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Geopolitica

L’Africa francofona ricusa la Francia punendola dei 12 anni di tradimenti

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Renovatio 21 pubblica questo articolo di Réseau Voltaire. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

 

In politica nulla avviene per caso. I francesi non capiscono perché gli africani francofoni improvvisamente li respingano. Si consolano accusando la Russia di oscure macchinazioni. In realtà stanno cogliendo i frutti di quanto seminato in 12 anni. Ciò che accade non ha nulla a che vedere con il colonialismo e la Françafrique. È esclusivamente conseguenza della subordinazione delle forze armate francesi alla strategia statunitense.

 

Di fronte all’ondata di cambiamenti di regime nell’Africa francofona i media francesi sono stupefatti. Non riescono a comprendere il rigetto della Francia.

 

I ritornelli stantii sullo sfruttamento coloniale non convincono per nulla. Per esempio, si sottolinea che Parigi sfrutta i giacimenti di uranio del Niger non già a prezzo di mercato, ma a un costo ridicolmente basso. Si tratta di una motivazione che i golpisti non hanno mai invocato. Le loro giustificazioni sono altre.

 

Le accuse di manipolazioni russe sono altrettanto poco credibili. Innanzitutto perché dietro le quinte dei colpi di Stato di Mali, Guinea, Burkina-Faso, Niger e Gabon sembra non esserci la Russia; ma soprattutto perché i guai iniziano in un’epoca molto anteriore al suo arrivo. La Russia è sbarcata in Africa solo dopo la vittoria in Siria, nel 2016; i problemi risalgono almeno al 2010, se non al 2001.

 

Come sempre, anche in questo caso la situazione è incomprensibile se non se ne rammenta la genesi.

 

A partire dagli attentati dell’11 settembre 2001 gli Stati Uniti hanno affidato al loro vassallo, la Francia, un ruolo in Africa: mantenere lo status quo in attesa dell’insediamento dell’AfriCom e dell’estensione al continente nero della distruzione delle istituzioni politiche già avviata dal Pentagono nel Medio Oriente Allargato (1).

 

In Africa le politiche repubblicane hanno progressivamente ceduto il passo alle politiche tribali. In un certo senso si è trattato di un’emancipazione dalla pesante intromissione francese, ma al tempo stesso di una formidabile involuzione.

 

Nel 2010 il presidente francese Nicolas Sarkozy, probabilmente consigliato da Washington, prende l’iniziativa di mettere fine al conflitto in Costa d’Avorio, scossa appunto da antagonismi tribali. Un’iniziativa guidata prima dalla CEDEAO [Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale, nota come ECOWAS, ndr], poi dal primo ministro kenyano cugino di Barack Obama (2) Raila Odinga, che tenta di negoziare la partenza del presidente ivoriano Laurent Gbagbo, colpevole non già di aver instaurato un regime autoritario, ma di essersi trasformato da sottomesso agente della CIA in difensore della nazione.

 

Parigi interviene militarmente al termine delle elezioni presidenziali: arresta Gbagbo — con il falso pretesto di far cessare un genocidio — e lo sostituisce con Alassane Ouattara, amico di lunga data della classe dirigente francese. Gbagbo è infine assolto dalla Corte Penale Internazionale che, dopo un interminabile processo, lo ha riconosciuto non responsabile di genocidio; quindi l’intervento militare della Francia fu di fatto ingiustificato.

 

Nel 2011 il presidente Sarkozy, sempre su consiglio di Washington, impegna la Francia in Libia. Anche in questo caso la motivazione ufficiale è far cessare un genocidio perpetrato da un dittatore contro il suo stesso popolo. Per rendere credibile l’accusa, la CIA, che dietro le quinte manovra la Francia, allestisce false testimonianze davanti al Consiglio dei Diritti dell’Uomo di Ginevra.

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A New York, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite autorizza le grandi potenze a intervenire per far cessare un inesistente massacro. Il presidente russo, Dmitry Medvedev, finge di non vedere. Il presidente degli USA , Barack Obama, vuole che l’AfriCom possa finalmente iniziare le operazioni in Africa, dove tuttavia non ha sede: i suoi soldati si trovavano infatti in Germania.

 

All’ultimo momento però il comandante dell’AfriCom si rifiuta d’intervenire contro Muammar Gheddafi, a fianco di jihadisti che in Iraq hanno combattuto i suoi stessi soldati americani (i militari statunitensi non hanno mai ammesso il doppio gioco della CIA, che sostiene gli jihadisti per usarli contro la Russia, spesso a danno degli Occidentali).

 

Obama si rivolge perciò alla NATO, dimenticandosi di essersi in precedenza impegnato a non mobilitarla contro un Paese del Sud. Fatto sta che Gheddafi viene torturato e linciato, la Libia smembrata. Ma la Giamahiria, che non era una dittatura bensì un regime che s’ispirava ai socialisti francesi del XIX secolo e alla Comune di Parigi, era l’unica forza africana che aspirasse a unire arabi e neri.

 

Gheddafi voleva liberare il continente — come già aveva liberato i libici — dal colonialismo occidentale. Con il direttore dell’FMI, Dominique Strauss-Khan, s’apprestava perfino a pilotare l’adozione di una moneta comune da parte di alcuni Stati africani.

 

La caduta di Gheddafi risveglia gli avversari ch’egli combatteva: gli arabi ricominciano a massacrare i neri, anche quelli di cittadinanza libica, e a ridurli in schiavitù, sotto gli occhi degli insensibili vincitori occidentali. Gli Stati africani, sostenuti economicamente dalla Libia, crollano; per primo il Mali (3). Gli jihadisti arabi, messi al potere a Tripoli dalla Nato, sostengono taluni tuareg contro i neri in generale. Il problema si allarga progressivamente a tutto il Sahel.

 

Incapace di trarre lezione dai misfatti precedenti, il presidente francese François Hollande organizza un nuovo cambiamento di regime, in Mali. A marzo 2012, quasi alla scadenza del mandato, il presidente Amadou Toumani Touré, che non intendeva ricandidarsi, viene rovesciato da un manipolo di ufficiali addestrati negli Stati Uniti, che non sono stati nemmeno in grado di giustificare il loro operato.

 

Touré interrompe la campagna elettorale e nomina Dioncounda Traoré «presidente di transizione». Un gioco di prestigio avallato dalla CEDEAO [ECOWAS, ndr], presieduta da… Alassane Ouattara.

 

Come c’era da aspettarsi, il presidente transitorio Traoré invoca l’aiuto della Francia per combattere gli jihadisti che lo attaccano. Il vero scopo di Parigi è posizionare truppe in Mali per attaccare l’Algeria alle spalle, suo reale obiettivo. È «l’operazione Serval».

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Consci che la volta successiva sarebbe toccato al loro Paese, i generali algerini reprimono duramente il sequestro di ostaggi da parte degli jihadisti nel sito petrolifero di In Amenas. Lo scopo è scoraggiare la Francia dall’intervenire contro gli algerini.

 

Non importa, si ricomincia! La Francia riorganizza il dispositivo: eccoci all’Operazione Barkhane. Le forze armate francesi vengono messe a disposizione del sovrano statunitense. Regista dell’operazione è l’AfriCom, ancora stanziato in Germania. Le truppe francesi, supportate da membri dell’Unione Europea (Danimarca, Spagna, Estonia e Cechia), distruggono gli obiettivi indicati dal CentCom. Nella regione, un tempo francese, i militari francesi entrano facilmente in contatto con la popolazione, gli statunitensi devono invece superare lo scoglio della lingua.

 

A questo stadio la prima osservazione è che l’Operazione Barkhane, indipendentemente dai risultati, non è legittima. La motivazione degli occidentali è certamente il contenimento degli jihadisti, ma qualsiasi abitante del Sahel sa che sono gli stessi Occidentali che, con la distruzione della Libia, hanno creato gli jihadisti della regione. Ma non è tutto.

 

Facciamo un passo indietro. Ricordiamoci che tutto è cominciato con la volontà del Pentagono di distruggere con l’AfriCom le strutture politiche africane, come già aveva iniziato a fare il CentCom con quelle del Medio Oriente Allargato. (…) Hanno a disposizione le armi ufficialmente destinate all’Ucraina. Ben presto la regione sarà un immenso braciere (4). A novembre il presidente nigeriano Muhammadu Buhari, conferma il massiccio afflusso di armi statunitensi, inizialmente destinate all’Ucraina, nelle mani degli jihadisti del Sahel e del bacino del Lago Ciad.

 

Di fronte a questo rischio esiziale i militari di Mali, Burkina-Faso e Niger prendono il potere a difesa della popolazione.

 

Si tenga presente che i dirigenti africani si lamentano da anni del sostegno della Francia agli jihadisti che pure dichiara di combattere; non contestano i soldati francesi, ma il ruolo dei servizi segreti che lavorano per gli Stati Uniti.

 

Sin dall’avvio dell’operazione Serval gli jihadisti siriani si lamentarono di essere stati abbandonati dalla Francia a beneficio degli jihadisti del Sahel. E il presidente François Hollande dovette trattenere le truppe il tempo necessario agli istruttori qatariani degli jihadisti del Mali. Il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, ne parlò con l’omologo francese Laurent Fabius, che gli rispose ridendo: «È la nostra realpolitik!».

 

Nel deserto del Fezzan, nella Libia meridionale, tra le città di Ghat (vicino alla frontiera algerina) e di Sabbah (vicino alla frontiera con il Niger), è sorto un sancta sanctorum di Al Qaeda. Secondo il serissimo Canard enchaîné, queste accademie dello jihadismo sono state organizzate dai servizi segreti britannici e francesi.

 

Circa due anni fa, l’8 ottobre 2021, il primo ministro maliano Coguel Kokalla Maïga, rilasciò un’intervista a RIA-Novosti  (5), ampiamente ripresa e commentata nella regione ma ignorata dalla Francia, dove nessuno la conosce all’infuori dei nostri lettori.

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In uno scritto inviato al Consiglio di sicurezza (Ref. S/2023/636), Yaou Sngaré Bakar, ministro degli Esteri, della Cooperazione e dei Nigerini all’estero, ha riferito che il mese scorso agenti francesi hanno liberato dei terroristi, raggruppandoli nella vallata del villaggio Fitili (28 chilometri a nord-ovest di Yatakala), con l’obiettivo di pianificare un attacco a postazioni militari nella zona delle tre frontiere. In tre operazioni, due in territorio nigerino, una in territorio maliano, sono stati arrestati 16 capi terroristi.

 

Per inciso, la lettera di Yaou Sangaré Bakar solleva importanti interrogativi sul ruolo della CEDEAO [ECOWAS](6). Domande di vecchia data, già sollevate dal cambiamento di regime ivoriano: la CEDEAO, istituzione internazionale, ha adottato sanzioni contro il Niger e mobilitato truppe per il ripristino dell’ordine costituzionale; ma il suo statuto non l’autorizza a comminare questo tipo di sanzioni, non più di quanto la carta dell’ONU l’autorizzi ad agire militarmente contro uno dei suoi membri.

 

I casi della Guinea e del Gabon sono diversi: non sono Paesi del Lago Ciad né del Sahel e non sono ancora minacciati. I militari si sono innanzitutto ribellati a regimi autoritari: quello di Alpha Condé in Guinea e quello di Ali Bongo in Gabon. Entrambi rifiutavano di lasciare il potere, malgrado il volere contrario della popolazione.

 

Ma i golpisti dei due Paesi hanno subito contestato la presenza militare francese: semplicemente perché possono prevedere, senza tema di sbagliare, che l’esercito francese non difenderà né gli interessi dei gabonesi né quelli dei francesi, ma esclusivamente quelli di Washington.

 

È una guerra che viene preparata con anni di anticipo. Oggi gli Stati Uniti trasferiscono armi sotto la copertura del conflitto in Ucraina. Domani sarà troppo tardi.

 

In questo contesto è quantomeno sorprendente ascoltare il presidente francese Emmanuel Macron invocare la difesa dell’ordine costituzionale, sia perché questi Stati corrono un pericolo immediato, sia perché egli stesso ha tradito la Costituzione ponendo l’esercito francese al servizio delle ambizioni dei dirigenti statunitensi.

 

 

Thierry Meyssan

 

NOTE

1) «La dottrina Rumsfeld/Cebrowski», di Thierry Meyssan, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 25 maggio 2021.

2) «L’expérience politique africaine de Barack Obama», di Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 9 marzo 2013.

3) «La guerra contro la Libia è un disastro economico per l’Africa e l’Europa», di Thierry Meyssan, Traduzione Alessandro Lattanzio, Rete Voltaire, 4 luglio 2011.

4) «Si prepara una nuova guerra per il dopo-disfatta contro la Russia», di Thierry Meyssan, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 24 maggio 2022.

6) Voltaire, attualità internazionale – N° 51

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Articolo ripubblicato su licenza Creative Commons CC BY-NC-ND

Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

Immagine di pubblico dominio CC0 via Flickr

 

 

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Geopolitica

Trump si chiede «che diavolo» ci facesse Zelens’kyj in Sudafrica

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Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha espresso sorpresa per la visita di Volodymyr Zelens’kyj in Sudafrica durante un incontro con il suo omologo sudafricano Cyril Ramaphosa alla Casa Bianca mercoledì.   Trump ha dichiarato di aver telefonato a Zelens’kyj durante la sua visita di aprile e di avergli chiesto «che diavolo» stesse facendo in Sudafrica. Ramaphosa ha spiegato che il Sudafrica aveva condiviso alcune «lezioni» sulla costruzione della pace con il leader ucraino. «Questo è ciò che ci ha insegnato Nelson Mandela: se volete raggiungere la pace nel Paese, fatelo incondizionatamente, sedetevi e parlate», ha detto il presidente sudafricano, sfruttando l’icona internnazionale dell’ex terrorista filosovietico assurto al ruolo di «santo» intoccabile del mondialismo.   La visita di Zelens’kyj a Pretoria ha scatenato ampie critiche da parte dei commentatori politici e degli attivisti sudafricani a causa del suo atteggiamento sprezzante nei confronti dell’iniziativa di pace del 2023 guidata da Ramaphosa.

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I due presidenti hanno anche discusso delle preoccupazioni degli Stati Uniti riguardo alle presunte violenze contro gli afrikaner bianchi e alle politiche di riforma agraria del governo sudafricano. Trump avrebbe chiesto chiarimenti sul genocidio della minoranza bianca, di fatto umiliando il vertice dello Stato sudafricano mostrandogli un video che raccoglieva prove del massacro in atto.   Nel video mostrato alla Casa Bianca erano visibili i comizi razzisti con incitamenti al genocidioKill the boer! Kill the farmer!»: un canto che la Corte Suprema sudafricana non ritiene essere incitamento all’odio) del leader del partito para-comunista EFF (scissosi dall’ANC di Mandela) Julius Malema, nonché le immagini strazianti della fila infinita di croci per i boeri ammazzati.     Curiosamente, sarebbe da ricordare che è proprio il Sudafrica che ha portato le carte all’Aia per dichiarare Israele perpetratore di genocidio.   Ramaphosa ha respinto le accuse, ribadendo i valori democratici del Sudafrica e respingendo l’idea che la terra venisse confiscata illegalmente. «No, no, no, no», ha risposto quando gli è stato chiesto della confisca delle terre. «Nessuno può prendere la terra», ha aggiunto.  
Come riportato da Renovatio 21, vari gruppi boeri da anni ritengono di essere oggetti di una vera persecuzione se non di una pulizia etnica, con abbondanza disperante episodi di crimine, torture e violenza efferata di ogni sorta.   Come riportato da Renovatio 21, il mese scorso il partito dell’ex presidente sudafricano Jacob Zuma MK ha presentato una denuncia per tradimento contro un gruppo della minoranza afrikaner.   L’amministrazione Trump aveva negli ultimi tempi  sospeso gli aiuti al Sudafrica. La scorsa settimana, dopo tanti annunci, gli USA hanno accolto un primo gruppo di rifugiati boeri. Sul «genocidio bianco» in atto non ha dubbi Elon Musk, che ha recentemente anche sostenuto che il suo servizio Internet satellitare Starlink non può funzionare in Sudafrica perché «non è nero».   La delegazione sudafricana era in visita per presentare un quadro rivisto per il commercio e gli investimenti, volto a rafforzare la cooperazione economica bilaterale. Parks Tau, Ministro del Commercio, dell’Industria e della Concorrenza del Sudafrica, ha confermato che la proposta è stata presentata durante i colloqui con il Rappresentante Commerciale degli Stati Uniti.

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Tau ha affermato che il commercio è al centro della nuova proposta. «Abbiamo anche discusso di dazi doganali e tariffe con la parte americana», ha osservato. Ha sottolineato che quasi il 77% delle merci statunitensi importate in Sudafrica entra in esenzione doganale, mentre una quota analoga delle esportazioni sudafricane, principalmente materie prime, beneficia anch’essa di esenzioni fiscali. Tau ha aggiunto che il Sudafrica ha evidenziato la crescente carenza di gas e ha manifestato interesse per l’importazione di gas naturale liquefatto (GNL) dagli Stati Uniti, un’iniziativa accolta positivamente sia dall’ambasciatore statunitense che dai rappresentanti della Casa Bianca. “È uno dei settori su cui daremo seguito», ha affermato.   Mentre lasciava la Casa Bianca, il presidente Ramaphosa ha detto ai giornalisti che i colloqui erano andati «molto bene».   In questi anni, ad ogni modo, abbiamo assistito al collasso del Sudafrica da ogni punto vista, dai disordini civili con caos e razzie ai blackout – dove si innesta la storia oscura di un possibile tentato assassinio nei confronti del capo della società elettrica nazionale.

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Economia

Assistenzialismo geopolitico-militare: l’Ucraina vuole una percentuale fissa del PIL dell’UE

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L’Ucraina ha proposto che gli stati membri dell’UE destinino una quota fissa del loro PIL al finanziamento delle forze armate del paese. I leader dell’Unione hanno promesso di continuare a sostenere militarmente Kiev nonostante il cambio di politica del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che mira a mediare una tregua.

 

Secondo un post su Facebook pubblicato giovedì, il ministro delle Finanze Serhiy Marchenko ha illustrato al mondo la proposta di assistenzialismo geopolitico-militare durante la riunione dei ministri delle finanze del G7 tenutasi questa settimana in Canada.

 

«Quello che proponiamo è la partecipazione dei partner al finanziamento delle Forze armate ucraine, il che le integrerebbe di fatto nella struttura di difesa europea», ha scritto.

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Marchenko ha aggiunto che il costo «rappresenterebbe solo una piccola parte del PIL dell’UE» e potrebbe essere ripartito tra i paesi che desiderano aderire all’iniziativa. Kiev intende lanciare il nuovo programma nel 2026, con contributi conteggiati negli obiettivi di spesa per la difesa della NATO.

 

L’appello di Marchenko giunge in un momento in cui l’Ucraina è alle prese con la crescente pressione fiscale e con un’incerta prospettiva sugli aiuti esteri. Martedì, il parlamentare Yaroslav Zheleznyak ha dichiarato che il bilancio del Paese per il 2025 include un deficit di 400-500 miliardi di grivne (9,6-12 miliardi di dollari) per il finanziamento delle forze armate.

 

La collega deputata Nina Yuzhanina ha avvertito che il sostegno militare ha raggiunto un livello critico e ha chiesto tagli drastici al bilancio interno per ridistribuire le risorse.

 

Anche il crescente debito ucraino ha destato allarme. Il debito pubblico totale si avvicina ai 171 miliardi di dollari, con un debito prossimo al 100% del PIL. All’inizio di questo mese, Marchenko ha dichiarato che il Paese non sarà in grado di ripagare i creditori esteri per i prossimi 30 anni, ma intende continuare a indebitarsi.

 

 

Dall’escalation del conflitto con la Russia nel 2022, l’Ucraina ha ricevuto miliardi di dollari in aiuti militari, finanziari e umanitari e prestiti dagli Stati Uniti, dall’UE e da altri donatori. L’approccio di Bruxelles ha suscitato critiche da parte di alcuni Stati membri dell’UE, tra cui Ungheria e Slovacchia.

 

Gli Stati Uniti, il principale donatore dell’Ucraina, si sono mossi per recuperare gli aiuti finanziari all’Ucraina firmando un accordo sulle risorse naturali con Kiev. L’accordo, promosso da Trump, garantisce agli Stati Uniti un accesso preferenziale alle risorse minerarie ucraine senza fornire garanzie di sicurezza.

 

Trump, che ha ripetutamente chiesto una rapida risoluzione del conflitto, si è impegnato a mediare una tregua piuttosto che espandere il supporto militare. I legislatori ucraini hanno avvertito che il pacchetto di aiuti militari approvato dall’ex presidente Joe Biden si esaurirà entro l’estate e non sono attualmente in corso trattative per ulteriori forniture statunitensi.

 

La Russia ha sempre condannato le spedizioni di armi occidentali all’Ucraina, dichiarando che non faranno altro che prolungare il conflitto senza cambiarne l’esito e che rappresenteranno anche un ulteriore onere economico per i contribuenti comuni.

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Geopolitica

Israele spara contro la delegazioni di diplomatici stranieri

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Soldati israeliani hanno sparato nei pressi di un gruppo di diplomatici stranieri in visita al campo profughi di Jenin, nella Cisgiordania occupata, spingendo i rappresentanti di oltre 20 paesi e i giornalisti al seguito a cercare riparo, secondo i video ripresi dalla scena.   Il tour, organizzato dall’Autorità Nazionale Palestinese, coinvolgeva delegati provenienti da decine di paesi, tra cui Regno Unito, Canada, Francia, Italia, Spagna, Cina, Giappone, Messico, Egitto e altri. Non sono stati segnalati feriti, ma le riprese video hanno mostrato i diplomatici fuggire in preda al panico mentre si scatenavano gli spari intorno alle 14:00 ora locale.   Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno affermato che la delegazione aveva deviato dal percorso precedentemente approvato ed era entrata in un’area non autorizzata, da loro descritta come una «zona di combattimento attiva».  

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«Secondo una prima indagine, la delegazione ha deviato dal percorso approvato ed è entrata in un’area non autorizzata. I soldati dell’IDF che operavano nella zona hanno sparato colpi di avvertimento per allontanarli», ha dichiarato l’IDF, esprimendo rammarico per il «disagio causato».     Il ministero degli Esteri dell’Autorità Nazionale Palestinese ha descritto la sparatoria come una violazione del diritto internazionale, affermando che la delegazione era in missione ufficiale per valutare la situazione umanitaria nel contesto delle crescenti critiche internazionali alle operazioni militari israeliane a Gaza e in Cisgiordania.   I leader internazionali hanno prontamente condannato l’incidente. Francia e Italia con il ministro Antonio Tajani hanno convocato gli ambasciatori israeliani per chiedere spiegazioni. Il vice primo ministro irlandese ha definito l’evento «totalmente inaccettabile», mentre il Canada ha chiesto un’indagine approfondita. Anche l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea, Kaja Kallas, ha definito «inaccettabile» l’atto di sparare vicino ai diplomatici e ha chiesto che si assuma la responsabilità.   Della delegazione, in cui vi erano anche giornalisti, faceva parte il vice console italiano Alessandro Tutino, uscito illeso. Il diplomatico italiano ha parlato subito con il Tajani.  
  «Ho appena parlato con Alessandro Tutino il vice console d’Italia a Gerusalemme che sta bene e che era fra i diplomatici che sarebbero stati attaccati a colpi di arma da fuoco vicino al campo profughi di Jenin. Chiediamo al governo di Israele di chiarire immediatamente», ha dichiaro su X il ministro degli Esteri. Il vice console sarebbe rientrato a Gerusalemme.   Tajani ha quindi convocato l’ambasciatore israeliano a Roma: «ho appena dato disposizione al Segretario generale del Ministero degli Esteri di convocare l’Ambasciatore di Israele a Roma per avere chiarimenti ufficiali su quanto accaduto a Jenin» ha scritto sui social il Tajani.

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L’incidente, va notato, a poche dalla decisione UE di aprire una revisione dell’accordo di associazione con Israele.   Il ministero degli Esteri egiziano ha affermato che l’incidente «viola tutte le norme diplomatiche», mentre il ministero degli Esteri turco ha «fermamente condannato» gli spari di avvertimento contro i suoi diplomatici.   Il caso dovrebbe riportare alla memoria l’attacco che l’IDF ha portato contro i nostri soldati attivi in Libano con le forze di pace UNIFIL – con Netanyahu che arrivò a minacciare direttamente il corpo ONU di peacekeeping nel Libano meridionale, accusato di «fornire uno scudo umano ai terroristi di Hezbollah»  

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