e che creda ancora e realmente in questo sacramento, il fedele non ha più – generalmente parlando – le garanzie necessarie di essere confessato, istruito, guidato e assolto secondo la morale che ha sempre contraddistinto la prassi cattolica, con particolare riferimento al senso del peccato, al dramma del peccato mortale, alla conoscenza di ciò che è peccato, alla necessità della grazia per essere perdonati e salvarsi, etc.

 

Tutti questi fattori ovviamente non hanno lo stesso carattere generale, e non hanno nemmeno tutti la stessa importanza; né si trovano necessariamente tutti riuniti, né tutti sono ugualmente approvati o causati dalle autorità stesse. Li possiamo dividere in due grandi gruppi, il primo generale e uniforme ovunque, il secondo estremamente variabile.

 

1.

Anzitutto ogni fedele o sacerdote oggi si trova a dover prender posizione contro degli errori che sono comunemente diffusi nell’intero episcopato residenziale. Praticamente la totalità dei Vescovi diocesani professa, almeno esternamente, i principali errori del Vaticano IIE questa professione esterna d’errore (o al minimo un tacito assenso) è richiesta a tutto il clero, compreso quello che celebra l’antico rito, per potersi dire inserito nel quadro ufficiale della gerarchia e ottenere cura d’anime in modo ordinario.

 

I rarissimi esempi di parroci o altri pastori ordinari che conservano il loro posto pur prendendo chiaramente posizione contro le nuove dottrine e la nuova liturgia non alterano la sostanza del problema, semmai la confermano proprio per la loro eccezionalità. Quindi il cattolico (e in particolare il sacerdote) si trova nella oggettiva difficoltà di non cadere in una professione di fede quantomeno ambigua sulle nuove dottrine, e di non partecipare o approvare un culto che, secondo la notissima espressione dei Cardinali Ottaviani e Bacci, «si allontana in modo impressionante dalla dottrina cattolica sulla santa Messa definita a Trento».

 

Questo stato di cose, lo sottolineiamo di nuovo, è universale: siamo di fronte sotto questo aspetto a una necessità generale comune; il permanere di questa situazione sarebbe di per sé sufficiente a invocare tale stato di necessità.

2.

In secondo luogo a tale situazione universale si aggiungono mille ostacoli messi alla vita cattolica dagli stessi pastori, quelli che potremmo chiamare «gli abusi» di mille generi: da quelli pastorali e liturgici (anche oltre le nuove norme) alle enormità dottrinali, che vanno anche oltre la lettera del Vaticano II, e che vengono insegnate dal catechismo dei bambini fino ai seminari e alle università pontificie, passando per molte cattedre episcopali.

 

L’autorità suprema a volte condanna, a volte tollera, a volte incoraggia questo stato di cose; raramente passa a un’azione davvero efficace: questo perché si è giunti a una situazione di ingovernabilità, frutto dell’astensione da veri atti di Magistero (l’agire della volontà segue i principi cui l’intelligenza aderisce).

 

Una vasta letteratura dà ampio resoconto di queste mille situazioni. Tali abusi possono essere appunto più o meno gravi, più o meno palesi, o addirittura inesistenti: essi aggravano o alleviano lo stato di necessità, ma non ne cambiano la natura: per quello che abbiamo detto nel punto precedente, la necessità resta grave e generale.

 

Se cessasse la situazione descritta nel primo punto, cesserebbe anche lo stato di necessità, visto che da questi «abusi» si potrebbe uscire in modo ordinario, senza ricorrere a mezzi eccezionali. Diciamo che si potrebbe, non che sia facile: molti sacerdoti e fedeli, anche senza contestare il Vaticano II, non riescono neppure a evitare quegli abusi che sono contro le stesse nuove leggi, a causa della pressione che ricevono dall’ambiente in cui si trovano. Immaginate la difficoltà, ad esempio, anche solo di un parroco che volesse fare in modo che i ministri straordinari della Comunione diventino davvero straordinari (non parliamo nemmeno di un parroco che volesse ripristinare unicamente l’antica Messa).

 

Cosa si possa o si debba fare nella necessità grave generale

Secondo il Dictionarium morale et canonicum del card. Pietro Palazzini, specie di summa di tali scienze pubblicato alla vigilia del Concilio dai più grandi canonisti e moralisti romani, e che riprende quindi le dottrine più certe e le interpretazioni più ufficiali, la necessità grave comune corrisponde alla necessità estrema del singolo, in ragione della preminenza del bene comune sul bene privato. Questo punto ha due conseguenze che scaturiscono l’una dall’altra, la prima a livello dei doveri e la seconda riguardo ai poteri concessi in questa situazione.

Secondo i precetti della carità, è un dovere grave soccorrere il prossimo nell’estrema necessità, e secondo quanto detto sopra lo è anche nella grave necessità comune. Palazzini dice esplicitamente che ogni sacerdote anche senza cura d’anime è tenuto ex caritate a soccorrere sub gravi il prossimo nell’estrema necessità spirituale dandogli i sacramenti, anche con pericolo di vita. E che lo stesso è tenuto a fare nella grave necessità generale. In poche parole, quando tutta una comunità è in difficoltà chiunque sia in grado deve dare una mano secondo le sue possibilità.

 

Questo dovere di carità fonda anche le facoltà che la Chiesa dà ai sacerdoti in questi casi: in particolare tutti gli atti del potere d’ordine diventano leciti, e la giurisdizione per ascoltare le confessioni viene concessa a tutti i sacerdoti. Come è esplicitamente concesso dai canoni (c. 882; nc. 976), ogni sacerdote può lecitamente e validamente assolvere il fedele in punto di morte, cioè nell’estrema necessità; ma a quest’estrema necessità del singolo è appunto equiparata la grave necessità comune, non solo per i doveri ma evidentemente anche per le facoltà concesse onde poter adempiere a tali doveri; quindi attualmente ogni sacerdote può venire in soccorso al fedele che gli chiede l’assoluzione, ricevendo in quel preciso momento la giurisdizione necessaria per farlo a norma del diritto.

 

Si prendano come esempi analoghi le situazioni di alcuni Paesi di persecuzione, dove ogni sacerdote che può all’occasione prestare soccorso a dei fedeli lo può fare anche se questi non sono in punto di morte e non sono suoi sudditi.

Un principio speculare

Al concetto della grave necessità corrisponde specularmente il problema del grave incomodo. In generale il grave incomodo (o grave impedimento) nell’ordine spirituale è qualsiasi pregiudizio notevole per l’anima della persona o di terzi. Ora vi è un fondamentale principio morale e giuridico, ammesso da tutti i canonisti e i moralisti (cf. can. 20): Lex positiva non obligat cum gravi incommodo: in presenza di un grave incomodo ogni legge puramente positiva (cioè umana, non la legge naturale o quella divina) cessa di obbligare.

 

La grave necessità attuale poggia proprio sul fatto che ci sarebbe un grave incomodo per la fede, anzi spesso un vero e proprio ostacolo alla professione della medesima, nel rispettare numerose leggi positive anche ecclesiastiche. Per fare un esempio diverso, un sacerdote imprigionato dai persecutori può e deve celebrare la Messa e comunicare, specie se la morte è imminente per sé o per altri, purché osservi ciò che è diritto divino, cioè abbia pane di frumento e vino d’uva e dica le parole consacratorie; ma indubbiamente non è tenuto ad osservare le leggi liturgiche, né ad avere i paramenti etc., né a pronunciare tutte le preghiere del Messale: tutte prescrizioni gravi ma di diritto puramente ecclesiastico, che in quel momento non lo obbligano, poiché urge il precetto divino di comunicare in punto di morte.

 

La Fraternità San Pio X sarebbe completamente paralizzata nella sua opera se, ad esempio, fosse costretta ad osservare le leggi puramente ecclesiastiche circa l’apertura di nuove case o luoghi di culto, circa le ordinazioni con il consenso degli Ordinari dei luoghi, circa le limitazioni poste dal diritto al lecito esercizio del potere d’ordine etc. Infatti sarebbe impedita di fare tutte queste cose a meno di accettare in qualche modo la nuova dottrina (tale è indiscutibilmente la situazione attuale), il che sarebbe – molto più che un incomodo – un vero danno per la professione di fede.

 

Questo non vuol dire cadere in uno stato di anarchia, ma semplicemente capire che il ruolo delle leggi positive (e degli ordini singolari dei Prelati) è subordinato all’osservanza dei precetti divini, primo fra tutti l’obbligo di non cadere in ambiguità nell’espressione di fede, specie sui punti di dottrina che possono essere a rischio in un’epoca determinata. Non si passa all’illegalità, ma all’osservanza di leggi più elevate. Il bene comune vuole che in tali gravi casi ognuno agisca secondo le sue possibilità, che per il sacerdote sono quelle del potere d’ordine (cf. San Tommaso, Suppl. q. 8 a.6).

 

Questo stesso grave incomodo generale giustifica ad esempio il fatto di non presentarsi al proprio parroco per il matrimonio, dato il rischio oggettivo di dover partecipare a catechesi o funzioni di dubbia dottrina, o anche solo di sembrar aderire alle nuove dottrine, il che è certamente un grande pericolo per il massimo bene, la conservazione della fede. Si può quindi e in molti casi si deve ricorrere alla forma canonica straordinaria del matrimonio, esplicitamente prevista in caso di grave incomodo dai canoni, in presenza dei soli testimoni ed eventualmente di un qualsiasi sacerdote che possa benedire le nozze (c. 1098; nc. 1116).

 

Diamo qui un ulteriore spunto, che meriterebbe più ampia trattazione: a ben vedere, in ultima analisi è questo stesso principio insieme a quello della grave necessità generale che ha permesso l’ordinazione dei quattro Vescovi da parte di Mons. Lefebvre nel 1988. Fermo restando che sarebbe contro il diritto divino pretendere di conferire la giurisdizione episcopale, cosa propria al Romano Pontefice, non lo è di per sé il consacrare dei Vescovi quanto all’Ordine senza il di lui consenso (e infatti tale atto era punito fino a Pio XII solo con la pena della sospensione, segno che si tratta di disposizioni disciplinari).

 

Davanti quindi alla necessità grave per il bene generale di trasmettere il potere d’Ordine senza dover sottostare al grave incomodo (o meglio danno) di accettare un’ambigua professione di fede, venivano a cessare le leggi positive che obbligano a ottenere il consenso del Pontefice per consacrare dei Vescovi, e con esse le pene collegate a tale atto (come è esplicitamente previsto dal diritto stesso, che libera dalla pena chiunque abbia agito spinto dalla necessità: c. 2205 §2; nc. 1323).

 

Risposta a un’obiezione e conclusioni

Il vero punto di discordia con i novatori in questo ragionamento non è tanto su quali siano le facoltà o i doveri di ciascuno in uno stato di necessità come quello descritto, quanto l’esistenza di questo stato di necessità.

 

Evidentemente chi accetta e promuove o comunque giustifica le nuove dottrine, magari affermando che non sono nuove ma che sono in linea con il Magistero precedente, non può ammettere il primo motivo che noi abbiamo addotto per presentare la gravità universale della situazione attuale. Quanto al secondo punto, oggi molti sono disposti ad ammetterne l’esistenza, e le stesse autorità sembrano voler porre mano a questi cosiddetti «abusi»: in questo i difensori della continuità sono disposti a darci ragione, addossando quindi alla cattiva lettura del Concilio l’attuale situazione.

 

Tuttavia questo non sarebbe sufficiente a ricorrere ai mezzi estremi cui è ricorso mons. Lefebvre con la sua Fraternità. Soprattutto si rinfaccia alla Fraternità di invocare uno stato di necessità che le autorità smentirebbero, almeno per la sua componente essenziale.

 

In realtà si deve notare che non si può pretendere che chi è causa di questo stato di necessità, ovvero le autorità stesse, ne riconosca l’esistenza. Proprio in questo punto sta la specificità assoluta di questo stato di necessità. Indirettamente sono gli stessi fautori della continuità che attribuiscono alle dottrine conciliari la causa della situazione attuale.

 

Questi testi sarebbero stati l’oggetto di una cattiva lettura che dura ancor oggi, segno almeno che un qualche problema lo pongono. Occorre semplicemente capire che coloro che rifiutano l’esistenza dello stato di necessità sono gli stessi che accettano, sia pure in vari modi e misure, gli errori del Vaticano II: quindi il riconoscimento da parte dell’autorità di tali errori, che noi speriamo possa in qualche modo essere frutto dei colloqui romani e delle nostre preghiere, comporterà ipso facto il riconoscimento dell’esistenza dello stato di necessità, e probabilmente anche la cessazione del medesimo, almeno nella sua componente essenziale.

 

Per quanto ci riguarda, riteniamo che il non ricorrere al ministero straordinario di cui si avvale, rappresenterebbe per la Fraternità San Pio X una grave omissione ed un’imperdonabile mancanza di soccorso alle anime vittime della crisi attuale che attanaglia la Chiesa e che non hanno scelto di nascere in questo periodo.

 

A mali estremi, estremi rimedi. Beninteso nessuno pretende darsi una missione che non ha: semplicemente è la Carità ad imporre ad ogni sacerdote di soccorrere il fratello nel bisogno spirituale con strumenti proporzionati all’entità di tale necessità.

Suprema lex salus animarum.

 

 

Don Mauro Tranquillo

 

 

 

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La storia epica della cristianità in Giappone: una mostra

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Dal 15 marzo al 13 luglio 2024, le Missioni Estere di Parigi (MEP) organizzano una mostra dal titolo: «Da Samurai a Manga: l’epica cristiana in Giappone». Un’occasione per scoprire questo capitolo delle missioni cattoliche e per conoscere meglio le Missioni Estere di Parigi. Questo articolo riassume la presentazione fatta sul suo sito web.

 

La storia dell’evangelizzazione del Giappone presenta inizialmente due aspetti: a volte una rapida espansione, a volte una serie di battute d’arresto e disastri sfociati in tragedie.

 

Il «secolo cristiano»

San Francesco Saverio sbarcò in Giappone a Kagoshima (Satsuma) nel 1549, durante i primi tentativi di unificazione del Paese. L’espansione del cattolicesimo fu notevole e portò alla conversione di numerosi governatori (daimyo). Grazie al permesso di evangelizzare, i missionari gesuiti aumentarono gradualmente il numero dei battezzati.

 

Il gesuita Alessandro Valignano arrivò nel 1579 come visitatore delle missioni. Nel 1582 organizza la prima ambasciata in Europa, che incontra papa Gregorio XIII nel 1585. Ma una prima messa al bando del cristianesimo fu imposta dallo shogun Toyotomi Hideyoshi nel 1587 con l’esilio dei missionari. Il 5 febbraio 1597 furono crocifissi a Nagasaki 26 martiri.

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Segretezza

A partire dal 1614 gli shogun cercarono di eliminare il cattolicesimo: a partire da questa data ogni famiglia doveva essere registrata presso un tempio buddista. Poi, a partire dal 1619, nelle città e nei villaggi di tutto il Paese furono affissi cartelli che ricordavano la messa al bando del cristianesimo, offrendo cospicue ricompense per la denuncia dei cristiani.

 

Scene di martirio furono testimoniate a Kyoto nel 1619, a Nagasaki nel 1622 e a Edo (Tokyo) nel 1623. La tortura sistematica apparve intorno al 1630 per promuovere l’apostasia. Fu in questo contesto che nel 1613 il daimyo di Sendai inviò un’ambasciata presso il viceré del Messico per ottenere l’apertura di una via commerciale transpacifica. In cambio, la religione cristiana sarebbe tollerata.

 

L’ambasciata fu affidata al samurai Hasekura Tsunenaga, accompagnato dal francescano spagnolo Luis Sotelo. Il viceré inviò messaggeri al re di Spagna, Filippo III. Il re inviò infine gli ambasciatori a papa Paolo V, che li ricevette nel novembre 1615. Ma Paolo V restituì la decisione finale al monarca spagnolo, che rifiutò di rivedere gli inviati del daimyo di Sendai.

 

Il fallimento dell’ambasciata provocò la messa al bando del cristianesimo e la caccia ai cristiani. Riuscito a tornare segretamente in Giappone, Luis Sotelo fu bruciato vivo a Tokyo nel 1623. Iniziava il periodo delle grandi persecuzioni. La popolazione cristiana, stimata in 650.000 persone, fu decimata. Furono inflitte terribili torture.

 

La ribellione di Shimabara (1637-1638), organizzata dai contadini cristiani sotto lo shogunato Tokugawa, fu repressa ferocemente, con l’appoggio della marina olandese, che sparò con i suoi cannoni sul castello di Hara, dove si erano rifugiati i ribelli, per sostenere la rivolta. truppe lealiste. Il massacro di 30.000 cristiani durò tre giorni.

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Il cristianesimo emerge dall’ombra

Nel XIX secolo la Francia voleva recuperare il tempo perduto nella corsa per l’Asia. La Santa Sede non aveva rinunciato a rifondare una missione in Giappone. Infine, le Missioni Estere di Parigi aspiravano a riconquistare il prestigioso campo missionario del Giappone. Il primo trattato franco-giapponese fu firmato nel 1858, ma la presenza dei ministri religiosi era consentita solo agli occidentali; il cristianesimo rimase proibito ai giapponesi. I missionari si stabilirono in concessioni riservate agli stranieri a Hakodate, Kanagawa e Nagasaki.

 

Il 17 marzo 1865 un gruppo di giapponesi si presentò come cristiano a padre Bernard Petitjean (1829-1884) delle Missioni Estere di Parigi, che si erano stabilite a Nagasaki e vi avevano costruito una chiesa, consacrata nel 1865. I missionari scoprirono organizzazione, riti ed elementi dottrinali trasmessi segretamente per 250 anni, senza sacerdoti e con pochissimi scritti. Ma la persecuzione, con arresti ed esecuzioni, era ancora in corso, soprattutto nel 1856 a Urakami, vicino a Nagasaki.

 

La persecuzione più lunga e più dura ebbe luogo tra il 1867 e il 1873, anni che videro il crollo del regime Tokugawa e la restaurazione del regime imperiale. Il regime instauratosi con il periodo Meiji (1868) portò avanti un’opera trasformativa: la modernizzazione delle strutture politiche ed economiche. Ma nei confronti dei cristiani è stata adottata una linea dura.

 

Fu promossa una teocrazia imperiale fondata sullo shintoismo. I leader erano a disagio riguardo alle vere intenzioni degli occidentali e il sentimento anticristiano era al suo culmine. La nomina di padre Petitjean come vescovo nel 1866 scatenò la persecuzione: nel 1868 si decise di deportare i cristiani di Urakami in 60 diversi feudi in tutto il Giappone.

 

Nel 1872 iniziò una distensione: la politica anticristiana fu finalmente sepolta. I cartelli che vietavano il cristianesimo, in vigore dal XVII secolo, furono rimossi nel febbraio 1873. I cristiani di Urakami poterono tornare a casa e fu loro concessa la libertà religiosa.

 

Libertà sotto sorveglianza

Le missioni itineranti venivano organizzate grazie ad una certa libertà di movimento. Il passaporto interno, limitando la permanenza nello stesso luogo a tre giorni, spingeva i missionari a percorrere vaste regioni. Dal punto di vista politico, emerse uno Stato shintoista, nazionalista e guidato dall’imperatore: prese le distanze dal buddismo e rimase diffidente nei confronti del cristianesimo o addirittura ostile ad esso.

 

La prima Costituzione del Giappone, nel 1889, concedeva la libertà religiosa, anche se molto limitata. Alla fine era solo ciò che il governo aveva effettivamente consentito dal 1873. Ciò consentiva la creazione di diocesi e l’istituzione della Chiesa al di fuori delle enclavi in ​​cui era stata relegata. Le Missioni Estere di Parigi chiesero quindi alle suore di prendersi cura di orfanotrofi, scuole e dispensari.

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Altre congregazioni si ristabilirono sul suolo giapponese: domenicani, francescani e gesuiti, che erano stati espulsi due secoli e mezzo prima. Ma con il Rescritto Imperiale del 30 ottobre 1890 la fedeltà all’Imperatore divenne fondamentale. Si riteneva che ciò presentasse l’urgente necessità di formare un clero autoctono nel caso in cui i missionari fossero stati nuovamente scacciati.

 

L’aumento della potenza militare dell’arcipelago – le vittorie contro Cina, Taiwan e Russia, l’annessione della Corea, l’invasione della Manciuria – spinsero il regime verso l’esercito. La Chiesa si adattò al Giappone e si raggiunse un accordo sulla questione dei riti dovuti all’Imperatore. Con la seconda guerra mondiale la situazione degli stranieri all’interno della Chiesa in Giappone divenne sempre più difficile.

 

Dopo la sconfitta, la Costituzione del 1946, ancora in vigore, consentiva la totale libertà del cattolicesimo.

 

La Chiesa in Giappone dal 1945 ad oggi

Secondo le statistiche del 2023, i cattolici sono 431.100, tra cui 6.200 seminaristi, sacerdoti e religiosi, che costituiscono lo 0,34% della popolazione giapponese. Ma questo numero tiene conto solo dei cattolici «registrati», un sistema ereditato dal tempo della persecuzione. Tra i migranti – soprattutto persone provenienti dall’America Latina, dalle Filippine e dal Vietnam – la popolazione cattolica è stimata all’1%.

 

Tuttavia, la Chiesa ha molte istituzioni – ospedali, scuole, centri assistenziali e persino università – che danno al cattolicesimo una presenza significativa nella società giapponese.

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.news.

 

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia

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«Scie di uomini malvagi e spietati avvelenano l’aria che respiriamo». Omelia di mons. Viganò nell’Ascensione del Signore

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Renovatio 21 pubblica l’omelia di monsignor Carlo Maria Viganò del 9 maggio 2024, Ascensione di Nostro Signore.      

Et inimici domini domestici ejus. E i famigliari del padrone saranno i suoi nemici.

Mt 10, 36

  Troppo spesso guardiamo a questo mondo con l’atteggiamento e le speranze di chi lo ritiene un luogo di permanenza e non di passaggio verso la meta celeste, mentre sappiamo che il nostro pellegrinaggio su questa terra ha come destinazione ineluttabile l’eternità: un’eternità di beatitudine nella gloria del Paradiso o un’eternità di dannazione nella disperazione delle fiamme dell’Inferno.   E per questa nostra inclinazione al voler credere in un illusorio Hic manebimus optime consideriamo l’Ascensione di Nostro Signore quasi come un fatto anomalo, un abbandono da parte del Salvatore che ci lascia soli dopo nemmeno quaranta giorni dalla Sua Resurrezione.

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La fiamma del Cero pasquale che al canto del Vangelo viene spenta – a significare proprio il ritorno del Figlio Incarnato alla destra del Padre – ci sembra per così dire in contraddizione con quanto pochi giorni fa, per le Rogazioni, chiedevamo alla Maestà divina: di concedere, conservare e benedire i frutti della terra, di risparmiarci dal flagello del terremoto, di allontanare la folgore e la tempesta, la peste, la carestia, la guerra.   È difficile – dobbiamo riconoscerlo – riuscire ad essere di passaggio in un luogo che vorremmo felice e prospero, fertile e generoso, sereno e privo di conflitti. Ancor più difficile quando alzando gli occhi al cielo spesso lo vediamo solcato di scie con cui uomini malvagi e spietati avvelenano l’aria che respiriamo, inquinano i campi e le fonti, fanno marcire o seccare i raccolti, giungono addirittura ad offuscare la luce del sole.   L’inimicus homo non sparge solo la zizzania dove cresce il grano: egli vuole che la zizzania sia seminata e coltivata, e che sia il grano ad essere estirpato e gettato nel fuoco; che il vizio trionfi e la virtù sia calpestata; che la morte e la malattia siano celebrate, e la vita – anche nel sacrario del ventre materno o nell’innocenza dei bambini e dei deboli – sia colpita, sfregiata, amputata, manomessa.   Noi rimaniamo increduli e sconvolti dinnanzi a questo sovvertimento, perché non vogliamo accettare l’idea che alla natura ostile dopo la nostra caduta si sia ora aggiunta l’insidia ulteriore dell’homo iniquus et dolosus, che quella natura manipola, replica, imita in grotteschi surrogati artificiali, in cibi transgenici, in imitazioni senz’anima della Creazione, per l’odio che Satana nutre nei confronti del Creatore di tanta perfezione gratuita.   Il Signore si alza da questa valle di lacrime, ascende al cielo in jubilatione et in voce tubæ, quasi le schiere angeliche fossero felici di veder tornare il Figlio di Dio nel luogo d’origine, in quella dimensione eterna e immutabile in cui la Santissima Trinità è l’unico principio e fine degli spiriti eletti. Ma vi ascende dopo esser anch’Egli disceso propter nos homines et propter nostram salutem, incarnandoSi nel seno virginale di Maria Santissima, assumendo natura e carne umana, affrontando la Passione e la Morte su quella Croce che Lo ha elevato quale Pontifex futurorum bonorum (Ebr 9, 11), Sommo Sacerdote dei beni futuri, a metà strada proprio tra la terra e il cielo, a creare un mistico ponte tra noi e Dio.   E quell’umanità assunta da Nostro Signore nell’Incarnazione viene portata come insegna di trionfo del Victor Rex al cospetto dell’Eterno Padre, ed è per questo che il Suo Corpo santissimo porta ancora splendenti le Piaghe della Redenzione.

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Questo deve farci comprendere due concetti estremamente importanti.   Il primo: il senso della nostra vita terrena, che è pellegrinaggio verso l’eternità, esilio che speriamo con la Grazia di Dio essere temporaneo, prima di tornare alla vera Patria. E con questa persuasione, dobbiamo anche capire che i beni di questa terra – le ricchezze, il successo, il potere, i piaceri – sono zavorra della quale è indispensabile liberarci se vogliamo essere capaci di ascendere verso l’alto, di librarci in volo come la biblica aquila vola verso il Sole divino.   Il secondo: la necessità di fare tesoro di questo esilio, di questo peregrinare nel deserto verso la terra promessa, usando i doni e facendo fruttare i talenti che il Signore ci ha donato non per rendere più confortevole e duratura la lontananza dal Cielo, ma per accumulare quei tesori spirituali che né tignola né ruggine consumano, e che i ladri non scassinano e non rubano (Mt 6, 20).   Ciò non significa disprezzare la vita che la Provvidenza ci ha dato, ma piuttosto usarla per lo scopo che essa ha: la gloria di Dio, da ottenere mediante la nostra e altrui santificazione nell’obbedienza alla Sua volontà: fiat voluntas tua – recitiamo nel Padre Nostro – sicut in cœlo et in terra, ossia nella prospettiva dell’eternità che ci attende, e nella temporalità del passare dei giorni.   Così, mentre l’armonia divina del cosmo scandisce i giorni e le stagioni in cui si dipanano gli anni della nostra vita terrena – e per questo invochiamo dal Cielo le benedizioni sui nostri raccolti – nell’ordine soprannaturale abbiamo i ritmi cadenzati della Liturgia, che ci permettono di contemplare i divini Misteri e di godere di uno sprazzo di quell’eternità nella quale l’Agnello Immacolato celebra la Liturgia celeste, circondato dalle schiere degli Angeli e dei Santi.

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Oggi la nostra anima è chiamata a guardare il Signore che ci precede in Paradiso. Domani, risorti nel corpo e condotti al Giudizio, Lo vedremo tornare nella gloria: Hic Jesus, qui assumptus est a vobis in cœlum, sic veniet quemadmodum vidistis eum ascendentem in cœlum (At 1, 11): Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto in cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo, dicono i due Angeli ai Discepoli.   E sarà un ritorno in cui il tempo, come lo conosciamo, cesserà di essere ed entrerà nell’eternità divina proprio perché il consummatum est pronunciato dal Salvatore agonizzante sulla Croce quel Venerdì Santo di 1991 anni orsono varrà anche per il mondo e per l’umanità intera, giunti al termine della prova, dell’esilio, del pellegrinaggio terreno.   Il Cero pasquale rappresenta, come ci istruisce il Diacono nel solenne canto dell’Exsultet, il lumen Christi, Cristo vera Luce: come la colonna di fuoco che precedeva gli Ebrei nell’attraversare – sicco vestigio – il Mar Rosso, così Egli precede anche noi nel nostro passaggio in questo mondo, e nella fuga dai malvagi che ci inseguono.   Preghiamo di essere trovati degni di giungere in salvo, per non essere travolti dalle acque come i soldati del Faraone.   Che in questo esodo la Santissima Eucaristia sia nostro Viatico, e la Vergine Immacolata nostra Stella.   E così sia.   + Carlo Maria Viganò Arcivescovo   9 Maggio 2024 In Ascensione Domini

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Immagine: Benvenuto Tisi detto il Garofalo, Ascensione di Cristo (1510-1520), Galleria Nazionale d’Arte Antica, Roma.  Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia  
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Spirito

La conferenza episcopale UE sostiene l’allargamento della UE

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Il 19 aprile 2024 i membri della Commissione degli Episcopati della Comunità Europea (COMECE) hanno pubblicato una dichiarazione in cui chiedono di accelerare il processo di allargamento dell’Unione. Un testo dai toni progressisti, giudicato dai detrattori una posizione «fuori dal reale» a poche settimane dalle elezioni europee dove i partiti nazional-conservatori sono in ascesa.

 

«Al di là di una necessità geopolitica per la stabilità del nostro continente, consideriamo la prospettiva della futura adesione all’Unione Europea (UE) come un forte messaggio di speranza per i cittadini dei Paesi candidati e come una risposta al loro desiderio di vivere in pace e giustizia». La dichiarazione congiunta pubblicata dalla COMECE non dà realmente visibilità alla linea seguita dall’organismo incaricato dalla Chiesa di «dialogare» con le istituzioni europee.

 

Poco prima, i rappresentanti delle conferenze episcopali europee avevano tuttavia espresso la loro contrarietà all’inclusione di un cosiddetto «diritto» all’aborto nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE, come deciso dai Parlamentari l’11 aprile scorso.

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In questa occasione i vescovi hanno ribadito il loro «no all’aborto e alle imposizioni ideologiche», chiedendo che «l’Unione europea rispetti le diverse culture e tradizioni degli Stati membri e le loro competenze nazionali». Ma come potrebbe crescere il «rispetto» per queste diverse culture se i ventisette Stati dell’Ue diventassero trentaquattro, o addirittura trentacinque?

 

Perché nella coda di candidati che la COMECE sembra richiamare, ci sono innanzitutto i sei Stati balcanici dell’ex Jugoslavia, candidati dal 2003. Poi altri tre Paesi che vogliono uscire dall’orbita russa dopo lo scoppio della guerra in Ucraina: quest’ultima in primis, ma anche la Moldavia e forse anche la Georgia.

 

A chi rimprovera «una forma di ingenuità» ai prelati europei, mons. Antoine Hérouard, primo vicepresidente della COMECE e arcivescovo di Digione, pretende di difendere «una posizione di ordine morale, che si inserisce nella prospettiva del progetto di Unità europea, perseguita dai padri fondatori». Padri fondatori, che, come Jean Monnet, hanno contribuito soprattutto a eludere un’idea sana di Europa instaurando il regno della tecnocrazia e dell’economia.

 

Nella stessa ottica, la dichiarazione del 19 aprile ricorda che «la Chiesa sostiene fortemente il processo volto a riunire i popoli e i Paesi d’Europa in una comunità che garantisca la pace, la libertà, la democrazia, lo stato di diritto, il rispetto dei diritti umani e la prosperità».

 

Abbastanza deludente, quando sarebbe stato più opportuno ricordare la base comune delle radici cristiane dell’Europa da parte dei membri della Chiesa docente, senza la quale essa è solo una barca alla deriva.

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La ferocia del mondo e la proliferazione della violenza – in particolare quella che colpisce il diritto alla vita in tutte le sue forme – ci impongono di ripensare l’Unione in termini di sovranità e comunità di destino basata sul cristianesimo. Esso solo è capace di portare una disciplina collettiva: ma la Chiesa deve prima ricordarsi di far regnare Cristo nei cuori e nelle istituzioni, altrimenti diventa solo una ONG umanitaria.

 

La posizione della COMECE è anche un posizionamento politico piuttosto rischioso, poiché potrebbe essere interpretato come un sostegno alle liste progressiste che incoraggiano l’allargamento dell’UE nella campagna per le prossime elezioni europee del 9 giugno: liste verso le quali i cattolici praticanti non necessariamente sono simpatizzanti.

 

«L’Unione è un paradiso visto da altrove, ma la porta verso questo paradiso deve rimanere stretta», osservava nel luglio 2023 un rapporto parlamentare francese che esaminava la politica di allargamento dell’UE. Quanto basta per far riflettere la COMECE, che dovrebbe ricordare che, da cinquant’anni, spesso sono proprio coloro che si definiscono più «europei» a fare più male all’Europa.

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.news.

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Immagine di Cyclotron via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported

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