Geopolitica
Kazaki in rivolta per il gas. In arrivo truppe russe
Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews.
Chiesto l’intervento della CSTO, guidata da Mosca. Proteste scoppiate per il caro carburante. Colpiti i simboli della dittatura legati all’ex presidente «eterno» Nazarbaev. Il governo dichiara lo stato di emergenza e blocca internet. I dimostranti vogliono mettere fine alla corruzione e al nepotismo della élite al potere.
Truppe dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (CSTO), guidate dalla Russia, andranno in soccorso del governo kazako alle prese con vasti tumulti di piazza.
Le proteste in tutto il Kazakistan, scoppiate il 2 gennaio nella città petrolifera di Žanaozen per il caro carburante, si sono diffuse in tutto il Paese, con manifestazioni e scontri con la polizia, fino alle dimissioni dell’intero governo e la proclamazione dello stato d’emergenza.
Le proteste in tutto il Kazakistan, scoppiate il 2 gennaio nella città petrolifera di Žanaozen per il caro carburante, si sono diffuse in tutto il Paese, con manifestazioni e scontri con la polizia, fino alle dimissioni dell’intero governo e la proclamazione dello stato d’emergenza
Ad Almaty, la più grande città kazaka, ieri alcune migliaia di persone hanno tentato di invadere l’area della «akimat», la residenza locale del presidente Kasym-Žomart Tokaev, e il complesso dell’amministrazione regionale. Occupato poi l’intero prospekt Nazarbaeva, la via principale intitolata all’ex presidente «eterno», Nursultan Nazarbaev.
I dimostranti hanno occupato poi l’aeroporto di Almaty ed evacuato tutti i lavoratori locali. Nella piazza centrale di Taldykorgan hanno rimosso un monumento a Nazarbaev, nativo dell’area.
La polizia di Almaty ha reagito con il lancio di fumogeni e bombe assordanti, e si sono sentiti anche molti spari di armi da fuoco.
La zona è stata raggiunta da alcuni corpi speciali dell’esercito per proteggere lo storico akimat, costruito nel 1980 come «monumento repubblicano», luogo simbolico del potere sovietico e del successivo regime di Nazarbaev.
La realtà è che il Kazakistan produce gas per oltre il doppio delle necessità interne; di fatto l’amministrazione agisce però negli interessi degli esportatori di carburante. Quando un funzionario di Žanaozen ha risposto alle proteste che «il prezzo del gas lo decide il mercato», la gente ha reagito furiosamente
I manifestanti, in numero soverchiante rispetto alle Forze dell’ordine, sono riusciti a entrare nell’edificio, distruggendo porte e finestre e armandosi a propria volta con bastoni e sbarre, mettendo in fuga gli agenti e prendendo di fatto il controllo del palazzo. Alcuni poliziotti si sono uniti alle proteste.
Le manifestazioni sono motivate dall’improvviso aumento del prezzo del gas liquido e interessano soprattutto le città di Žanaozen, Aktau, Almaty, Astana, Atyrau e Šymkent.
In diverse città, oltre ad Almaty, i dimostranti prendono di mira i palazzi della pubblica amministrazione, e più di 200 manifestanti sono stati arrestati dalla polizia. Tra dimostranti e poliziotti, i feriti sarebbero oltre 300. Le autorità parlano di otto agenti morti.
Il 4 gennaio il presidente Tokaev ha deciso di mandare in pensione il governo, introducendo una norma di regolazione statale dei prezzi del gas e proclamando lo stato di emergenza in tre regioni, ma le proteste non si sono fermate.
Per placare le proteste, ieri il presidente ha assunto la presidenza del Consiglio di sicurezza al posto di Nazarbaev e sospeso l’accesso a internet.
I manifestanti vogliono mettere fine alla diffusa corruzione e al nepotismo tipico delle élite kazake (e in generale dell’Asia centrale), e di nominare un governo che lavori per il popolo e non solo per la casta al potere
La questione del gas per i veicoli appare contraddittoria; il governo ha intrapreso la strada del mercato senza ascoltare le ragioni della protesta, e allo stesso tempo ha promesso di abbassare le tariffe d’autorità. La realtà è che il Kazakistan produce gas per oltre il doppio delle necessità interne; di fatto l’amministrazione agisce però negli interessi degli esportatori di carburante. Quando un funzionario di Žanaozen ha risposto alle proteste che «il prezzo del gas lo decide il mercato», la gente ha reagito furiosamente.
Il principale produttore di carburante del Paese, la Tengizchevroil, appartiene per il 50% alla Chevron, per il 25% alla ExxonMobil, per il 5% alla russa Lukoil e per il 20% alla compagnia kazaka Kazmunaygaz, e destina l’intera produzione all’export.
Il gas per il mercato interno, fornito da produttori minori, è venuto a mancare nel 2021 a causa del calo delle forniture, il problema che sta mettendo in crisi tutti i mercati mondiali.
Il ministero dell’Energia del Kazakistan ha fatto sapere che il problema si risolverà in modo graduale con il passaggio al commercio elettronico, che permetterà di bilanciare anche il prezzo del gas in base alle variazioni di domanda e offerta. Questo dovrebbe aiutare ad attrarre nuovi investitori e raggiungere nuovi livelli di produzione, sostengono i funzionari del dicastero.
Ad Aktau l’akim (presidente) della regione Nurlan Nogaev ha deciso di incontrare le migliaia di persone scese in piazza, senza riuscire a convincerle a sciogliere il corteo, anzi spingendo la folla a chiedere le sue dimissioni e quelle del governo. I manifestanti chiedevano di fissare il gas liquido a 50 tenge per litro (circa 0,1 euro), mentre Nogaev prometteva un prezzo di 85-90 tenge.
Molti cartelli nelle piazze sintetizzano i tanti motivi della rabbia popolare nello slogan «Starik, ukhodi!» (Vecchietto, vattene!) rivolto al sommo leader Nazarbaev, che pur avendo ceduto i ruoli ufficiali nel 2019 ha continuato a essere il padrone incontrastato del Kazakistan
I manifestanti vogliono mettere fine alla diffusa corruzione e al nepotismo tipico delle élite kazake (e in generale dell’Asia centrale), e di nominare un governo che lavori per il popolo e non solo per la casta al potere, costruendo nuove fabbriche e lottando contro la disoccupazione.
Molti cartelli nelle piazze sintetizzano i tanti motivi della rabbia popolare nello slogan «Starik, ukhodi!» (Vecchietto, vattene!) rivolto al sommo leader Nazarbaev, che pur avendo ceduto i ruoli ufficiali nel 2019 ha continuato a essere il padrone incontrastato del Kazakistan. Lo slogan sembra essere un simbolo della ribellione di tanti Paesi ex sovietici contro i grandi «leader della nazione» dell’ultimo trentennio.
Da Mosca, il Cremlino ha fatto sapere che «segue con attenzione gli avvenimenti del vicino Paese fratello», e che «l’importante è che nessuno si intrometta dall’esterno».
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Immagine screenshot da Youtube
Geopolitica
La Casa Bianca si oppone allo Stato palestinese: documenti trapelati
Il governo degli Stati Uniti sta esercitando pressioni sui paesi del Consiglio di Sicurezza dell’ONU affinché respingano la richiesta di adesione a pieno titolo dell’Autorità Palestinese. Lo riporta il sito di giornalismo investigativo The Intercept, citando dispacci diplomatici trapelati.
La testata statunitense ha riferito mercoledì di aver ottenuto copie di cablogrammi non classificati del Dipartimento di Stato americano che contraddicono l’impegno dell’amministrazione Biden di sostenere pienamente una soluzione a due Stati.
Secondo quanto riferito, il Consiglio di Sicurezza formato da 15 membri dovrebbe votare venerdì su un progetto di risoluzione che raccomanda all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, composta da 193 membri, che «lo Stato di Palestina sia ammesso come membro delle Nazioni Unite», il che equivarrebbe al riconoscimento della statualità palestinese, a cui il potere israeliano si oppone da sempre.
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Gli Stati Uniti insistono sul fatto che la creazione di uno stato palestinese indipendente dovrebbe avvenire attraverso negoziati diretti tra Israele e Palestina, e non alle Nazioni Unite. Il presidente Joe Biden ha precedentemente affermato categoricamente che Washington sostiene una soluzione a due Stati e sta lavorando per metterla in atto il prima possibile.
Secondo quanto riferito da Intercept, i dispacci descrivono dettagliatamente le pressioni esercitate sui membri del Consiglio di Sicurezza. Secondo il rapporto, in particolare all’Ecuador viene chiesto di fare pressione su Malta, presidente di turno del Consiglio questo mese, e su altre nazioni, tra cui la Francia, affinché si oppongano al riconoscimento dell’Autorità Palestinese da parte delle Nazioni Unite.
Secondo quanto riportato, il Dipartimento di Stato USA avrebbe sottolineato che la normalizzazione delle relazioni tra Israele e gli Stati arabi è il modo più rapido ed efficace per raggiungere uno stato duraturo e produttivo.
Un dispaccio diplomatico, datato 12 aprile, spiegava l’opposizione degli Stati Uniti al voto, citando il rischio di infiammare le tensioni, reazioni politiche e un potenziale taglio dei finanziamenti delle Nazioni Unite da parte del Congresso americano.
«Vi esortiamo pertanto a non sostenere alcuna potenziale risoluzione del Consiglio di Sicurezza che raccomandi l’ammissione della “Palestina” come Stato membro delle Nazioni Unite, qualora tale risoluzione fosse presentata al Consiglio di Sicurezza per una decisione nei prossimi giorni e settimane», si legge nel dispaccio trapelato.
L’Autorità Palestinese ha presentato domanda di adesione nel 2011, ma la richiesta non è mai stata presentata al Consiglio di Sicurezza. All’epoca, gli Stati Uniti – essendo uno dei cinque membri permanenti del Consiglio – dissero che avrebbero esercitato il loro potere di veto in caso di voto positivo.
L’anno successivo, l’ONU ha elevato lo status dello Stato di Palestina da «entità osservatore non membro» a «Stato osservatore non membro», uno status detenuto solo dallo Stato di Palestina e dalla Città Stato del Vaticano.
Gli sforzi di lobbying da parte degli Stati Uniti indicano che la Casa Bianca spera di evitare un palese «veto» sulla richiesta di adesione dei palestinesi, ha suggerito The Intercept.
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Come riportato da Renovatio 21, secondo quanto emerso nelle scorse settimane la Casa Bianca ritiene che Netanyahu stia deliberatamente «provocando» gli Stati Uniti, tuttavia questo non ferma il favore di Washington nei confronti dell’esecutivo dello Stato Ebraico, il più di destra e religiosamente estremista della storia. A inizio anno il presidente Biden aveva dichiarato solennemente «sono un sionista».
Il Washington Post il mese scorso aveva rivelato che Biden sapeva che Israele stava bombardando indiscriminatamente.
La questione non riguarda solo l’attuale amministrazione Democratica USA: ad un incontro pubblico il genero ed ex consigliere senior per la politica estera di Donald Trump Jared Kushner ha dichiarato che è «un peccato» che l’Europa non accolga più rifugiati palestinesi, suggerendo che la «ripulitura» dei palestinesi dalla Striscia di Gaza dovrebbe essere accelerata.
Come riportato da Renovatio 21, Kushner, che proviene da una famiglia di palazzinari ebrei sostenitori del Partito Democratico e pure tra i primi finanziatori di Netanyahu, avrebbe poi fatto un’agghiacciante dichiarazione sul futuro del mercato immobiliare a Gaza: «Le proprietà immobiliari sul lungomare di Gaza potrebbero essere molto preziose… se le persone si concentrassero sulla creazione di mezzi di sussistenza»
I lanci di aiuti USA nel frattempo, oltre ad aver danneggiato i pannelli solari di un complesso ospedaliero, hanno ucciso almeno cinque palestinesi a Gaza.
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Immagine di Stephen Melkisethian via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic
Geopolitica
Israele attacca l’Iran
Un altro video circolante in rete mostrerebbe una base militare a Isfahan in situazione di calma e normalità.BREAKING: 🚨🇮🇷🇮🇱 The IRANIAN Revolutionary Guard Corps uploaded this video intercepting ISRAELI missiles above Iran. pic.twitter.com/wrQA3NGmWd
— Vladimir Putin (parody) (@Brics_Dollar) April 19, 2024
L’esercito israeliano ha detto all’AFP che «non abbiamo commenti in questo momento» quando gli è stato chiesto delle notizie di esplosioni e attacchi in Iran e Siria. L’ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu ha rifiutato di confermare al Times of Israel che Israele è responsabile delle esplosioni udite a Isfahan. L’attacco è avvenuto, coincidenza, nel giorno dell’85° compleanno dell’ayatollah Khamenei. Secondo il Jerusalem Post, vi sarebbero stati attacchi anche in Siria – dove sarebbero stati colpiti siti dell’esercito siriano nei governatorati di Suwayda e Daraa – ed in Iraq, dove sarebbero state colpite le aree di Baghdad ed il governatorato di Babil. Il 1° aprile, Israele ha colpito un edificio del consolato iraniano a Damasco, in Siria, uccidendo sette alti ufficiali della Forza Quds del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC). L’Iran ha risposto lanciando droni e missili kamikaze contro Israele il 13 aprile. Le forze di difesa israeliane (IDF) hanno affermato che la maggior parte dei colpi è stata intercettata con successo e ha riportato solo lievi danni a terra. Il costo della difesa per Israele ammonterebbe a circa un miliardo di dollari. Come riportato da Renovatio 21, è emerso che alcuni droni iraniani sono stati intercettati dalla contraerea saudita. Gli attacchi all’Iran, che mirano con evidenza ad un’escalation – visto che Teheran aveva specificato in varie sedi che dopo la sua rappresaglia considerava il caso chiuso – potrebbero avere per il gruppo al comando in Israele anche un preciso fine di politica interna. Secondo il politologo John Mearsheimer «gli israeliani vorrebbero portarci in una guerra con l’Iran… con Hezbollah… Penso che il punto di vista israeliano, nel profondo, sia che quanto più grande è la guerra, tanto maggiore è la possibilità di una pulizia etnica».BREAKING: Footage near military base in Isfahan, Iran, suggests that the purported Israeli air strikes may be a “wag the dog” scenario. pic.twitter.com/aJqaa70EDq
— The General (@GeneralMCNews) April 19, 2024
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Geopolitica
Putin ha parlato con il presidente iraniano
Il presidente russo Vladimir Vladimirovich Putin ha parlato con il suo omologo iraniano, Ebrahim Raisi, in seguito all’attacco di droni e missili di Teheran contro Israele. Lo riporta RT, che cita l’apparato comunicativo del Cremlino.
Sabato l’Iran ha lanciato decine di droni e missili contro Israele, come «punizione» per il bombardamento del consolato iraniano a Damasco, in Siria, che all’inizio del mese ha ucciso sette ufficiali di alto rango della Forza Quds del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC), cioè i pasdaran.
Raisi ha telefonato a Putin martedì pomeriggio per discutere della «situazione aggravata» nella regione e delle «misure di ritorsione» adottate da Teheran, secondo la lettura della chiamata.
Putin «ha espresso la speranza che tutte le parti mostrino ragionevole moderazione e non permettano un nuovo round di scontro, carico di conseguenze catastrofiche per l’intera regione», ha affermato il Cremlino.
Raisi «ha osservato che le azioni dell’Iran sono state forzate e di natura limitata», aggiungendo che Teheran «non era interessata a un’ulteriore escalation delle tensioni».
Entrambi i presidenti hanno convenuto che la causa principale dell’attuale conflitto è il conflitto israelo-palestinese irrisolto, chiedendo un «cessate il fuoco immediato» a Gaza, la fornitura di aiuti umanitari e la creazione di condizioni per una soluzione politica e diplomatica.
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Israele ha promesso di fornire una risposta «chiara e decisiva» all’attacco iraniano, che secondo il governo dello Stato Ebraico è stato in gran parte intercettato. Tuttavia, secondo quanto riferito, l’esercito israeliano sta lavorando a un piano che sarebbe accettabile per gli Stati Uniti.
Nel frattempo, l’esercito iraniano ha descritto l’attacco come un grande successo. L’«Operazione Vera Promessa» ha dimostrato che le difese israeliane erano «più fragili di una ragnatela», ha detto martedì in una conferenza stampa il generale di brigata Kioumars Heydari, comandante delle forze di terra iraniane.
«Le forze armate iraniane hanno infranto il tabù sulle capacità del regime israeliano, hanno dimostrato la loro potenza, hanno chiarito che l’era del mordi e fuggi è finita e hanno definito nuove regole per la regione», ha detto lo Heydari, secondo l’agenzia iraniana Tasnim News.
Subito dopo l’attacco iraniano erano circolate su vari gruppi Telegram italiani affermazioni totalmente false secondo cui Putin avrebbe dichiarato subito di appoggiare totalmente l’Iran. Si trattava di una fake news vera e propria mandata in giro tranquillamente da canali e influencer della «dissidenza» rispetto a NATO, vaccini, etc.
Chiediamo ai lettori di non frequentare i propalatori di bufale (come quella, di qualche settimana fa, che annunziava solennemente che il re britannico era morto, o quella, circolata l’altro ieri, per cui a spirare stavolta sarebbe stato invece il Klaus Schwab) e concentrarsi su Renovatio 21, vera fonte limpida, veritiera ed approfondita che vuole restare anni luce distante dai drogati di dopamina schermica e dalle panzane stupidi irresponsabili.
Se Renovatio 21 è stata bandita dai principali social atlantici un motivo ci sarà – e già dovrebbe fungere, agli occhi degli accorti, da grande bollino di qualità.
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Immagine di Kremlin.ru via Wikimedia pubblicata su licenza e Creative Commons Attribution 4.0 International.
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