Pensiero
Il papato di Cthulhu
Il problema è che tutti si sono concentrati sulla questione del dogma climatico, sorvolando su dettagli più inquietanti.
Punto 11 dell’esortazione apostolica Laudate Deum: «L’origine umana – “antropica” – del cambiamento climatico non può più essere messa in dubbio». Il papa è infastidito riguardo al fatto che riguardo al cambiamento climatico ci sia anche solo discussione. Non c’è nulla da discutere: è dogma. Roma locuta, causa finita.
Il nuovo peccato originale, l’impronta carbonica, è pronto per essere lanciato dal Sacro Palazzo, in sostituzione di quello dell’Eden. A partire da quello, l’intera religione cattolica sta per essere riscritta, fin dalle sue linee di codice fondamentali.
«Francesco dogmatizza il clima e relativizza i dogmi della fede» si sente dire in giro. Pare proprio così, in effetti.
Un sacerdote con fine mente teologica mi dice che, in realtà, Laudate Deum non contiene grosse novità rispetto a Laudato sii. Mi spiega che elementi di vero cambiamento della religione erano presenti lì: i semi del panteismo, cioè del ritorno di un paganesimo che divinizza la natura, era gettati con evidenza nell’Enciclica del 2015 che Laudate Deum dovrebbe aggiornare. Chi non comprende quello che stiamo dicendo, pensi alla Pachamama, l’idolo pagano della Terra portato in Vaticano.
Quindi: nihil novum sub solis. Non ci sono grandi innovazioni rispetto all’eco-enciclica otto anni fa.
C’è tuttavia un particolare che mi ha fatto sobbalzare, aprendomi la mente verso scenari mostruosi – letteralmente, programmaticamente mostruosi.
Al punto 66 il linguaggio del documento si mostra sempre cervellotico ed un po’ oscuro: «Dio ci ha uniti a tutte le sue creature. Eppure, il paradigma tecnocratico può isolarci da ciò che ci circonda e ci inganna facendoci dimenticare che il mondo intero è una “zona di contatto”».
Cosa significa che Dio ci ha «uniti» alle altre creature? Come può il papa che ha spinto l’intera popolazione dei fedeli verso l’alterazione via tecnologia genica mRNA parlare di rifiuto della «tecnocrazia»? Cosa significa «zona di contatto»?
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La nota al termine del periodo spiega tutto. E ci fa saltare dalla sedia. Il papa cita direttamente un libro Donna Haraway.
Pochi sanno di chi si tratta. Qualcuno che seguiva le cose filosofico-editoriali degli anni Novanta può averne un vago ricordo, anche se si tratta di un personaggio che credevamo dimenticato.
La Haraway è considerata capofila di un pensiero che – cercate di non ridere – si definiva «ciberfemminista», «ecofemminista» o perfino «femminismo post-umano», «post-genderismo». Non è sbagliato ritenere che la cifra del suo lavoro – un attacco feroce all’antropocentrismo – è estendere la teoria del gender alle questioni tecnologiche (come la modificazione del corpo umano) e oltre, fino al regno animale.
Zoologa e filosofa, ha perfezionato gli studi a Yale (la prestigiosa università della loggia Skull and Bones con i suoi membri eletti presidenti USA), da cui è stata pure premiata come grande ex-studentessa. Va ricordato che è cresciuta con una madre cattolica e la scuola delle suore del Colorado: un particolare che permette di comprendere alcune cose delle pazzesche teorie che ha promosso durante la sua fortunata carriera accademica. Citiamo anche il fatto che prese una borsa di studio Fulbright – secondo alcuni, un sistema di cooptazione di individui promettenti da tutto il mondo per mandare avanti l’agenda dell’establishment angloamericano – per andare a Parigi a studiare filosofia dell’evoluzione alla Fondazione Teilhard de Chardin.
La popolarità della pensatrice statunitense cominciò nel 1985, quando pubblico sulla rivista Socialist Review il suo «Manifesto per i cyborg: scienza, tecnologia e femminismo socialista negli anni ’80», divenuto poi semplicemente Manifesto Cyborg pubblicato in Italia da Feltrinelli nel 1995. Si tratta di un saggio considerato una pietra miliare nel nuovo femminismo, che di fatto negando in ultima analisi anche l’identità della donna, si pone in contrapposizione al vecchio femminismo.
La Haraway predica un superamento dei dualismi sociali e biologici: critica la struttura binaria della cultura occidentale che ha generato divisioni tra categorie come uomo/donna e naturale/artificiale. Questi dualismi, afferma la Haraway, «sono stati tutti sistematici nelle logiche e nelle pratiche di dominio delle donne, delle persone di colore, della natura, dei lavoratori, degli animali… tutti costituiti come altri».
Viene quindi introdotto, come sintesi liberatoria, il concetto del cyborg, un’entità che rappresenta una fusione tra organico e tecnologico, oltrepassando le tradizionali distinzioni di genere e natura. Il cyborg sfida l’idea della natura umana immutabile, poiché sempre più persone utilizzano tecnologie per estendere le proprie capacità: protesi, by-pass, apparecchi acustici, persino le dentiere possono indicare che l’uomo-macchina è già realtà.
Il concetto di cyborg rappresenta un rifiuto dei confini rigidi, in particolare quelli che separano «umano» da «animale» e «umano» da «macchina».
«Il cyborg non sogna una comunità sul modello della famiglia organica, questa volta senza il progetto edipico. Il cyborg non riconoscerebbe il Giardino dell’Eden; non è fatto di fango e non può sognare di ritornare polvere» scrive il manifesto della Haraway.
Il cyborg evidenzia la fluidità e la complessità delle identità umane, mettendo in discussione le concezioni binarie e aprendo la strada a una visione proteiforme dell’umanità: uomo e macchina, maschio e femmina, umano ed animale… l’identità stessa dell’essere umano va messa in discussione.
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Come può capire il lettore, siamo davanti ad una delle teoriche principali del transumanismo, che passa per il femminismo, il transessualismo e perfino l’animalismo.
La questione degli animali esce fuori con decisione nel libro del 1990 Primate Visions: Gender, Race, and Nature in the World of Modern Science («Visioni dei primati: genere, razza e natura nel mondo della scienza moderna») dove si parla – anche qui, tratteniamo le risatine – di «primatologia femminista», e si attacca lo studio «maschilista» delle scimmie, che ha una tendenza a mascolinizzare le storie sulla «competizione riproduttiva e sul sesso tra maschi aggressivi e femmine ricettive [che] facilitano alcune e precludono altri tipi di conclusioni».
Scimmie e cyborg si ritrovano anche nell’altro suo libro seminale, Simians, Cyborgs and Women: The Reinvention of Nature («Scimmie, cyborg e donne: la reinvenzione della natura») dove la Haraway torna ad usare la metafora del cyborg per spiegare come le contraddizioni fondamentali nella teoria e nell’identità femminista dovrebbero essere congiunte, piuttosto che risolte, in modo simile alla fusione tra macchina e organismo nei cyborg. Nel testo la Haraway cristica il capitalismo rivelando come gli uomini abbiano sfruttato il «lavoro riproduttivo» delle donne, di modo che esse non raggiungessero la piena uguaglianza nel mercato del lavoro.
Mettere al mondo un figlio, quindi, è una grande minaccia per la tua vita di donna carriera: studi sulle scimmie e teorie cyborg alla fine portano alla semplice conclusione a cui sono portate quasi tutte le femmine del pianeta, e l’aborto di massa è l’effetto di questo pensiero qualunquista.
La filosofa ha premuto su questo punto su un testo più recente chiamato Making kin. Fare parentele, non popolazioni, scaturito da un gruppo di lavoro con altre cinque pensatrici femministe. Il succo del discorso è che non bisogna fare bambini (un atto inquinante, che genera anche altri problemi), ma riorganizzare in senso «famigliare» le persone che già esistono: un qualcosa che sta tra la ritribalizzazione della società, viene da pensare, e il tentativo di creare surrogati della famiglia, come avviene per quelli che invece dei figli hanno cani e gatti o perfino bambole iperrealistiche.
«Fare bambini è diverso che regalare ai bambini una buona infanzia» scrive il libro, forse una vetta dell’antinatalismo più spudorato e disperato in circolazione. Il tema ambientale, tanto caro a Bergoglio, è presente, visto che è ripetuta la storia dei problemi tra l’incremento della popolazione e le conseguenze sull’ambiente, cioè l’origine «antropica» della crisi climatica di cui parla il papa.
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Anche qui, ci stupiamo poco o niente. L’agenda di riduzione della popolazione e delle nascite – un tempo argomento di attacco perenne dell’universo ONU contro la Santa Sede – è stata abbracciata dal Vaticano al punto da resuscitare personaggi che pensavano dimenticati se non morti. È il caso di Paul Ehrlich, un altro biologo (un entomologo, per l’esattezza) che si rese famoso per la teoria della «bomba demografica», con previsioni catastrofiche di fame e guerra causate dall’aumento della popolazione che, come vi è evidente, non si sono avverate. Ehrlich, come sappiamo, viene ora invitato nel Sacro Palazzo a seguire lavori delle Pontificie Accademie.
Il ripescaggio di Donna Haraway non è differente: un personaggio antitetico totalmente alla dottrina cattolica, che predica un transumanismo sessualoide apocalittico, con inclusa negazione della specificità umana, finisce in bocca al papa. Un personaggio che pensavamo oramai consegnato all’oblio: chi scrive ricorda come a metà degli anni Novanta il Manifesto Cyborg faceva la gioia di giovani lesbiche e femministe del ceto medio riflessivo; era chiaro, forse persino all’ora, che si trattava di un capitolo corposo dell’OPA che la teoria del gender stava lanciando su tutta la società, con pubblicazione presso editori mainstream e con articoloni su giornali mainstream.
Guardando indietro, mi sembra chiaro ora che la questione è più grande del gender. In quegli anni, appena crollato il muro, si avvertiva come una pulsione sempre più chiara delle arti verso il male. Lo chiamavano «post-umano»: c’era un’«artista» francese che si faceva impiantare dai chirurghi gobbe sulla fronte (corna, tipo) e altre cose deformanti; un altro, che si faceva appendere dai grattacieli con ganci sotto la pelle, si era creato un terzo arto robotico – farlocchissimo, ma il messaggio era chiaro. Altri ancora facevano cose sempre più disgustose: chi scrive ricorda il conato di vomito vero che ebbe quando ad una conferenza di una «storica dell’arte» venne mostrato il VHS di una famosa compagnia teatrale spagnola, dove mi era parso di vedere una scena che indicava la bestialità – eccolo, un altro confine umano da abbattere, verso la distruzione totale dell’identità degli esseri, verso la Necrocultura realizzata.
L’arte moderna, con la sua attitudine riconosciuta e socialmente accettata della popolazione, era il vettore ideale per far entrare nella società il nuovo messaggio del padrone del vapore, che dopo il muro non aveva più bisogno della religione, anzi la vedeva di intralcio. Anche lì, l’influenza della Haraway è riconosciuta: nel 2017 ArtReview ha nominato Haraway la terza persona più influente nel mondo dell’arte contemporanea, affermando che il suo lavoro «è diventato parte del DNA del mondo dell’arte».
Ma non ci sono solo le gallerie d’arte e le loro speculazioni. L’ondata del male era percepibile ovunque. È in quegli anni che il BDSM, cioè il sadomasochismo organizzato, cominciava a mostrarsi pubblicamente: ecco le persone con la tuta di lattice, le fruste, i bavagli fatti con la pallina in bocca. Nelle discoteche cominciavano ad apparire personaggi così conciati, così come pure qualche travestito – allora soggetti rarissimi, invisibili – assunto come «vocalist» della serata (ripetevano, dalla console che martellava la techno, frasi senza senso: «voglio fare il maestro di sci… voglio fare il maestro di sci…»). Il ragazzo di campagna che ballava con gli amici si ritrovava davanti questi segni pensando che si trattasse di orpelli della serata dionisiaca. Non era così.
Nei film, se rammentate, negli anni Novanta vi fu una fiammata improvvisa di storie di serial killer. Questi però non erano più dei mostri assassini, ma degli esseri dalla psicologia complessa (Il silenzio degli Innocenti) capaci perfino di prodursi in una densa critica della società (Seven). Di lì a poco gli assassini psicopatici sarebbero divenuti protagonisti, come ora accade tranquillamente in varie serie televisive.
Scristianizzata la società, il Male poteva essere pensato e distribuito in tranquillità, senza timori di censure o altro – pensate alla differenza con Ultimo Tango a Parigi, per la cui famosa scena del burro vi furono processi (Marlon Brando condannato in Italia) e roghi della pellicola indetti da qualche sacerdote.
Quando vediamo il nome di Donna Haraway, pensiamo a tutto questo. Vedere il suo nome in un’esortazione apostolica ci riempie di sgomento. Davvero, cosa legge il papa? O meglio: a quale cultura si riferiscono quelli che scrivono per il papa? Perché non fanno più nemmeno la fatica di nasconderlo?
La risposta forse va cercata sempre fra i libri della Haraway amati dai neocattolici. In Italia ne è apparso uno con un titolo eccezionale: Cthulucene.
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Per chi non lo sapesse, Cthulu è una sorta di enorme divinità terrifica della fantasia letteraria dello scrittore H.P.Lovecraft. Si tratta di un essere gigantesco e mostruoso, con la pelle verde, le ali di pipistrello e la testa di polpo che emana tentacoli, che vive in fondo al mare, in attesa di essere risvegliato ad una determinata congiunzione astrale, pronto per distruggere e sottomettere l’umanità.
Nei romanzi e racconti di Lovecraft si sostiene che esiste un libro che lo descrive, il Necronomicom, e che un culto segreto di Cthulu esista ancora in diverse parti della Terra, pronto a celebrare il ritorno di tale bestia che vien dal mare (massì, usiamo pure questa espressione della Rivelazione) e la catastrofe che porterà con sé. Uomini che pregano per la fine dell’umanità: dove l’abbiamo già sentita questa?
La Haraway scrive di un’era, lo Chtulucene, che bisognerà attraversare una fase per salvarsi dal disastro dell’antropocene (cioè, letteralmente, «l’era degli uomini»), segnato dalla sovrappopolazione.
«Cosa succede quando il genere umano, dopo aver irrimediabilmente alterato gli equilibri del pianeta Terra, smette di essere il centro del mondo? E nel pieno della crisi ecologica, che relazioni è possibile recuperare non solo tra individui umani, ma tra tutte le specie che il pianeta lo abitano?» si chiede il libro. La risposta, dice la Haraway, è attuare in questo pianeta infetto un pensiero «tentacolare», un cambio di paradigma dove, come spiegato sopra, invece di generare figli si creano «parentele» con «decisioni intime e personali per creare vite fiorenti e generose senza mettere al mondo bambini».
Se tutto questo vi sembra mostruoso è perché lo è, e vuole esserlo, vuole pure sembrarlo.
La chiesa ha abbracciato la Necrocultura fino nelle sue manifestazioni può orripilanti e grottesche, dove si slatentizzano le fantasie dei grandi mostri – i titani, come Gaia – che distruggono la civiltà e sterminano gli esseri umani. È una chiesa teriomorfa, una chiesa pantoclastica, godzillista, post-umana, post-zoica, chtulucenica. È il papato di Cthulu.
Pensavate si sarebbero fermati alla Pachamama e alla messa Maya, eccovi invece Cthulu il Grande, Cthulu il Terrificante. Era inevitabile.
Bergoglio ha già cambiato il Padre Nostro, e come sapete lavora alacremente per distruggere ciò che rimane della Messa in latino. Non è impensabile che le prossime preghiere che promuoverà saranno in un’altra lingua antica, l’aklo, l’idioma segreto dei culti del Male di Lovecraft.
«Ph’nglui mglw’nafh Cthulhu R’lyeh wgah’nagl fhtagn». Cioè: «Nella sua dimora a R’lyeh il morto Cthulhu attende sognando».
Ripetete: «Cthulhu fhtagn».
«Cthulhu fhtagn».
Roberto Dal Bosco
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Pensiero
Trump e la potenza del tacchino espiatorio
🦃 America’s annual tradition of the Presidential Turkey Pardon is ALMOST HERE!
THROWBACK to some of the most legendary presidential turkeys in POTUS & @FLOTUS history before the big moment this year. 🎬🔥 pic.twitter.com/QT2Oal12ax — The White House (@WhiteHouse) November 24, 2025
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Civiltà
Da Pico all’Intelligenza Artificiale. Noi modernissimi e la nostra «potenza» tecnica
Se Pico della Mirandola fosse vissuto nel nostro secolo felice, non avrebbe avuto di certo le grane che gli procurò la Chiesa del suo tempo.
Avrebbe potuto discutere tranquillamente le sue 900 tesi, tutte più o meno volte a dimostrare la grandezza dello spirito e dell’ingegno umano. Soprattutto avrebbe venduto in ogni filiale Mondadori milioni di copie del proprio best seller sulla superiorità dell’uomo e della sua creatività benefica, ben rappresentata in Sistina dall’ eloquente immagine delle mani di un possente Adamo e del suo creatore, che si sfiorano e dove, in effetti, non si sa bene quale sia quella dell’ essere più potente.
Insomma Pico non avrebbe dovuto darsela a gambe nottetempo da Roma per finire prematuramente i propri giorni nelle terre avite, raggiunto da una febbre malsana di origine sconosciuta, manco gli fosse stato iniettato a tradimento un vaccino anti-COVID. Eppure era stato frainteso, o a Roma si era temuto che potesse essere frainteso dai suoi contemporanei e dai posteri. Che avrebbero potuto interpretare quella sbandierata superiorità dell’uomo come una divinizzazione capace di escludere la sua condizione di creatura.
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Ma oggi proprio così fraintesa, quella affermata superiorità dell’uomo faber serve ad alimentare la accettazione compiaciuta di qualunque gabbia tecnologica in cui ci si consegna per essere tenuti volontariamente in ostaggio. Sullo sfondo, l’ambizione tutta moderna ad essere liberati dalla condizione involontaria di creature, e dall’inconveniente di una fatale finitezza. Non per nulla la prima cosa di cui si incarica la scuola è quella di rassicurare i bambini circa la loro consolante discendenza dalle scimmie.
Ed è con questa superiorità che hanno a che fare le meraviglie abbaglianti della tecnica.
Dopo la navigazione di bolina e la scoperta dell’America, dopo il telaio meccanico e la ghigliottina, l’idea della onnipotenza umana ha trovato conferma definitiva in quella che a suo tempo è apparsa la conquista più ingegnosa della tecnica moderna: la capacità di uccidere il maggior numero di individui nel minor tempo possibile. Gaetano Filangeri annotava infatti già alla fine del Settecento come fosse proprio questo il massimo motivo di compiacimento che emergeva dai discorsi di tutti i politici incontrati in Europa.
Di qui, di meraviglia in meraviglia, si è capito che non solo si possono fare miracoli, prescindendo dalla natura, ma che è possibile un’altra natura, prodotta dall’uomo creatore. E se Dio il settimo giorno riconobbe che quanto aveva creato era anche buono, non si vede perché non lo debba pensare anche l’evoluto tecnico, o il legislatore o il giudice che si scopra signore della vita e della morte.
Sia che crei la pecora Dolly, o inventi il figlio della «madre intenzionale», o renda una coppia di maschi miracolosamente fertile, oppure stabilisca chi e come debba essere soppresso perché inutile o semplicemente desideroso di morire per mano altrui.
O, ancora, applichi a scatola chiusa quel criterio della morte cerebrale che serve a dare qualcuno per morto anche se è vivo. Una trovata perfetta capace di salvare capra e cavoli: perché mentre soddisfa la sacrosanta aspirazione del cliente ad ottenere un pezzo di ricambio per il proprio organo in disuso, appone sull’operazione il sigillo altrettanto sacrosanto della scientificità, che tranquillizza tutti e preserva dalle patrie galere.
Con la tecnica si manipolano le cose ma anche i linguaggi e quindi le coscienze. Si può mettere pubblicamente a tema se sterminare una popolazione inerme etnicamente individuata seppellendola sotto le sue case, costituisca o meno genocidio. Con la logica conseguenza che, se la risposta fosse negativa, la cosa dovrebbe essere considerata politicamente corretta mentre l’eventuale giudizio morale può essere lasciato tranquillamente sui gusti personali.
Tuttavia senza l’approdo ultimo alla cosiddetta «Intelligenza Artificiale», tutte le meraviglie del nostro tempo non avrebbero potuto elevare il moderno creatore tecnologico alla odierna apoteosi, molto vicina a quella con cui i romani presero a divinizzare i loro imperatori, senza andare troppo per il sottile.
Anzi, dopo più di un secolo di riflessione filosofica, di scrupoli, timori, ansie e visioni apocalittiche, di pessimismo sistematico e speranze di redenzione, di fughe in avanti e pentimenti inconsolabili come quello di chi dopo avere donato al mondo la bomba atomica ne aveva verificato meravigliato gli effetti, dopo tanta fatica di pensiero, le acque sembrano tornate improvvisamente tranquille proprio attorno all’oasi felice della cosiddetta «Intelligenza Artificiale».
Ogni dubbio antico e nuovo su dominio della tecnica ed emancipazione umana potere e libertà, civiltà e barbarie, sembra essersi dissolto in un compiacimento che non risparmia pensatori pubblici e privati, di qualunque fascia accademica, e di qualunque canale televisivo. Anche l’antico monito di Prometeo che diceva di avere dato agli uomini «le false speranze» ha perso di significato, di fronte a questo nuovissimo miracolo che entusiasma quanti, quasi inebriati, toccano con mano i vantaggi di questa nuova manna. Mentre le più ovvie distinzioni da fare e la riflessione doverosa sui problemi capitali di fondo che il fenomeno pone, sembrano sparire da ogni orizzonte speculativo.
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Dunque si può tornare a dire «In principio fu la meraviglia» ovvero lo stupore e il timore reverenziale di fronte alla potenze soverchianti della natura che portarono il primo uomo a venerare il sole e la madre terra e a riconoscere una volontà superiore davanti alla quale occorreva prostrasi. Eppure allora iniziò anche qualche non insignificante riflessione sull’essere umano e sul suo destino.
Oggi lo stupore induce al riconoscimento ottimistico di una nuova forza creatrice tutta umana e quindi controllabile e allo affidamento alle sorti progressive che comunque si ritengono assicurate.
Incanta il miracolo nuovo che eliminando la fatica di fare e pensare induce compiacimento e fiducia. Il discorso attorno a questo miracolo non ha alcuna pretesa filosofica perché assorbito dalla meraviglia si blocca sulla categoria dell’utile. La prepotenza della funzione utilitaristica assorbe la riflessione critica. Non ci si preoccupa perché la tecnica «non pensa» come vedeva Heidegger alludendo alla indifferenza dei suoi creatori circa la qualità delle conseguenze. La constatazione trionfalistica dell’utile fornito in sovrabbondanza dalla tecnica basta a fugare ogni scrupolo, ogni dubbio, ogni timore, ogni preoccupazione sui risvolti esistenziali non più e non solo derivanti dalla volontà di dominio delle centrali di potere che la governano.
Viene eluso in modo sorprendente il nodo centrale del fatale immiserimento delle capacità critiche logiche e speculative, in particolare di quelle del tutto indifese, perché non ancora formate, dei più giovani, esposti ad un progressivo e forse irrecuperabile deterioramento intellettuale. Eppure questa avrebbe dovuto essere la preoccupazione principale sentita da una civiltà evoluta.
Come accadde in tempi lontanissimi all’avvento della scrittura, quando ci si chiese se essa avrebbe mortificato le capacità mnemoniche di popolazioni che avevano fondato la propria cultura sulla tradizione orale.
Noi ci compiaciamo dell’avvento della scrittura, che ci ha permesso di tesaurizzare quanto del pensiero umano altrimenti sarebbe andato perduto. Ma ciò non toglie che quella coscienza arcaica avesse chiaro il senso dei propri talenti e avesse la preoccupazione della possibile perdita di una capacità straordinaria acquisita nel tempo, dello straordinario patrimonio accumulato grazie ad essa e in virtù della quale quel patrimonio avrebbe potuto essere trasmesso, pur con altri mezzi.
la mancanza di questa preoccupazione prova una inconsapevoleza e un arretramento culturale senza precedenti, ed è lecito chiedersi se tutto questo non sia già il frutto avvelenato proprio delle acquisizioni tecnologiche già incorporate nel recente passato.
La riflessione dell’uomo sulle proprie possibilità ha accompagnato la «consapevolezza della propria ignoranza e le domande fondamentali sull’origine dell’universo e sul significato dell’essere». Ma presto, il pensiero greco aveva messo in guardia l’homo faber dalla tracotante volontà di potenza di fronte alla natura e alle sue leggi, e aveva eletto a somma virtù la misura. Esortava a quella conoscenza del limite oltre il quale c’è l’ignoto. Hic sunt leones! Come avrebbero scritto gli antichi cartografi.
Del resto la saggezza antica suggeriva anche di tenere ben distinto il mondo dei mortali da quello incorruttibile degli dei che ai primi rimaneva precluso. La stessa divinizzazione degli imperatori romani era una messinscena politico demagogica sulla quale si poteva anche imbastire una satira feroce.
Il valore dell’uomo si misurava sulle imprese di quelli che erano capaci di lasciare il segno in una storia che inghiottiva tutti gli altri, senza residui.
Poi per gli umanisti in generale, a destare meraviglia fu l’uomo in se’, ovvero l’essere superiore capace di dotarsi di pensiero filosofico e speculativo, e di un bagaglio culturale elevato, in cui vedere riflessa la propria superiorità. Pico scrive il manifesto di questo riconoscimento intitolandolo Oratio Hominis dignitate. La grandezza dell’uomo non si esprime in opere dell’ingegno ma nella capacità di rigenerarsi come essere superiore. Attraverso la ragione può diventare animale celeste, grazie all’intelletto, angelo e figlio di Dio. È la potenza del pensiero a farne il signore dell’universo accanto all’Altissimo. Del quale però rimane creatura. Precisazione indispensabile per Pico, che doveva salvarsi l’anima, se non la vita. Gli artisti cominciavano a firmare le proprie opere ma l’arte era ancora la scintilla divina che essi riconoscevano nel proprio creare.
Col tempo, la vertiginosa progressione tecnica fino alla impennata tecnologica contemporanea ha invece condotto l’uomo contemporaneo, ad un senso di sé che si declina come volontà di potenza espressa nelle opere dell’ingegno di cui egli è creatore e fruitore.
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Tuttavia, se la tecnica serve per uccidere il maggior numero di uomini nel minor tempo possibile, si capisce come da nuova meraviglia e nuova natura, possa farsi problema. Si è presa coscienza vera delle sue applicazioni e implicazioni economiche, politiche, e antropologiche in senso ampio, della mercificazione umana di cui diventa portatrice. Ma anche della necessità di risalire alla matrice prima di questo processo, ovvero alla ragione, la dote distintiva dell’uomo che da guida luminosa può degenerare in mezzo di autodistruzione.
Giovanbattista Vico aveva visto nelle sue degenerazioni il germe di una seconda barbarie. Quella stessa ragione che ha scoperto i mezzi per vincere l’ostilità della natura, procurare condizioni più favorevoli di vita, e controllare la paura dell’ignoto, ha sviluppato la tecnica, soprattutto nella modernità occidentale, secondo una progressione geometrica. Ma questa stessa ragione umana da fattore di liberazione si rovescia in strumento di dominio, proprio attraverso la tecnica.
Tale rovesciamento, come è noto, è stato al centro della Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno che lo hanno fissato genialmente nell’incipit memorabile: «L’illuminismo ha sempre perseguito il fine di togliere all’uomo la paura dell’ignoto, ma la terra interamente illuminata, splende all’insegna di trionfale sventura». Dove per illuminismo si allude appunto all’impiego della ragione calcolante, e al suo sforzo primigenio per vincere lo smarrimento e la sottomissione indotte dalle forze della natura. Ma il mondo creato attraverso il processo di razionalizzazione diventa a sua volta naturale e quindi domina i rapporti umani, ne produce la reificazione, e a sua volta risulta ingovernabile. Dunque la ragione è creatrice degli strumenti di dominio sotto la maschera della liberazione.
Questi autori hanno visto da vicino, anche per esperienza personale, come l’avanzata incessante del progresso tecnico possa diventare incessante regressione verso quella seconda barbarie preconizzata da Vico tre secoli prima. Hanno visto la barbarie ideologica e pratica prodotta dai sistemi totalitari. E poi, una volta emigrati negli Stati Uniti, lo imbarbarimento di una società che dal di fuori era ritenuta politicamente più evoluta. Avevano constatato come l’umanità del XX secolo avesse potuto regredire a «livelli antropologici primitivi che convivevano con stadi più evoluti del progresso».
E infine, come in questo orizzonte regressivo i capi avessero «l’aspetto di parrucchieri, attori di provincia, giornalisti da strapazzo», «al vuoto di un capo, corrispondesse una massa vuota, e alla coercizione quella adesione generalizzata che rende la prima quasi irreversibile». Inutile dire che di questi fenomeni abbiamo ora sotto gli occhi la forma più compiuta.
Con la modernità la ragione che per Pico avvicinava l’uomo a Dio, è diventata irrimediabilmente strumentale e soggettiva. Non si mette in discussione la qualità dei fini ma si adotta in ogni campo e senza riserve, fraintendendone il senso, la lezione di Machiavelli. Non per nulla, nella versione Reader’s Digest, questo rimane l’autore di riferimento, dei teorici dell’espansionismo imperiale e americano fino ai giorni nostri.
Ma se con la ragione strumentale si impone la logica dei rapporti di forza, questa, portata alle estreme conseguenze,, fa cadere anche il limite e il discrimine tra bene e male, secondo la filosofia di De Sade, che sembra farsi largo in una società ormai nichilista. Così negli ospedali londinesi si possono sopprimere impunemente i neonati troppo costosi per il sistema sanitario, a dispetto dei genitori. Si possono destabilizzare i governi a dispetto dei popoli, si possono roversciare i canoni etici, estetici, religiosi e logico razionali.
Dunque, quella diagnosi pessimistica, dovrebbe tornare quanto mai attuale oggi che l’approdo alla cosiddetta intelligenza artificiale si è compiuto, ed essa è già diabolicamnete applicata all’insaputa delle vittime, o trionfalmente accolta dai suoi ammirati fruitori. Torna attuale per avere messo a tema la torsione della ragione liberatrice in strumento di dominio anche se non era ancora possibile intravedere il rovesciamento ulteriore, l’Ultima Thule della autoschiavizzazione che avviene con la sottomissione spontanea e felice alla sovraestensione tecnologica.
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Invece sembra che si sia dimenticata, per incanto, tutta la riflessione intorno alla tecnica , che ha affaticato il pensiero di un intero secolo. Ora che le metamorfosi di una intera Civiltà, diventate presto di dimensioni planetarie, mostrano più che mai la necessità di riprendere il tema filosofico per eccellenza, sulla essenza e sul destino dell’uomo.
Ed è con questo tema che noi abbiamo a che fare più che mai. Infatti non si tratta più o non solo di prendere coscienza della esistenza di centri di potere che hanno in mano le redini degli strumenti con cui siamo dominati. Perché questa, bene o male, è diventata coscienza abbastanza diffusa almeno in quella parte di dominati che hanno la capacità di riflettere sulla propria condizione di sudditanza.
Tutti più o meno si sono accorti della manipolazione del consenso e della potenza della pubblicità e della forza della propaganda. Nonché della dipendenza dalla tecnologia e delle sue controindicazioni. Anche se ogni diffidenza e ogni riconoscimento di dipendenza viene poi spesso temperato dalla convinzione che si possa comunque controllare lo strumento.
Il salto di qualità l’ha prodotto la meraviglia. Questa volta non turbata dal timore della propria impotenza. L’utile immediato è metafisico, e il miracolo salvifico non megtte in discussione la bontà della volontà che lo genera. Il miracolo crea fedeli e discepoli confortati. Gli agnostici tutt’al più vogliono toccare con mano, anche Tommaso diventa il più convinto dei credenti di fronte alla evidenza dei risultati. Ogni aspetto problematico della faccenda viene messo da parte perché è comunque meglio una gallina oggi che un uovo domani.
Sotto a tanta meravigliosa e meravigliata fiducia c’è la rinnovata fede nella divinità del genio umano che comunque appare lavorare per il bene dei mortali. Un bene tangibile, pronto e tutto svelato, nonché senz’altro proficuo per le nuove generazioni sollevate dalla fatica inutile di imparare a leggere, scrivere e fare di conto, e soprattutto da quella pericolosa attitudine a pensare, ricordare, esplorare e guardare al di là del proprio particulare.
Ancora una volta è dunque la ragione calcolante che dopo avere rinchiuso gli uomini nella gabbia dell’utile materialmente ponderabile tenuta dal potere, fa sì che essi vi si rinchiudano con rinnovato entusiaimo e di propria iniziativa. Insomma non si tratta più di un ingranaggio di dominio e manipolazione subito e del quale non tutti e non sempre hanno acquistato chiara consapevolezza. Si tratta della rinuncia volontaria alla propria capacità di autonomia e di sviluppo delle facoltà speculative destinate ad immiserirsi e isterilirsi per abbandono progressivo, e infine per non uso.
Di certo la difficoltà di uscire dall’ingranaggio, di fronte alla prepotenza dell’ordigno e alla accondiscendenza crescente degli stessi entusiasti utilizzatori diventa oggi drammatica quanto sottovalutata. Gli stessi Horkheimer e Adorno avevano esitato a proporre una soluzione per il problema, più oggettivamnete contenuto, che avevano affrontato allora con tanta acribia. Non bisogna però sottovalutare il suggerimento che essi formularono alla fine, ipotizzando la possibilità di riportare proprio la ragione calcolante alla autoriflessione sul proprio invasivo precipitato tecnologico.
Una soluzione utopica , si è detto, perché la ragione rinnegando se stessa dovrebbe paradossalmente rinunciare a tutto quello che ha anche fornito all’uomo come mezzi di sopravvivenza e di emancipazione dai condizionamenti della natura. Tuttavia non è insensato pensare che la autoriflessione possa condurre a stabilire il confine invalicabile oltre il quale il costo umano capovolge il senso stesso del calcolo razionale togliendo ad esso ogni giustificazione logica. Si tratta di vedere con disincanto tutta la realtà dei nuovi giocattoli antropofagi. Perché di questo si tratta: quella innescata dalle nuove frontiere della tecnica altro non è che autodistruzione morale e materiale, consegna senza scampo all’arbitrio incontrollabile di una potenza che fugge anche al controllo di chi la mette in moto.
Se «dialettica dell’illuminismo» significava nella riflessione dei suoi autori, rovesciamento della promessa di emancipazione della ragione in dominio e schiavizzazione sotto mentite spoglie, di questo rovesciamento la cosiddetta Intelligenza Artificiale è il compimento funesto e pericolosissimo perché capace non soltanto di neutralizzare attualmente ogni difesa, ma anche di isterilire nel tempo ogni potenzialità critica e speculativa. E appare del tutto irrisorio obiettare che è possibile controllare il processo perchè si è consapevoli che in ogni caso il meccanismo è un prodotto umano. Come se la valanga provocata dalla dinamite fosse per ciò stesso anche arrestabile.
Converrebbe piuttosto ricordare il monito di Benedetto XVI sulla necessità di allargare un concetto di ragione oramai ridotta a ragione calcolante per riconoscere di nuovo ad essa la funzione di guidare gli uomini verso l’ orizzonte spiritualmente ed eticamente più ampio ed elevato della cura e della vita buona, della consapevolezza e della corrispondenza tra il pensiero e il bene che va oltre l’immediatamente utile.
Per questo forse non basta lo sforzo di autoriflessione suggerito nella Dialettica dell’illuminismo, occorre ritrovare quel senso della trascendenza che allarga la mente oltre il vicolo cieco e le secche di un pensiero senza la luce di fini più grandi dell’utile contabile ed immediato.
Quell’uomo non a caso tanto presto dimenticato, perchè incompatibile con la miseria dei tempi, aveva compreso perfettamente, dall’alto di una grande intelligenza e di una solida fede, che sul ciglio del baratro occorre tornare indietro e buttare al macero «le false speranze».
Patrizia Fermani
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Immagine screenshot da YouTube
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