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Cina

Intelligenza Artificiale, la Cina sta per lanciare un rivale di ChatGPT

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Il colosso tecnologico cinese Baidu si sta preparando a lanciare il proprio concorrente a ChatGPT di OpenAI, il chatbot basato su Intelligenza Artificiale (IA) di cui tutto il mondo discute anche con certa inquietudine.

 

Il bot ERNIE – derivato da «Enhanced Representation through Knowledge Integration» («Rappresentazione avanzata attraverso l’integrazione della conoscenza») – sta «facendo lo sprint prima di andare finalmente online”, ha detto martedì Baidu al Global Times, quotidiano in lingua inglese considerabile come house organ del Partito Comunista Cinese.

 

In sviluppo da settembre, secondo gli addetti ai lavori, il modello linguistico basato sull’intelligenza artificiale di Baidu dovrebbe essere pubblicato il mese prossimo, anche se la società ha affermato che potrebbe iniziare «i beta test prima per tenere il passo con Google e Microsoft». Baidu ha dichiarato a Global Times di avere accesso a tutta la tecnologia utilizzata per programmare ChatGPT nella creazione di ERNIE.

 

Secondo quanto riferito, Baidu ha elogiato la creazione di OpenAI come una «pietra miliare e spartiacque nello sviluppo dell’IA». Tuttavia, il gigante tecnologico cinese potrebbe essere in una posizione migliore rispetto al suo principale rivale per impegnarsi nell’«elaborazione del linguaggio naturale», ha suggerito il Global Times, citando le «massicce coppie di algoritmi», l’enorme volume di dati e la familiarità con il modo in cui gli esseri umani usano il linguaggio che l’azienda si è accumulato in oltre due decenni di gestione del motore di ricerca più popolare della Cina.

 

Con il chiaro vantaggio di Baidu nel mercato interno, i creatori di ERNIE «si concentreranno principalmente sulla lingua, l’ambiente e il mercato cinese, piuttosto che su uno globale», ha detto al Global Times l’analista del settore Liu Dingding. ChatGPT non è attualmente disponibile in Cina, ma secondo quanto riferito diverse altre società cinesi stanno lavorando alle proprie versioni del chatbot AI.

 

Come riporta la testata russa RT, ERNIE è programmato con tecniche sviluppate appositamente per la lingua cinese, in cui singole parole estrapolate dal loro contesto perdono gran parte del loro significato. È quindi il primo modello di linguaggio AI a interpretare il significato di una parola basandosi non solo sulle parole che seguono, ma anche su quelle che la precedono. Questo è stato considerato uno sviluppo rivoluzionario quando una versione precedente di ERNIE è stata svelata nel 2019, con il modello linguistico che ha ottenuto brevemente il primo posto in una competizione AI in corso nota come General Language Understanding Evaluation (GLUE). Da allora ERNIE è scivolato al quinto posto.

 

La competenza avanzata di ChatGPT con la lingua rispetto ai precedenti chatbot gli ha fatto guadagnare più di 100 milioni di utenti nei primi due mesi dal suo rilascio.

 

All’inizio di questo mese, un’università russa ha richiesto un accesso limitato a ChatGPT dopo che uno studente ha prodotto una tesi scritta dal bot.

 

Google dovrebbe rilasciare il suo rivale in ChatGPT, noto come Bard, nelle prossime settimane, mentre il gigante cinese dell’e-commerce Alibaba ha anche affermato che lancerà un bot in stile ChatGPT.

 

Come riportato da Renovatio 21, è emerso l’anno scorso che caccia cinesi dotati di Intelligenza Artificiale hanno sconfitto piloti umani. La Cina inoltre utilizzerebbe l’IA per i suoi sistemi di sorveglianza e i riconoscimenti facciali, compresa la repressione di minoranze come quella uigura.

 

Lo scorso anno il ricercatore capo di OpenAI ha dichiarato che l’IA «potrebbe già essere senziente», cioè in grado di sviluppare coscienza e consapevolezza come gli esseri viventi. Un ex dirigente di Google invece ha detto che con l’IA «stanno creando Dio». Un altro dipendente di Google, poi licenziato, ha destato scalpore dicendo pubblicamente che LaMDA, un chatbot IA di Google, sarebbe già incontrovertibilmente senziente.

 

 

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Cina

La Cina scopre un processo che rivoluziona la produzione dell’acciaio

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Dopo oltre un decennio di intensa ricerca in Cina, gli scienziati hanno sviluppato una nuova tecnologia rivoluzionaria per la produzione del ferro che potrebbe apportare cambiamenti di vasta portata nell’industria siderurgica globale. Lo riporta il giornale di Hong Kong South China Morning Post.

 

l professor Zhang Wenhai, accademico della Chinese Academy of Engineering, in un articolo pubblicato sulla rivista peer-reviewed Nonferrous Metals a novembre, ha riferito che lui e il suo team hanno sviluppato un metodo per iniettare polvere di minerale di ferro finemente macinata in una fornace estremamente calda, innescando una «reazione chimica esplosiva».

 

Il risultato è una serie di goccioline di ferro liquido rosso vivo e incandescente che piovono e si raccolgono sul fondo della fornace, formando un flusso di ferro ad alta purezza che può essere utilizzato direttamente per la fusione o la «produzione di acciaio in un unico passaggio».

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Noto come flash ironmaking, il metodo «può completare il processo di fabbricazione del ferro in soli tre-sei secondi, rispetto alle cinque-sei ore richieste dagli altiforni tradizionali», riporta lo studio. Ciò equivale a un aumento di 3.600 volte della velocità di fabbricazione dell’acciaio. Il nuovo metodo funziona anche eccezionalmente bene per i minerali a bassa o media resa che sono abbondanti in Cina.

 

Gli attuali metodi di produzione del ferro dipendono fortemente dai minerali ad alta resa e la Cina spende una grande quantità di denaro per importare tali minerali da Australia, Brasile e Africa. La Cina non avrà nemmeno bisogno di importare il suo elevato volume di carbone per la fabbricazione dell’acciaio, scrive EIRN.

 

Nell’attuale produzione tradizionale di acciaio, partendo da zero, il carbone viene utilizzato principalmente per produrre «coke», una forma di carbonio quasi puro, che funge sia da fonte di calore per fondere il minerale di ferro sia da agente riducente per rimuovere l’ossigeno dal minerale, lasciando dietro di sé ferro puro. Quel coke può essere omesso da questo processo.

 

Il team del Zhang ha sviluppato una lancia a vortice che può iniettare 450 tonnellate di particelle di ferro all’ora. Un reattore dotato di tre di queste lance può, in modo ottimale, produrre 7,11 milioni di tonnellate di ferro all’anno. Il documento nota che la lancia «è già entrata in produzione commerciale». Quando i cinesi generano un documento di ricerca, di solito hanno svolto molto lavoro nell’area.

 

Il concetto originale per questo processo di fabbricazione del ferro è nato negli Stati Uniti, ma, come nel caso di così tante aree di ricerca, gli Stati Uniti non lo hanno sufficientemente seguito, mentre il team di Zhang ha sviluppato una tecnologia di fusione rapida.

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Cancro

Cina, indagata clinica che prometteva di curare il cancro con la medicina tradizionale

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   Almeno 15 persone sono morte dopo essersi rivolte alla struttura, hanno spiegato le autorità. Il fondatore della clinica, Wu Pengfei, promuoveva le pratiche online e prescriveva ai pazienti medicinali contenenti erbe tossiche.   Una clinica di medicina tradizionale cinese della provincia centrale dell’Hubei è sotto indagine per la morte di 15 persone che erano alla ricerca di un trattamento per il cancro. Il fondatore della clinica, Wu Pengfei, sosteneva, in alcuni contenuti circolati online, di poter utilizzare la medicina tradizionale cinese per curare i tumori.   Un articolo pubblicato sul quotidiano Beijing News ha spiegato che tra il 18 aprile e il 31 maggio (data di apertura e chiusura della clinica), oltre 390 pazienti hanno visitato la struttura. Tra questi, 15 sono morti e 20 hanno visto le loro condizioni di salute peggiorare in maniera grave. Finora Wu Pengfei è stato sanzionato al pagamento di 417mila yuan, (oltre 57mila dollari) per aver commesso «atti illegali»: l’impiego di personale non sanitario per svolgere pratiche mediche e l’assenza di registri per gli acquisti e le prescrizioni di medicinali.

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In un video promozionale circolato online, un collega di Wu diceva di possedere «competenze mediche uniche» e di essere la «prima persona in Cina a curare il cancro utilizzando la medicina tradizionale cinese». Ma Hou Yuanxiang – questo il suo nome – era già stato in precedenza condannato per produzione e vendita di farmaci contraffatti. Nei video promozionali, Wu sosteneva anche che 3mila pazienti erano guariti dal cancro grazie alle pratiche di Hou, e la clinica godeva di tassi di guarigione di oltre l’80%.   Wang Xiaoying ha raccontato a Beijing News che suo fratello, Xiaobo, si era rivolto alla clinica dopo a febbraio che gli era stato diagnosticato un tumore al fegato. La famiglia era venuta a conoscenza della clinica grazie a un account online che ne promuoveva i servizi. Dopo aver pagato 18.620 yuan, Xiaobo è stato sottoposto per sette giorni a un trattamento di moxibustione, durante il quale un’erba chiamata moxa viene bruciata sulla pelle o vicino ad essa.   In seguito a un consulto di appena cinque minuti gli era inoltre stato prescritto un farmaco – ha continuato la sorella – che però non si è rivelato efficace: dopo due settimane di cure, il fratello aveva perso 5 chili di peso. Ricoverato in ospedale per un’ascite (un accumulo di liquido nell’addome), Xiaobo è morto un mese dopo.   Un medico che lavorava alla clinica e di cui Beijing News non riporta il nome, ha detto che nella preparazione dei medicinali veniva utilizzato l’aconito cinese, una radice tossica.

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La notizia ha generato una certa indignazione tra gli utenti cinesi. Alcuni hanno sottolineato l’arroganza del fondatore, che ha chiamato la clinica Yaowang Valley, che significa «valle del re della medicina», mentre altri hanno segnalato di diffidare di chi propone «medicine segrete tramandate da generazioni».   A inizio settimana le autorità cinesi hanno diramato un avviso con il quale affermano che sono in corso «indagini approfondite» sulle attività della clinica. I funzionari hanno inoltre ringraziato gli della rete per aver acceso i riflettori sulla questione, promettendo che i risultati dell’indagine saranno comunicati «in modo tempestivo».   Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne. Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Cina

Xinjiang e lavoro forzato: i «passi indietro» in Cina di Volkswagen e Uniqlo

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Le nuove normative sulle catene di approvvigionamento adottate da Stati Uniti e Unione Europea stanno costringendo molte aziende a prendere posizione sulla questione dello sfruttamento degli uiguri. La casa automobilistica tedesca ha venduto «per ragioni economiche» il discusso stabilimento di Urumqi, ma rilanciando i suoi piani commerciali in Cina. Il brand di abbigliamento giapponese: non usiamo cotone dello Xinjiang.

 

Dopo la BASF anche la Volkswagen ha deciso di lasciare lo Xinjiang, sull’onda delle accuse sull’impiego del lavoro forzato degli uiguri nella costruzione di una pista di prova per le auto. L’annuncio della casa automobilistica tedesca, arrivato ieri, parla ufficialmente di «ragioni economiche» legate al ridisegno della presenza in Cina. Ma segna di fatto una vittoria importante delle associazioni che si battono per la difesa dei diritti della minoranza musulmana, che nella provincia più occidentale della Repubblica popolare da più di dieci anni è oggetto di dure politiche repressive da parte del governo di Pechino.

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Come noto la Cina è un mercato fondamentale per Volkswagen: vi vende attualmente 4 automobili ogni 10 prodotte nei suoi stabilimenti a livello globale. Ma si tratta di una presenza che oggi si trova a fare i conti con lo scontro tra Pechino e l’Unione europea riguardo ai dazi sulle importazioni delle auto elettriche, oltre che con la crisi più generale della Volkswagen.

 

Quanto poi allo Xinjang la casa automobilistica si sarebbe trovata ora a fare i conti anche con il Regolamento sul lavoro forzato, adottato da Bruxelles lo scorso 19 novembre, che – pur essendo molto meno netto rispetto all’Uyghur Forced Labor Prevention Act in vigore negli Stati Uniti nel 2021 – avrebbe comunque messo in difficoltà lo stabilimento di Urumqi. Anche perché – come scrivevamo già qualche settimana fa – il rapporto commissionato da Volkswagen che avrebbe dovuto provare l’estraneità della consociata locale alle pratiche di lavoro forzato, è risultato essere stato steso in maniera molto dubbia in un posto dove è impossibile indagare liberamente.

 

Alla fine, dunque, Volkswagen ha deciso di vendere lo stabilimento che su richiesta di Pechino aveva aperto nello Xinjang nel 2012 e la relativa pista: andranno alla SMVIC di Shanghai, una società che si occupa di test sulle automobili prodotte in Cina.

 

Nel frattempo però è arrivata anche la proroga fino al 2040 della joint-venture con Saic Motor, il partner cinese della casa automobilistica tedesca. L’accordo prevede che entro la fine del decennio arrivino sul mercato 18 nuovi modelli di vetture Volkswagen e Audi, 15 dei quali esclusivi per il mercato locale. Obiettivo: recuperare posizioni tornando a vendere in Cina entro il 2030 quattro milioni di automobili all’anno, una quota di mercato del 15%. Via dallo Xinjiang, dunque, ma non certo dal resto della Repubblica Popolare.

 

La vendita dello stabilimento della casa automobilistica tedesca non chiude però la questione generale dei sospetti sull’uso del lavoro schiavo degli uiguri in prodotti che inondano i mercati di tutto il mondo. Secondo le denunce della Coalition to End Forced Labour in the Uyghur Region tra gli altri settori pesantemente coinvolti nel fenomeno c’è il tessile, dal momento che nello Xinjang si stima che si concentri il 23% della produzione mondiale di cotone, ma anche la produzione dei pannelli solari e la coltivazione dei pomodori.

 

Proprio oggi il brand di abbigliamento giapponese Uniqlo ha dichiarato per la prima volta di non far uso nei propri prodotti di cotone proveniente dalla regione degli uiguri. Un passo dettato proprio dalle nuove normative, che stanno costringendo molti gruppi presenti sui mercati internazionali a uscire dall’ambiguità: la legge americana, infatti, chiede alle aziende stesse di provare l’estraneità delle proprie catene di approvvigionamento. E pochi giorni fa l’amministrazione Biden ha inserito altri 29 gruppi che non lo hanno fatto nella lista delle compagnie le cui importazioni sono bloccate negli Stati Uniti.

 

Complessivamente sono già oltre 100 le aziende escluse dal mercato Usa per il sospetto di utilizzo del lavoro forzato degli uiguri e appartengono a settori che spaziano dall’agricoltura all’industria estrattiva, dalla siderurgia alle tecnologie digitali.

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La dichiarazione di Uniqlo è significativa perché fino ad oggi il suo fondatore e presidente Tadashi Yanai si era sempre rifiutato di rispondere, sostenendo di voler rimanere «neutrale» nella guerra commerciale tra gli Stati Uniti e la Cina. A pesare è anche la forte presenza dell’azienda giapponese sul mercato cinese: Uniqlo ha più negozi in Cina che nel Giappone stesso.

 

Di qui il timore che una presa di posizione sulla questione dello Xinjiang possa avere contraccolpi con boicottaggi di stampo nazionalista, come capitato ad altri grandi marchi del settore.

 

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