Internet
La Corte Suprema USA esaminerà casi sui social media e sul primo emendamento
Nel suo attuale mandato (che terminerà a giugno 2024), la Corte Suprema degli Stati Uniti ha deciso di esaminare cinque casi che le danno l’opportunità di valutare le questioni relative alla moderazione dei contenuti e all’applicabilità del Primo Emendamento ai social media.
Il mese scorso, la corte ha esaminato le argomentazioni in due casi relativi al «blocco» degli elettori sui social media da parte dei politici. La causa O’Connor-Radcliff v. Garnier riguarda i membri del consiglio scolastico che hanno impedito a un gruppo di genitori di visualizzare (e quindi di commentare) i loro account su Facebook e Twitter.
Il caso Lindsey v. Freed riguarda un amministratore di un comune che ha bloccato un elettore su Facebook.
La Corte Suprema aveva affermato in precedenza, rispetto all’ex presidente Trump, che quando i funzionari governativi utilizzano i loro account sui social media per discutere di politica o politiche, diventa un forum pubblico e il pubblico ha il diritto di intervenire, senza discriminazioni di punto di vista.
Altri due casi riguardano i governi statali che hanno intrapreso azioni per limitare la moderazione dei contenuti delle società di social media. NetChoice LLC v. Paxton e Moody v. NetChoice LLC si riferiscono rispettivamente al Texas e alla Florida, Stati che avevano approvato leggi riguardanti la capacità delle società di social media di promuovere, retrocedere o eliminare post, inclusa la richiesta di una maggiore protezione per i discorsi legali.
NetChoice, un’associazione di categoria che rappresenta diverse società di social media, sostiene che queste leggi obbligherebbero le piattaforme a ospitare discorsi che non desiderano. Il caso principale Missouri v. Biden, che ha già visto ingiunzioni preliminari da parte dei tribunali distrettuali e circoscrizionali federali, si riferisce alle pressioni esercitate sulle società di social media da parte di membri del governo e delle agenzie governative degli Stati Uniti.
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In questione è il principio secondo cui il governo non può esercitare pressioni su privati o aziende affinché agiscano in modo da raggiungere un fine che non sarebbe legalmente consentito al governo di raggiungere direttamente.
Il Primo Emendamento della Costituzione USA impedisce la censura governativa della parola. Se il governo fa pressione sulle società di social media affinché rimuovano i post, allora tale azione, sebbene intrapresa da una società privata, va contro il Primo Emendamento.
Ron Paul, l’ex deputato del Texas, contesta l’approccio del Texas e della Florida. Scrive che «invece di dare al governo più potere sui social media, i difensori della libertà di parola dovrebbero lavorare per separare la tecnologia e lo Stato».
Il Free Speech Protection Act, introdotto dal senatore repubblicano del Kentucky Rand Paul (il figlio di Ron) e dal deputato repubblicano dell’Ohio Jim Jordan (di nota fede trumpista) renderebbe un crimine per i dipendenti federali o i dipendenti di appaltatori federali utilizzare le loro posizioni comunicare con le società di social media per interferire nel discorso legale delle persone.
Ciò affronterebbe, dal punto di vista legislativo, le questioni sollevate nel caso Missouri v. Biden.
Come riportato da Renovatio 21, il giudice della Corte Suprema Clarence Thomas – un nero conservatore, aderente alla teoria della legge naturale, e forse con qualche conto aperto con Joe Biden – tre anni fa ipotizzò che Facebook e Twitter potrebbero essere regolamentati come enti pubblici.
«Le piattaforme digitali odierne forniscono strade per quantità di discorsi storicamente senza precedenti, compresi i discorsi di attori governativi. Senza precedenti, tuttavia, è anche il controllo di così tanti discorsi nelle mani di pochi privati» aveva detto il giudice, anni prima che emergesse della collusione dell’amministrazione Biden con i colossi Big Tech per censurare il discorso pubblico sui vaccini (ad esempio).
«Presto non avremo altra scelta che affrontare il modo in cui le nostre dottrine legali si applicano a infrastrutture informatiche altamente concentrate e di proprietà privata come le piattaforme digitali» aveva detto. «Sembra piuttosto strano dire che qualcosa è un forum governativo quando una società privata ha l’autorità illimitata per chiuderlo (…) Se l’obiettivo è garantire che la parola non venga soffocata, la preoccupazione più evidente devono essere necessariamente le stesse piattaforme digitali dominanti».
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
Geopolitica
Elon Musk chiede l’abolizione dell’UE «Quarto Reich»
;The tyrannical, unelected bureaucracy oppressing the people of Europe are in the second picture https://t.co/j6CFFbajJa
— Elon Musk (@elonmusk) December 7, 2025
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In precedenza, Musk aveva bollato l’UE come un «mostro burocratico», accusandone la dirigenza di «soffocare lentamente l’Europa fino alla morte». Il miliardario, che ha spesso denunciato l’iper-regolamentazione bruxellese, ha invocato lo smantellamento completo dell’Unione. «L’UE dovrebbe essere abolita e la sovranità restituita ai singoli paesi, in modo che i governi possano rappresentare meglio i loro cittadini», ha scritto. Anche l’ambasciatore statunitense presso l’UE Andrew Puzder ha condannato l’iniziativa europea, precisando che Washington «si oppone alla censura e contesterà le gravose normative che prendono di mira le aziende statunitensi all’estero». Ciononostante, l’UE difende la decisione: la vicepresidente esecutiva della Commissione per la sovranità tecnologica, la sicurezza e la democrazia, Henna Virkkunen, ha puntualizzato che la responsabilità ricade unicamente sulla piattaforma di Musk e che «ingannare gli utenti con segni di spunta blu, oscurare informazioni sulle pubblicità ed escludere i ricercatori non è consentito online nell’UE». Come riportato da Renovatio 21 il tema delle euromulte contro Musk è risalente. Brusselle aveva valutato l’ipotesi di multe contro X da quando l’ex commissario alla tecnologia UE, Thierry Breton, aveva accusato la piattaforma di non aver controllato adeguatamente i contenuti illegali e di aver violato il Digital Services Act (DSA) dell’UE del 2022. La decisione se penalizzare X spetta ora alla commissaria UE per la concorrenza, Margrethe Vestager. Come noto al lettore di Renovatio 21, Elone per qualche ragione è assai inviso all’oligarchia europea e a tanta politica continentale, come hanno dimostrato i discorsi del presidente italiano Sergio Mattarella, che pareva attaccare proprio Musk e le sue ambizioni sui social e nello spazio.Pretty much https://t.co/0hspV4roFj
— Elon Musk (@elonmusk) December 7, 2025
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Internet
L’UE attacca le piattaforme che si rifiutano di censurare la libertà di parola: il fondatore di Telegram
L’Unione Europea sta ingiustamente prendendo di mira le piattaforme social che tollerano discorsi dissidenti o critici, ha dichiarato Pavel Durov, fondatore di Telegram.
La sua affermazione è arrivata in risposta a un post del 2024 di Elon Musk, proprietario di X, che accusava la Commissione Europea di aver proposto alla piattaforma un patto segreto per eludere sanzioni in cambio della censura di certi contenuti. Il giorno precedente, l’UE aveva inflitto a X una multa da 120 milioni di euro (circa 140 milioni di dollari).
Durov ha spiegato che Bruxelles sta applicando alle società tech norme severe e impraticabili proprio per colpire quelle che rifiutano di praticare una moderazione occulta dei contenuti.
«L’UE impone regole impossibili per poter punire le aziende tecnologiche che si oppongono a una censura silenziosa della libertà di espressione», ha postato Durov sabato su X.
Il Pavel ha inoltre richiamato la sua detenzione in Francia dell’anno scorso, che ha descritto come motivata da ragioni politiche. Secondo lui, in quel frangente il capo dei servizi segreti francesi gli avrebbe chiesto di «bannare le voci conservatrici in Romania» in vista delle elezioni – un’ipotesi smentita dalle autorità transalpine. Durov ha aggiunto che gli agenti di Intelligence gli avrebbero offerto assistenza in cambio della rimozione discreta dei canali legati alle elezioni in Romania.
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Queste stesse accuse sono state ribadite nel suo intervento recente, in cui ha qualificato l’inchiesta come «un’indagine penale priva di fondamento», seguita da tentativi di pressione per limitare la libertà di parola in Romania e Moldavia.
Più tardi, sempre sabato, Durov ha aggiunto: «L’UE prende di mira esclusivamente le piattaforme che ospitano discorsi scomodi o dissenzienti (Telegram, X, TikTok…). Le piattaforme che, tramite algoritmi, mettono a tacere le persone rimangono sostanzialmente intatte, nonostante problemi ben più gravi di contenuti illegali».
L’anno scorso, Elon Musk aveva rivelato che la Commissione Europea aveva proposto a X «un accordo segreto illegale» per censurare i contenuti in modo discreto. «Se avessimo censurato silenziosamente i contenuti senza dirlo a nessuno, non ci avrebbero multato. Le altre piattaforme hanno accettato quell’accordo. X no», aveva scritto.
Venerdì, il portavoce della Commissione Europea Tom Rainier ha precisato che la sanzione a X ammontava a 120 milioni di euro per violazioni del Digital Services Act, sottolineando che non aveva legami con la censura e che si trattava della prima applicazione concreta della normativa. Il Segretario di Stato americano Marco Rubio ha aspramente criticato la decisione, definendola «un attacco a tutte le piattaforme tech americane e al popolo statunitense da parte di governi stranieri».
Tanto Durov quanto Musk hanno subito pressioni da parte dei regolatori UE in base al DSA, in vigore dal 2023. Questa legge obbliga le piattaforme a eliminare celermente i contenuti illegali, sebbene i detrattori sostengano che possa essere impiegata per reprimere opinioni legittime.
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Immagine screenshot da YouTube
Internet
L’UE multa X di Musk per 120 milioni di euro. Gli USA: «attacco al popolo americano»
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