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Il padre della TV trash è morto. La sua spazzatura è ancora con noi

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Renovatio 21 pubblica questo articolo apparso su Mondoserie.

 

 

Jerry Springer è morto, viva Jerry Springer. Ho chiesto al direttore di Mondoserie di lasciarmi fare un pezzo che fosse un The Best of che raccogliesse i momenti epici che ancora si trovano in rete. Ha detto di sì, e anche subbito.

 

Del resto, Mondoserie è un sito che si occupa di intrattenimento seriale, e quindi è impossibile non parlare di una trasmissione con 28 stagioni all’attivo – per 4.969 episodi! – e una dose pressoché infinita di momenti di goduriosa allucinazione, sparsi ora come clip sgranate in rete (a breve ne parliamo e ne mostriamo pure qualcuno) che chissà quanto dureranno.

 

L’era perduta della TV

Dovete capire che siamo in pochi a conoscere e ad apprezzare Jerry Springer. Proveniente da una famiglia di ebrei profughi dell’Olocausto, cresciuto nel Queens, come Cindy Lauper e Donald Trump, lo Springer ebbe una carriera di politico per il Partito Democratico USA, arrivando ad essere sindaco di Cincinnati. Non è che c’è da stupirvi: se avete mai visto le videointerviste fatte ai giovani a caso nei centri commerciali da Bernie Sanders sapete qual è il fascino che i membri del partito dell’asino avevano per il mezzo televisivo.

 

Perché, essenzialmente, stiamo parlando di questo oggetto finito in una obsolescenza latente: la televisione. Se non avete mai visto una puntata del Jerry Springer Show, che in realtà si chiamava solo Jerry Springer, è perché si tratta proprio di roba dell’era televisiva, quando non c’era internet e quindi – pazzesco a pensarci – le uniche immagini in movimento che arrivavano dagli USA venivano sotto forma di pellicola (i film), nastri magnetici (VHS) e quel poco che si poteva vedere sui nostri canali, che importavano serie a BZF, non era mai la vera TV statunitense – i talk show venivano prodotti, talvolta scopiazzando oscenamente gli americani, in Italia. 

 

Ecco, c’è questa cosa da dire: forse non avete mai visto un episodio del Jerry Springer, ma la sua cifra è percolata decisamente nella nostra TV, in ispecie quella pomeridiana, fatta per le signore. Se improvvisamente, da qualche parte a fine anni Novanta, sono iniziate a comparire figure sguaiate, urla, scenate, volgarità gratuite e situazioni interpersonali al di fuori della decenza, ebbene, quello è un effetto indiretto di Jerry Springer, perché i network, e gli autori che «pettinavano» (si dice così) i programmi, pendevano sempre dalla labbra catodiche dello Zio Sam. 

 

Vita di Jerry

Il Jerry ci aveva messo un po’ a focalizzarsi. La politica era il suo pane. Aveva lavorato alla campagna presidenziale di Bob Kennedy nel 1968, e dopo l’esperienza in consiglio comunale a Cincinnati prima come consigliere e poi come sindaco. Vale la pena di riportare che nel 1974 si dovette dimettere da consigliere dopo aver ammesso di aver adescato una prostituta, ma nel 1975 venne rieletto con una vittoria a valanga, per poi diventare sindaco nel 1977. Le controversie, è possibile abbia imparato a quel punto, gli portavano bene,

 

La politica, tuttavia, non sempre gli usciva col buco. La sua candidatura alle primarie democratiche per correre come governatore dell’Ohio si arenarono. Riparò lavorando in radio, e poi come giornalista TV per un’affiliata locale della NBC.

 

Negli anni intanto si stava incubando il suo capolavoro, il Jerry Springer Show, che abbiamo detto si chiamava solo Jerry Springer (come se il Maurizio Costanzo Show si fosse chiamato solo Maurizio Costanzo: suona in modo inaffrontabile).

 

Si trattava di un talk show che doveva affrontare temi scabrosi. Per le prime due stagioni si concentrò sulla politica, ma ebbe un indice di gradimento bassissimo.

 

«Il peggior programma televisivo di tutti i tempi»

Jerry quindi ricalibrò il programma. Perché, deve essersi chiesto, di parlare di cose a cui il pubblico – compreso quello in sala – reagisce immediatamente?

 

Eccoti un talk che invita personaggi, supposti reali, che parlano delle loro storie di adulterio, di relazioni familiari marce sino all’indescrivibile (dove l’incesto, bleah, non è più un tabù), usando parolacce e violenza fisica, magari vestiti in modo succinto?

 

Il risultato fu l’archetipo, e al contempo il vertice forse ineguagliato, della TV spazzatura. La puntata pilota andò in onda su NBCUniversal il 30 settembre 1991 – e da lì fu uno schifo ininterrotto, che durò 27 anni, tuttavia è riconosciuto che l’apice fu raggiunto negli anni Novanta. 

 

In momenti sconvolgenti, che sfidavano la credulità dello spettatore, venivano raccontate storie bizzarre e agghiaccianti, presentati personaggi improbabili, spaccate famiglie, umiliate persone e gruppi sociali, toccate profondità di abiezione umana.

 

E poi, soprattutto, botte, tante botte, botte da ogni parte – al punto che lo Steve Wilko, uno dei membri del team della Security – che interveniva di continuo a sedare gli animi che trascendevano in modi che in confronto Sgarbi vs D’Agostino è roba softcore – divenne ad una certa un personaggio talmente famoso da sostituire in alcuni episodi lo stesso Jerry e a farsi un programma tutto suo lo Steve Wiko show.

 

La critica lo definì «il peggior show televisivo di tutti i tempi», e Jerry ne andò fiero, usando il giudizio per annunciare l’apertura di ogni puntata. L’America, tuttavia, segretamente apprezzava: era un guilty pleasure, un vizio privato irresistibile per i telespettatori di quegli anni. 

 

Le scene più brutte che avete mai visto

Il perché lo capite se vi lasciate guidare in questo carosello di clip che Mondo Serie ha preparato per i suoi lettori.

 

Una presenza immancabile era quella dei ragazzi del Ku Klux Klan, che si presentavano bardati dei loro grembiuloni colorati e i celeberrimi cappucci.

 

 

Non di rado scattava, anche immantinente, la rissa con i vari personaggi con cui venivano invitati a «parlare»: neri, ebrei, chiunque, con, talvolta, picchiatori che si levavano dal pubblico per menare i KKK e il loro irresistibile accento Southern.

 

 

Anche loro, salta fuori, hanno i loro problemi familiari

 

 

Il programma era il trionfo visibile dei Redneck, che in TV in effetti non si erano mai visti davvero. Gli esemplari rappresentati erano ragguardevoli, e molto offensivi della categoria 

 

 

Non mancavano pure le risse amoroso- familiari tra Hillbillies, una categoria per comprendere la quale rimandiamo al film Netflix di Ron Howard Elegia americana

 

 

Anche i senzatetto drogati, specie se inguardabili, trovavano rifugio dal Jerry.

 

 

Il caso umano del padre adolescente di quattro figli con tre donne adulte diverse (ma è legale? Non in tutti gli Stati, a quanto ricordiamo dal caso di una famosa dark lady del cinema romano) poteva non esservi?

 

 

Incredibili rivelazioni dal mondo del lesbismo.

 

 

Fidanzate che tradiscono il fidanzato cieco.

 

 

Relazioni pericolose con nani spogliarellisti

 

 

In un momento di grande avanguardia, si presentò anche un personaggio affetto da una parafilia di cui oggidì si è cominciato a parlare: l’apotemnofilia, ossia il desiderio di essere amputati.

 

 

Oltre all’uomo che aveva sposato il suo cavallo, ad un certa comparve anche quello che amava il suo panda.

 

 

Voi pensate che oggi come oggi, scene del genere con i transessuali fischiati dal pubblico siano ancora possibili? Erano gli anni Novanta, bellezze mie, si poteva tutta – mica come in questi orwelliani anni 2020.

 

 

Un altro pattern ripetuto negli anni era quello dell’annuncio in diretta della rivelazione del tipo «non sei tu il padre» (i test del DNA in farmacia erano di là da venire)

 

 

La cosa del transessuale che seduce il bravo ragazzo inconsapevole fu un pattern che si ripeteva negli anni, coinvolgendo tutte le razze. «Surprise, I’am a man!». E il pubblico in deliquio.E giubbotte.

 

 

 

 

Botte, botte a tutti. Botte in famiglia. Botte tra rivali. Botte durante le proposte di matrimonio. 

 

 

Botte tra cugini che si sposano.

 

 

Botte all’interno dei triangoli amorosi.

 

 

Botte nei pentagoni amorosi.

 

 

Botte tra cornute.

 

 

Botte interraziali tra conoscenti.

 

 

Botte fra gemelle omozigote.

 

 

Botte tra afroamericani omosessuali.

 

 

Botte in quello che è uno degli scontri più epici mai concepiti nella storia umana, «prostitute contro papponi»

 

 

Non possiamo, tuttavia, dimenticare gli epici momenti di midget fight, cioè di «botte fra nani», perché i triangoli amorosi violenti vi sono anche lì. Qui bisogna capire che il Jerry fa regredire il telespettatore al medioevo in cui questo tipo di spettacoli erano usi. Il pubblico in studio, invece, esaltato e berciante, regredisce a stadi dell’evoluzione biologica ancora più indietro nel tempo. 

 

 

Poi c’era la variante più organolettica, il food fight: i protagonisti, quasi sempre donne, si tiravano addosso il cibo, conciandosi in modo rivoltante.

 

 

Esistono video compilativi di ogni sorta delle grandi risse al Jerry Springer.

 

 

Una polemica recente ha visto i membri della security (tra i quali, ad un certo punto, figurò anonimamente anche lo storico campione di arti marziali miste Bas Rutten)  ammettere che la violenza in scena era in realtà fasulla. 

 

 

Sarà, tuttavia c’è stato qualche caso davvero sinistro. Una donna, Nancy Campbell-Panitz accusata in un episodio dall’ex marito Ralf Panitz e dalla nuova moglie di stalking, fu trovata morta. L’ospite di Springer fu trovato mentre scappava in Canada: passato in giudizio, gli fu comminato l’ergastolo. Davanti ai microfoni di Larry King lo Springer negò che vi fosse qualsiasi correlazione tra il programma e il brutale omicidio.

 

Tuttavia, restava il fatto che lo show potesse rendere popolari, glamour, le devianze sessuale più oscene ed aggressive.

 

Gli ultimi giorni del re della TV spazzatura

Negli ultimi anni, il mito di Springer si era afflosciato. Tuttavia, vi sono pellicole, viste e meno viste, che cercavano di includere il suo mito per effetti comici.

 

Nel secondo Austin Powers – Austin Powers – la spia che ci provava (1989) – al Jerry Springer Show appare il dottor male che vorrebbe riconciliarsi con suo figlio, ma finisce per fare a botte con chiunque, compresi gli immancabili tizi del Ku Klux Klan.

 

 

È apparso anche nel film Sharknado (2013), quello del tornado fatto di squali affrontato con una motosega da uno dei protagonisti di Beverly Hills 90210 (quello biondo di seconda scelta, non Dylan), dove viene divorato con un inguardabile effetto digitale da pesce che si fingeva morto. 

 

 

A fine anni 2000 aveva fatto, senza troppa gloria, il giurato ad America’s Got Talent, una specie di X-Factor americano. 

 

Aveva riprovato la politica, cercando di correre per il Senato federale nel 2000 e nel 2004, ma l’associazione con lo show più trash della storia era troppo forte, e dovette rinunziare. Nel 2018 decise di riprovare a divenire governatore dell’Ohio, prima di rendersi conto di essere troppo vecchio. 

 

Il suo lascito è stato nella cultura popolare, e non solo Nel 2003 a Londra cominciò ad andare in scena un’opera lirica ispirata al programma, Jerry Springer: The Opera. Nel 1998 era uscito un film in cui il presentatore interpretava se stesso, The Ringmaster.

 

Rimangono pure i giudizi sulla sua persona e sul suo operato. Un libro del 2005 intitolato Le 100 persone che stanno fottendo l’America, definiva Jerry «la più bassa forma di vita della TV», un pioniere nello sfruttamento del disagio dei suoi ospiti e della stupidità della sua audience. 

 

Jerry è morto nella sua casa di Evanston, Illinois, il 27 aprile 2023 all’età di 79 anni. La famiglia ha fatto sapere che gli era stato diagnosticato un cancro al pancreas pochi mesi prima della sua morte.

 

Ma non disperate: lo schifo che ha portato in TV per decenni, è ancora tutto qua. 

 

 

 

Articolo previamente apparso su Mondoserie.it

 

 

 

 

Immagine di Travis Wise via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)

 

 

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No al Jazz. Sì al Dark Jazz

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In un mattino qualsiasi dello scorso anno scoprii l’esistenza della musica Dark Jazz, e mi piacque.

 

Intendiamoci: ritengo di per sé il jazz una musica incomprensibile, a tratti censurabile. Sono pronto già ora a scrivere un disegno di legge per impedire la nerditudine jazzistica qualora espressa in pubblico: avete presente, quei tizi che si mettono a tamburellare sillabando a parole ritmi indefinibili «da-pu-dapudada-puda-da-pu-da-pu», e non capisci se stanno mimando il piano, il sassofono, la chitarra, la batteria, il contrabbasso. A loro interessa solo fare «da-be-du-pu-dapudadeda-pudade-da-pu-da-pu-de», percuotendo qualsiasi superficie a portata, anche e soprattutto in assenza di musica di sottofondo.

 

A costoro non deve essere portato nessun rispetto, a costoro va usato il pugno di ferro di una legge con pene severissime per ogni «da-pu-dadepudada-depudade-dade-pude-da-pu-de-pu-dada» emesso in pubblico, e un pensiero andrebbe fatto anche per un divieto nelle case private.

 

I jazzomani sono un problema sociale che la Repubblica Italiana ha ignorato per troppo tempo. Sappiamo, anzi, che essi dilagavano anche sotto il fascismo, e uno degli untori della jazzomania italica fu il filosofo destroide Giulio Evola (1898-1974), che oggi non vogliam chiamare Julius, e ci chiediamo perché per tutti questi anni lo abbiano fatto gli altri.

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A questo punto un disclaimer, ché non salti fuori qualcuno che accusi di incoerenza: tanti anni fa partecipai, producendo videoproiezioni, ad uno dei grandi festival di Jazz siti in Italia, il cui direttore è l’amico compagno di giovanili scorribande eurasiatiche, in ispecie in Ucraina e Crimea, quando ancora era ucraina (ma le scritte NO NATO già v’erano). Proiettai immagini durante un omaggio a Piero Piccioni in un prestigiosissimo teatro del Nord; l’anno successivo invece lavorai alle proiezioni per un omaggio a Roman Polanski suonato dal polacco Marcin Wasilewski – è fu un concerto estivo stupendo, struggente, emozionante.

 

Ciò detto, basta col jazz. Basta soprattutto con i suoi appassionati e la loro aria di superiorità morale stile lettore di Repubblica in era berlusconiana.

 

Basta con quelli capaci di parlarti per ore di Carlo Parker, Duca Ellington, Miles Davis, Dizzy Gillespy – senza darti nemmeno il tempo di intervenire per protestare che di tutto l’esercito di geni afroamericani a te non te ne frega niente.

 

A costoro vorremmo poter ricordare l’immortale scena di Collateral (2004), dove al tizio saputo che racconta con boria flemmatica un retroscena della storia del Jazz, il brizzolato killer interpretato da Tom Cruise pianta una serie di pallottole in fronte.

 

 

Vabbè, così è un po’ esagerato. Però ebbasta. Eddai. No Jazz. No «da-pu-dabe-dedu-pude-dapudadeda-dapude-da-pu-da-pu-dadeda».

 

Purtuttavia, siamo pronti a riconoscere che va ammessa l’attenuante per chi il jazz lo suona: il musicista jazzo, va riconosciuto, sa suonare, anzi, ha di solito pure studiato, e non poco. Anzi a questo punto osanniamo anche il capolavoro cinematografico Whiplash (2024) per aver raccontato in modo magistrale i dolori che questi artisti devono affrontare.

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È quindi con estrema sorpresa che, quel giorno dello scorso anno, abbiamo ricevuto dall’algoritmo di YouTube (lo stesso che censura i video di Renovatio 21, pure quelli privati) il suggerimento di ascoltare questa misteriosa compilation di Dark Jazz.

 

Potete farlo anche voi. Noi ne siamo rimasti affascinati parecchio.

 

 

Sentite le atmosfere? Sì, sembrano antiche, ti pare di essere in un film noir del primo Novecento, o forse no – i noir hollywoodiani non mettevano il jazz – sei nella percezione del Noir che si aveva negli anni Novanta, come in un film di Davide Lynch, ma più definito, anche se sempre altamente inquietante, ambiguo, agrodolce. Il fantasma di Badalamenti, il compositore non il capo-mafia, aleggia su tutto.

 

O forse, si tratta solo di un riflesso presente, un riflesso di noi? Si tratta degli anni 2020, che guardano agli anni Novanta, che andavano indietro di mezzo secolo?

 

Non lo sappiam, ma ci gusta, e anche molto.

 

Abbiamo così compreso che si tratta di un genere, anche se non ancora catalogato ufficialmente. Altri nomi possono essere usati per la categoria, come «Doom Jazz», «Jazz Noir», persino «Horror Jazz»…

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Per orientarsi, bisogna compulsare i forum, dove altri come me hanno notato l’esistenza del genere, e cercano suggerimenti.

 

Consigliano, ad esempio, il Zombies Never Die Blues dei Bohren & der Club of Gore, un gruppo tedesco della Ruhr fondato nel 1988 che, partito dal Metal e dall’Hardcore, è considerato il capostipite del genere.

 

 

Salta fuori in gruppo che si chiama Free Nelson Mandoomjazz.

 

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Da segnalare assolutamente il Lovecraft Sextet, con la loro musica dedicata all’«orrore cosmico» di cui scriveva il solitario autore di Providence che inventò Chtulhu.

 

 

 

Kilimanjaro Dark Jazz Ensamble, Non Violent Communication, Asunta e Hal Willner sono gli altri grandi nomi citati per il genere. E ancora, i russi Povarovo, i neoeboraceni Tartar Lamb, i tedeschi Radare e Taumel, gli italiani Senketsu No Night Club, Macelleria Mobile di Mezzanotte e Detour Doom Project, i progetti che raccolgono australiani, italiani e messicani come Last Call at Nightowls.

 

Insomma tanta roba da ascoltare, specie quando si sta facendo dell’altro.

 

C’è sempre tempo per ricredersi su una cosa. Tuttavia, sul jazz in generale, resto sulle mie posizioni: subito una legge per proibire il jazzomanismo, ma con un emendamento per salvare il Dark Jazzo.

 

No?

 

Roberto Dal Bosco

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Nella nuova Notre Dame vi saranno molte vetrate «contemporanee»

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È stato appena insediato dal Ministro della Cultura il comitato incaricato di selezionare i progetti delle sei vetrate d’arte contemporanea che orneranno le cappelle laterali della Cattedrale di Parigi. Un «gesto contemporaneo» imposto dal capo dello Stato e sostenuto dall’arcidiocesi.   George Braque amava dire che «il progresso nell’arte non consiste nell’estendere i propri limiti ma nel conoscerli meglio». La saggezza del pittore non è propriamente quella di un capo di Stato, e l’identico restauro di Notre-Dame de Paris non dovrebbe prescindere dal «gesto contemporaneo» promesso da Emmanuel Macron nel dicembre 2023.   È questo da parte dell’inquilino dell’Eliseo il segno di un desiderio di vendetta, un po’ ferito dalla sua incapacità di imporre l’idea di costruire una guglia contemporanea per sostituire quella costruita da Viollet-le-Duc? O l’ansia di passare di lì a pochi anni nell’oblio della Storia senza aver potuto lasciare un segno del suo tempo alla guida del Paese?   In ogni caso, è stato con grande clamore che l’8 marzo 2024 è stato lanciato il progetto volto a progettare le sei vetrate contemporanee che saranno inflitte a Notre-Dame. Il ministro della Cultura, Rachida Dati, ha insediato dal Salon des Maréchaux, un comitato «artistico» composto da venti membri e presieduto dall’ex direttore del Centre Pompidou, Bernard Blistène.   Questo paladino del lavoro applicato all’arte avrà il compito di lanciare un bando, per poi designare la coppia vincitrice (un artista e un laboratorio di vetro), nel novembre 2024. Per dare una panoramica dell’uomo, ha firmato una rubrica su Le Soir de Bruxelles nel 2018, dal titolo «Non c’è niente di peggio del nazionalismo, niente di peggio del ritiro nell’identità».   Infine, il successivo 7 dicembre, il prototipo delle future vetrate verrà presentato ai visitatori che entreranno per la prima volta nella navata della cattedrale restaurata e restituita al culto. Questo giorno vedrà la riapertura della cattedrale al pubblico (il giorno successivo sarà un momento dedicato) e il prototipo delle vetrate colorate dovrebbe essere presentato nella cattedrale.

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Dal 2020, alcuni pensavano che il «gesto contemporaneo» sarebbe stato risparmiato a Notre-Dame: un primo progetto di installazione di vetrate ha suscitato la vigorosa reazione dell’ex ministro della Cultura: «La Francia è firmataria della Carta di Venezia, che ha stabilito dal 1962 l’etica dei restauri e delle creazioni nei monumenti storici e vieta la sostituzione di un elemento esistente con un altro», ha indicato a Le Figaro.   «In ogni caso, le vetrate delle cappelle sono classificate come monumenti storici e parte integrante del monumento. Sembra impossibile sostituirli», ha avvertito Roselyne Bachelot.   Ma l’attuale capo dello Stato, non estraneo alle retromarce ed esperto nell’arte di far convivere gli opposti, non intendeva fermarsi qui. Avrà tuttavia contro di sé l’intera schiera di curatori e storici dell’arte, con forti venti contrari a un progetto che, secondo loro, ignora l’eredità di Viollet-le-Duc.   «Perché sostituire le sue vetrate, se non per disprezzo verso l’artista? Non solo non stiamo sostituendo un’opera esistente, ma il restauro dell’architetto, durato decenni davanti agli occhi dell’Europa, è stato un’opera totale», spiega Maryvonne de Saint Pulgent, saggista ed ex alta funzionaria.   Stessa storia con Alain Finkielkraut che critica su France Culture le creazioni «artistiche» imposte alla cattedrale per «cattivo gusto». Ma il progetto sembra davvero sulla buona strada: «C’è un tempo per il restauro, che dopo i dibattiti, è stato portato avanti in modo identico, e un tempo per la creazione, l’incarnazione della traccia del 21° secolo», avverte al Ministero della Cultura.   Inoltre, l’esecutivo può contare su un forte alleato nella persona dell’arcivescovo di Parigi, che sostiene un «gesto contemporaneo» che, possiamo scommetterci, sarà all’altezza della liturgia contemporanea…   Articolo previamente apparso su FSSPX.news.

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Immagine di Lorenzo3003 via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported 
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Attivisti anti-israeliani vandalizzano il ritratto di Lord Balfour

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Un gruppo filo-palestinese ha deturpato e tagliato un dipinto di Lord Arthur James Balfour, il ministro degli Esteri britannico la cui dichiarazione del 1917 fu determinante nel giustificare il sostegno alla fondazione dello Stato di Israele.

 

Un video pubblicato lo scorso venerdì da Palestine Action mostra un attivista che spruzza il ritratto di Balfour del 1914, realizzato dall’artista ungherese Philip Alexius de Laszlo, appeso al Trinity College di Cambridge, e lo taglia ripetutamente con un oggetto appuntito.

 

L’Azione Palestinese ha affermato che la Dichiarazione Balfour ha segnato l’inizio della «pulizia etnica in Palestina».

 

 

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La dichiarazione Balfour prometteva di costruire «un focolare nazionale per il popolo ebraico in Palestina, dove la maggioranza della popolazione indigena non era ebrea», si legge nella dichiarazione pubblicata sul sito ufficiale del gruppo. «Ha dato via la patria palestinese – una terra che non poteva essere data via».

 

Datata 2 novembre 1917, la dichiarazione Balfour rappresenta una comunicazione ufficiale della politica del governo britannico riguardante la divisione dell’Impero ottomano – e quindi delle terre palestinesi – dopo la Prima Guerra Mondiale. La lettera, redatta da Arthur Balfour, allora ministro degli esteri britannico, e indirizzata a Lord Lionel Walter Rothschild, un importante rappresentante della comunità ebraica inglese e del movimento sionista, esprimeva il sostegno del governo britannico all’istituzione di una «dimora nazionale per il popolo ebraico» in Palestina, all’epoca parte dell’Impero ottomano, garantendo al contempo i diritti civili e religiosi delle altre comunità presenti nella regione. Questa posizione governativa fu deliberata durante una riunione di gabinetto il 31 ottobre 1917.

 

Successivamente, la dichiarazione Balfour fu inclusa nel trattato di Sèvres, che segnò la fine delle ostilità con la Turchia e attribuì la Palestina al Regno Unito (che successivamente avrebbe ottenuto il mandato sulla Palestina). Attualmente, il documento è conservato presso la British Library.

 

Il Regno Unito è stato teatro di frequenti proteste filo-palestinesi e filo-israeliane dalla strage del 7 ottobre dello scorso anno.

 

Il Regno Unito è stato teatro di frequenti proteste filo-palestinesi e filo-israeliane dalla strage del 7 ottobre dello scorso anno.

 

Pochi giorni fa, gli studenti dell’Università di Leeds hanno occupato un edificio del campus per protestare contro i legami dell’università con Israele. I manifestanti hanno chiesto alle autorità universitarie di licenziare il rabbino dell’università, tornato a prestare servizio nell’esercito israeliano dopo il 7 ottobre.

 

Il mese scorso, decine di migliaia di persone avrebbero preso parte a una marcia filo-palestinese nel centro di Londra, chiedendo un cessate il fuoco immediato a Gaza.

 

A gennaio, un gruppo di attivisti filo-palestinesi è stato arrestato con l’accusa di complotto per ostacolare il lavoro della Borsa di Londra, e un altro gruppo di manifestanti ha bloccato brevemente le strade fuori dal Parlamento britannico. A novembre, i sostenitori della Palestina hanno organizzato un sit-in alla stazione di King’s Cross, nel centro di Londra.

 

Come riportato da Renovatio 21, lo scorso novembre attivisti filopalestinesi avevano lanciato sorci vivi dentro un McDonald’s di Birmingham.

 


La tremenda protesta murina potrebbe essere motivata dalla decisione della catena israeliana di fornire pasti gratuiti alle truppe israeliane

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