Pensiero
Il diritto e il suo fondamento. Dall’antica Roma al COVID, da Hegel a Gaza
Il senso logico e deontologico del diritto quale «regolamento normativo dei rapporti sociali» è stato spesso complicato dalla incomprensione della sua origine, ovvero dalla frequente dimenticanza della sua formazione che, al di là di tante variabili, non può non essere ritenuta sempre identica per ogni agglomerato umano costretto dalle contingenze a convivere e a darsi per questo delle regole.
Anche l’eterna diatriba, spesso sterile, sugli elementi distintivi del diritto rispetto ad altre manifestazioni della vita dello spirito, in primis alla morale, ha finito spesso per oscurare questa verità elementare, contribuendo ad alimentare i tanti ultimi paradossi cui è approdato il fenomeno giuridico, legislativo e giudiziario.
La necessità della convivenza implica la necessità di un ordine, quindi richiede che vi sia una autorità capace di porre le regole, e di garantirne il rispetto, condizione indispensabile perché esse rimangano effettive. Ma implica altresì che si sia formata una coscienza comune di come esista già un ordine naturale che va messo in forma secondo quella naturalis ratio ciceroniana che distingue e dovrebbe sempre distinguere l’umano.
Ora, se occorre un potere che imponga le regole, siamo già nel campo della politica come azione di governo della comunità, ovvero le regole sono un prodotto della politica. Ma il potere, e quindi la politica, sono esposti alla possibilità dell’arbitrio e il diritto, da strumento di garanzia della ordinata convivenza sociale, può diventare strumento a sua volta di dominio e di arbitrio, tradendo la propria funzione.
Insomma, si innesca il fatale circolo vizioso per cui il diritto è prodotto della politica, dalla quale deve però difendersi. Secondo l’ineccepibile schema aristotelico, è un prodotto della razionalità umana che si esprime nella politica, ma finisce per potere essere travolto dalla stessa irrazionalità da cui viene travolta l’azione politica quando essa devia da quella funzione di governo che è anch’essa indispensabile per una ordinata vita di relazione.
Insomma, si pone il problema della giustizia delle regole, della loro imposizione e applicazione, ovvero della loro rispondenza alla finalità, sorretta dalla ragione, di realizzare il bene oggettivo. L’episodio di Salomone e delle due donne che rivendicavano la propria maternità sul medesimo bambino riassume in modo esemplare questo schema ideale della retta ragione che riconosce e salva a vantaggio di tutti un valore superiore di verità, per metterla a guardia del bene comune.
E il criterio della giustizia secondo ragione deve guidare il diritto e il potere, altrimenti esposti alla minaccia della prepotenza e della irragionevolezza. Di qui anche la esigenza, sentita fin dai tempi più antichi, di ancorare la legge umana ad un parametro oggettivo che, stando al di sopra di ogni soggettivismo ed egotismo, garantisca la fedeltà della legge alla sua vocazione ordinatrice e pacificatrice, e dunque ad una volontà superiore incontrovertibile.
Di qui il senso del diritto va ricercato in una dimensione metafisica che rifletta esigenze umane superiori. Anche la legge mosaica è stata dettata perché il popolo era di dura cervice, ed è rimasta valida al di là e al di sopra della storia.
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I greci non svilupparono per nulla un sistema giuridico organico quale quello partorito dalla razionalità pratica romana, ma la loro attitudine filosofica colse l’aspetto spirituale che ogni attività normativa poteva scoprire condizionando la direzione dell’operato umano.
Dunque, è sempre una divinità, Temi, madre di Dike a rappresentare lo spirito e la volontà di giustizia (Walter Otto, Gli dei della Grecia, pag. 157), ovvero a dare ordine alle cose attraverso la giustizia.
Infatti, attraverso le sue tre figlie, le Ore, Eunomia, Dike, e Irene – ovvero buon ordine, giustizia e pace – guida l’operato degli uomini. E Dike in particolare, che siede accanto a Zeus, ha il compito di indicare all’uomo il modo di condurre la propria esistenza secondo giustizia (dicaiusine), che vuol dire secondo la stessa armonia con cui si muove il mondo iscritto nel cosmo. Ed è costretta a vagare piangendo e strepitando quando qualcuno dei mortali contravviene a quelle indicazioni, guidato dalla propria insana hybris. In questo senso il concetto oggettivo e soggettivo di giustizia si saldano, e uomo giusto è chi pratica la giustizia secondo i criteri superiori preordinati.
Ulpiano tradurrà lo stesso concetto, con linguaggio pratico, nel suum cuique tribuere, da intendere in senso metaforico ampio, come regola di equilibrio oggettivo e non certo nel senso ristretto contabile della giustizia distributiva.
La giustizia suggerita da Dike è dunque equilibrio di rapporti e di azioni, quella misura che, se rotta dall’hybris, porta l’uomo alla perdizione, ovvero porta alla perdizione le genti governate dall’hybris.
Insomma, il mito richiamava felicemente ai criteri che debbono essere rispettati perché si abbia una vita buona e quindi anche un buon governo degli uomini. E quei criteri sono di origine divina, trascendono le volontà umane. Ma è anche evidente che l’esigenza di fissare questi criteri a priori non si sarebbe manifestata a sua volta, se l’esperienza non avesse mostrato che un ordine normativo implica il potere di attuarlo e il potere è sempre esposto al pericolo dell’arbitrio.
Ovvero al pericolo che le finalità pacificatrici e ordinatrici delle norme vengano tradite o stravolte da chi detiene il potere e lo impiega per scopi che nulla hanno a che fare con esse. Ogni forma di imposizione delle leggi per scopi che non sono quelli del bene della comunità, produce la degenerazione del diritto e la perdita della sua funzione sostanziale.
Di qui la necessità di predeterminare i criteri che debbono guidare un buon esercizio del potere e la sua valutazione in concreto. Di qui la necessità di ancorare la legge a una autorità superiore trascendente l’umano, non esposta ai capricci del tempo e delle passioni tristi, che non può e non deve essere messa in discussione e tanto meno disattesa.
Dunque, al di là della genesi che si può attribuire in generale al fenomeno giuridico e alle diverse disposizioni antropologiche, vi sono delle costanti evidenti, come è appunto il presupposto religioso quale fondamento che garantisce stabilità e coerenza al sistema normativo.
Tutti i concetti fondamentali afferenti al mondo del diritto possono poi essere ricercati nella eredità giuridica di Roma che è stata capace di creare il sistema più compiuto e geniale, generalmente accolto o riconosciuto nel tempo quale archetipo indiscusso ed esemplare.
Possiamo osservare anzitutto che, se dal medievale «directum» si è imposta una terminologia diventata corrente per definire ogni sistema normativo dell’Europa continentale, è lo jus romano originario a riportarci alla sua più profonda prospettiva concettuale.
La radice comune con jussum implica il comando e quindi il potere e l’autorità di imporre l’obbedienza alle regole e garantirne l’osservanza attraverso i necessari mezzi coercitivi, morali e all’occorrenza materiali. Ma ha anche la stessa radice di Juppiter ed è anzitutto una formula religiosa quella che all’inizio ha forza di legge, per lungo tempo appannaggio del Pontifex, il quale interpreta e trasmette al popolo la volontà divina.
Abbiamo visto come la regola porti con sé anche l’esigenza di un contenuto adeguato alla sua funzione, e in questo senso sia buona, cioè giusta. Dallo jus deriva anche la romana justitia arrivata anche nella terminologia fino a noi.
Dunque anche il diritto arcaico romano ebbe un fondamento squisitamente religioso e proprio da quello che sarebbe diventato il più grandioso sistema giuridico mai creato vediamo come il diritto abbia richiesto fin dall’origine un forte e rassicurante ancoraggio in una volontà superiore e trascendente, secondo una connessione che ha accompagnato tutta la storia umana sia pure in forme e misura variabile, e che sono state rimesse alla volontà degli dei le regole della vita sociale, alla quali si è voluta dare stabilità.
Insomma, nella visione in cui Dio vuole il bene degli uomini e la loro ordinata sopravvivenza, la legge divina quale legge naturale che precede la legge umana pone ad essa i criteri indefettibili sui quali deve essere modellata per presentarsi anche come giusta. Il criterio della giustizia ha bisogno di essere formulato al di là e al disopra delle particolarità e delle contingenze storiche e sociopolitiche, dei venti di dottrina, e modellato sulle leggi eterne del buon vivere comune.
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Tuttavia, bisogna anche precisare che un conto è il piano del diritto interno, che regola la vita di una comunità omogenea e autonoma, e, prima ancora, quello della coscienza che guida il comportamento individuale, e un conto quello dei rapporti tra comunità estranee fra loro e tendenzialmente in conflitto.
Qui il campo dell’etica si articola secondo criteri che spesso hanno poco a che fare con quelli della morale individuale e dell’etica collettiva in cui va la prima a riflettersi. Di fatto qui prende corpo quella che impropriamente chiamiamo legge del più forte, perché non rappresenta un qualche principio normativo, quanto un fenomeno oggettivo della realtà effettuale e che, se proprio gli si volesse conferire un contenuto normativo, andrebbe avvicinata alle leggi da cui sono governate le specie animali, leggi che chiamiamo naturali in quanto rispecchiano una realtà empiricamente verificata.
A proposito di Roma, è stato osservato come, al pari del diritto privato, dominato dai principi della buona fede e dell’equità, la vita privata continuò a svolgersi secondo principi etici consolidati, mentre nella vita pubblica dominava già l’homo homini lupus. Segno che la logica e la coerenza interna al sistema, e allo stesso tempo la miracolosa capacità di armonizzare l’ancoraggio ai principi del mos maiorum con la necessità di modellare nuovi istituti alle sempre mutevoli contingenze socioeconomiche, attraverso la creatività delle proprie magistrature, assicurò la sopravvivenza secolare del sistema al di là delle fortissime turbolenze interne ed esterne.
«Religione, Politica e Diritto, configurano tre aspetti della Norma i quali risulteranno a Roma strettamente vincolati tra loro». E questa connessione rispondeva e risponde oggettivamente ad una esigenza profonda la cui dimenticanza può generare mostri, come ha dimostrato e continua a dimostrare la storia. Ma, come vedremo presto, può generare mostri anche quella torsione particolare tra religione e politica che si è verificata ab antiquo nell’ebraismo e in tempi più vicini con il protestantesimo specie calvinista.
D’altra parte, se Dio è anche il legislatore dichiarato, il problema del fondamento della legge è stato posto nei suoi termini teorici. Ma questo non esaurisce di per sé ancora quello dei contenuti, della bontà delle leggi, che si trasferisce sul dio legislatore. Dunque, si pone il problema della teodicea e della sua possibile contraddizione interna. Ed è evidente come si profili ancora l’ombra di un circolo vizioso quando la legge che si fa discendere da Dio contraddica proprio quella funzione ordinatrice e pacificatrice che le era stata attribuita.
Circolo vizioso dal quale è possibile uscire soltanto mettendo a fuoco quale sia la legge fondamentale che sostanzia la volontà divina. Più semplicemente, di fronte ad una molteplicità di teodicee, occorre affrontare la realtà di un diverso spirito che sostanzia l’una o l’altra. E soprattutto la diversità dei canoni ermeneutici a seconda dei campi di applicazione, ovvero delle regole che debbono guidare la vita interna di una società da un lato e quelle da applicare nei rapporti tra le diverse società e culture.
Non per nulla oggi si torna a parlare molto di teologia politica di fronte a fenomeni a volte contraddittori, a volte persino malignamente coerenti afferenti al rapporto tra religione, diritto e politica.
A questo proposito è particolarmente interessante rileggere quello Spirito del Cristianesimo e il suo destino che raccoglie alcuni scritti giovanili di Hegel, pubblicati postumi, e che offre non pochi spunti di riflessione sulle terribili vicende mediorientali.
Occorre subito precisare anzitutto che per «destino» vi si intendono le conseguenze che certi presupposti religiosi determinano nella realtà sociopolitica. Infatti, nella visione ideale offerta dal cristianesimo, letto ovviamente in chiave protestante come Chateubriand lo leggeva in chiave cattolica, poiché il presupposto su cui si fonda e da cui muove è l’amore, le conseguenze che ne derivano razionalmente sono la tendenza verso una pace universale che, se non è quella perpetua della utopia kantiana, guida la vita dei popoli nella direzione del bene comune interno e della convivenza pacifica all’esterno.
Ora, mettendo da parte questo assunto per il momento, è interessante fermare l’attenzione sul paragone che egli propone con l’ebraismo e con la cultura abramitica.
Se da un lato il cristianesimo ha come legge fondamentale quella dell’amore, pur declinato e di fatto interpretato in una grande varietà di accezioni, «il Dio di Abramo disprezza tutto il mondo tranne il popolo eletto unico favorito, con il corollario che questo sceglie con Abramo di vivere in assoluta separatezza ideale dagli altri, mentre la sua liberazione è espressione del favore di Dio e non frutto della propria volontà».
Dunque, secondo questa interpretazione, il destino del popolo ebraico è quello di una profonda scissione anche rispetto alla natura, mentre ogni sua liberazione sarà fonte di inimicizia aggressiva nei confronti degli altri popoli con cui verrà in contatto.
Inutile dire come questa analisi teologico politica si adatti alla tragica realtà che abbiamo ora sotto gli occhi, e possa spiegare scelte che appaiono insensate e incomprensibili anche da un punto di vista dell’utile meramente politico. Ma i fatti di Gaza e il fine di annientamento che guidano i comandi israeliani e non impensieriscono i loro concittadini sembrano inverare la analisi hegeliana della separatezza ancestrale anche dagli altri uomini e dal comune sentire, ma con in più la allucinata determinazione psicotica che fu propria, per ironia della sorte, dei famigerati persecutori degli ebrei nel cuore dell’Europa.
Segno che affermare il fondamento trascendente delle azioni umane è necessario e plausibile soltanto in quanto orienti al bene l’operato degli uomini che hanno il compito di attivare a questo scopo il dono della ragione. Questa è stata anche la lezione di Benedetto XVI a Regensburg, il cui monito era ad ampio spettro e si rivolgeva di certo a tutti quanti cerchino di agire con ingiustizia nel nome di Dio.
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Va anche osservato come le stesse ascendenze religiose di quel protestantesimo che condivide con l’ebraismo l’elezione divina sembrano produrre in molti casi i medesimi effetti insensati e altrettanto devastanti, ben al di là del campo della economia capitalistica in cui il fenomeno è stato rilevato da Weber.
Quella stessa elezione divina che dal calvinismo all’inizio è stata riservata all’individuo, alla fine ha potuto diventare genericamente, specie nella autostima angloamericana, elezione di popolo. Ma soprattutto ha potuto tradursi, in oligarchie dinastiche e di censo sostanzialmente atee, nella ipertrofia di un ego onnipotente e legibus solutus. E dunque capace di tutto.
Di qui la consonanza di sensi e visione del mondo che lega la oligarchia statunitense a Israele. Una oligarchia che cerca nel conflitto procurato e perpetuo la conferma del proprio destino di potere su uomini e cose. Salvo poi incappare negli imprevisti della storia e negli errori di calcolo che distruggono spesso i teoremi e le allucinazioni della volontà di potenza.
Del resto, come è stato osservato, Hegel nel riferirsi all’ebraismo proponeva semplicemente un modello negativo da non seguire, un paradigma dal quale bisognava staccarsi nella certezza che il bene individuale e collettivo può venire soltanto dalla conciliazione tra Dio, uomo e natura, che sola può contribuire ad una vita buona per tutti.
Il problema del rapporto tra Cristianesimo, diritto e politica, non è proponibile in uno spazio limitato. Esso è stato molto articolato anche in ragione di un pensiero teologico in perenne affanno filosofico e dei travagli politici della Chiesa fino alla sua secolarizzazione avviata col Concilio Vaticano II e quasi completata ormai da Bergoglio nel plauso degli ateisti che confondono la religione con la religiosità della ideologia.
Del resto, la connessione stessa tra religione, diritto e politica e i loro condizionamenti reciproci si articola sempre in modi molto diversi, nel tempo e nello spazio.
Basti pensare ad esempio alla capacità singolare dimostrata dal diritto romano di mantenere nel tempo la propria coerenza concettuale in una articolata rete di istituti consolidati e paradigmatici, al di là di ogni turbolenza politica e di ogni convulsione della storia. Forse è stata proprio questa solidità persistente della creazione giuridica romana a far sì che il concetto stesso di diritto sia rimasto definito e incontaminato nella sua sostanza concettuale e ideale e sia vissuto di luce propria almeno fino ai giorni nostri dove, svuotato di ogni contenuto di valore, ma caricato soltanto della funzione coercitiva utile al potere dominante, si riduce a mero e brutale instrumentum regni al quale regno assicura una suggestionata e cieca obbedienza.
Ora infatti abbiamo a che fare con fenomeni normativi contingenti quanto aberranti che del diritto tradiscono il senso e la funzione e condividono abusivamente con esso solo il nome. Norme positive, cioè poste, che traggono la propria cogenza soltanto dalla validità formale e ottengono quindi obbedienza indipendentemente dalla loro intima contraddizione con il senso e la funzione propria del diritto, e con il dettato costituzionale.
Perché la stessa Costituzione, da legge fondamentale scritta, è diventata manu militari, cioè in via politica, un vaporoso insieme di massime estemporanee liberamente interpretabili in senso favorevole al demagogo di turno, come l’oroscopo di un settimanale femminile.
In altri termini, del perverso, e sempre in agguato, circolo vizioso tra politica e diritto sottomesso al suo arbitrio, oggi viviamo ulteriori e spettacolari manifestazioni, in ragione anche di fenomeni inediti. Infatti, oggi, dopo secoli di elaborazione del pensiero giuridico e del pensiero politico, di impennate verso il superamento e l’uscita dal circolo vizioso attraverso l’utopia democratica, ci vediamo precipitati, all’interno come all’esterno, nel punto più basso della degenerazione del diritto pubblico e privato e, nei suoi limiti, internazionale, almeno in proporzione con quelli che ne erano stati ritenuti i progressi.
Per non dire della devastazione dei principi etici che dal diritto debbono essere messi in forma. Il diritto soggettivo, che dovrebbe rappresentare la tutela accordata ad un interesse meritevole per la collettività, diventa la coccarda appuntata sul petto di ogni fenomeno contro ragione e contro natura.
L’arbitrarietà con cui viene tradita la morale cristiana, la funzione sostanziale del diritto e della politica, riproducono le insensatezze, le imposture o le mostruosità etiche che corrispondono perfettamente a quelle estetiche. Queste spesso si presentano con l’etichetta di arte contemporanea, mentre distano dal concetto di arte che ha potuto formarsi su modelli storicamente riconosciuti dallo spirito, dall’intelletto e dalla sensibilità umana fino a quando questi non sono stati prima confusi e poi del tutto ottusi da corrive quanto plateali imposture.
Parimenti il concetto di diritto oggettivo, come quello di diritto soggettivo che dal primo nasce per filiazione quando una pretesa del soggetto, individuale o collettivo, viene riconosciuta meritevole di tutela, è ormai radicalmente contraffatto. Primo perché non ricava la propria validità da un base razionale, ma semplicemente dal potere che lo pone. Valga per tutti l’esempio delle restrizioni imposte con la cosiddetta pandemia non sulla base della conoscenza dei fatti, ma per la sudditanza di fronte a sistemi di potere incontrollati riconosciuti superiori una tantum. Tutto riassunto in un compendio, abbiamo trovato la abolizione della sovranità normativa, la confusione tra i poteri dello Stato. la degenerazione degli assetti istituzionali.
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La riduzione del diritto a mero strumento di potere arbitrario sta soprattutto nella distruzione di ogni principio etico fondamentale per la tenuta e la sopravvivenza di qualunque società umana. La nostra si vota alla autodistruzione perché violenta la natura, normalizzando omosessualità e genderismo e imponendo questa violenza anche ai più indifesi. Eleva a diritto la soppressione dei nascituri e dei superflui ingombranti, o dei fornitori di pezzi di ricambio che servono soltanto se espiantati ai vivi. E altre amenità rese possibili dallo spaccio di parole truffaldine, falsi sentimenti e ragionamenti fasulli.
Le leggi non servono più a governare il caos, ma ad alimentarlo. Prodotto obbligato del deterioramento fatale di un pensiero religioso, giuridico e politico, una volta innescato, il caos sembra oggi divenuto proprio l’obiettivo costante che il potere utilizza per consolidarsi. Perché in mezzo ad esso, nella notte in cui tutte le vacche sono nere è difficile che gli individui riescano ad aggregarsi, a trovare la coerenza di una forza d’urto capace di squarciare il buio della ragione e mettere a nudo la mancanza di senso in cui è gettata la vita individuale e collettiva, sulla quale viene organizzato e amministrato proprio il caos.
In mezzo ad esso il potere infatti può sussistere e mantenersi in piedi, grazie alla cieca e irresponsabile accondiscendenza di alcuni, alla miope rassegnazione di molti, alla impermeabile e colpevole inconsapevolezza dei più.
Infatti, questo caos non turba troppo la ben oleata ignavia di una società in coma, o la turba quel tanto che le è concesso per ritenersi ancora padrona di sé, illudersi della propria esistenza, e non avere quindi motivo per rivendicare la propria autodeterminazione culturale e politica.
Viviamo nella società dei non pensanti, forse in restringimento quantitativo, ma pur sempre capace di dare al potere una certa fiducia in se stesso. Altrimenti l’Occidente avrebbe altre classi dirigenti. Un altro ministro degli esteri, e un altro ministro del merito, un altro apparato di governo in generale, altri soggetti istituzionali.
Saremmo un popolo memore di una storia, di un’etica comunitaria e di una morale individuale, di una eredità di pensiero religioso, giuridico e filosofico di prim’ordine, prima che venisse il tempo, non tanto degli sciacalli, e delle jene, quanto quello dei piccoli uomini insignificanti quanto pericolosi perché servi sciocchi e senza volto, ovvero senza responsabilità.
Patrizia Fermani
Articolo previamente apparso su Ricognizioni.
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Pensiero
«Preghiera» pagana a Zeus ed Apollo recitata durante cerimonia di accensione della torcia olimpica. Quanti sacrifici umani verranno fatti, poi, con l’aborto-doping?
🗣️ “Apollo, God of sun, and the idea of light, send your rays and light the sacred torch for the hospitable city of Paris. And you, Zeus, give peace to all peoples on earth and wreath the winners of the Sacred Race.”#Paris2024 | @Paris2024 pic.twitter.com/FHMEmJ134U
— The Olympic Games (@Olympics) April 16, 2024
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Pensiero
Foreign Fighter USA dal fronte ucraino trovato armato in Piazza San Pietro. Perché?
È davvero forte il titolo che ha dato ieri l’edizione romana de la Repubblica, il giornale che ha dato la notizia: «Super ricercato Usa arrestato armato durante l’udienza del Papa: “Vengo dal fronte di guerra ucraino”».
«Cosa ci faceva un americano armato come un macellaio a Roma?» si chiede il quotidiano degli Agnelli. «Cosa ci faceva uno dei più pericolosi e ricercati criminali dello Stato di New York, nella top twelve dei “most wanted“, armato sino ai denti a Piazza San Pietro e arrivato direttamente dall’Ucraina? Moises Tejada, cinquantaquattrenne statunitense, negli USA è “classificato come estremamente violento”, così è scritto sul sito del New York State Department of Corrections and Community Supervision’s Office of Special investigations».
Viene specificato che nelle avvertenze è posto un monito preciso: «se lo vedete chiamate subito le forze dell’ordine, non cercate di fermare questi soggetti da soli poiché sono particolarmente pericolosi».
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Il fatto, leggiamo, risale a quasi dieci giorni fa. «I nostri poliziotti, ispettorato Vaticano, l’hanno notato (…) nell’Urbe. Non un giorno qualsiasi, poiché piazza San Pietro era affollatissima per l’udienza generale del Papa».
Poi parte la descrizioni delle doti extrasensoriali delle italiche forze dell’ordine: «Gli agenti senza sapere chi fosse, grazie anche al loro intuito, non gli hanno mai levato gli occhi di dosso, nemmeno per un secondo, fino a decidere di fermarlo e, infine, perquisirlo» continua il quotidiano fondato dal «laico» Scalfari, che pure anche lui qualche visita in Vaticano, nei primi giorni del papa preferito dai massoni, se l’era fatti per intervistare proprio l’inquilino di Santa Marta.
Ma torniamo in Piazza San Pietro, con i poliziotti premonitori. Lo hanno fermato, e «l’istinto aveva dato loro ragione. La scoperta delle armi che hanno trovato addosso all’americano gli ha lasciati interdetti: perché andare in giro con tre coltelli, uno con la doppia lama, da venti centimetri ciascuno? Per farne cosa?»
Già, una bella domanda. A cui epperò mica nessuno vuole dare risposta, neanche ci prova. Qualche giornale di destra, a denti stretti, ha provato a parlare di «segnale», ma buttandola là.
Quindi: un criminale americano super-ricercato, violentissimo, che dal fronte ucraino finisce, armato di coltelli, in Vaticano. Non abbiamo idea del perché. Interessante. Assai.
Apprendiamo che l’uomo, tale Moises Tejada «è planato sull’Urbe una decina di giorni fa, così hanno potuto verificare gli investigatori attraverso l’analisi del passaporto, dalla Moldavia dove era da poco arrivato da Kiev».
«In commissariato, in manette, con l’accusa di porto abusivo d’armi e resistenza, gli agenti hanno scoperto che negli USA, precisamente nello stato di New York, è considerato un “most wanted“». Pare che il personaggio si sarebbe reso responsabile di sequestri di agenti immobiliari che rapinava e riempiva di botte. Chiedeva appuntamenti per vedere case di lusso, poi aggrediva violentemente gli immobiliaristi per poi lasciarli seminudi nelle abitazioni.
Strano modus operandi, che forse parla di una tipologia specifica di personalità.
«Insomma, più che un criminale tutto tondo, una persona fuori controllo degna però di essere inserita tra i maggiori ricercati dello Stato» continua Repubblica. «A questo punto investigatori e inquirenti si sono domandati: come mai uno degli uomini più ricercati a New York è riuscito a lasciare il Paese in aereo e dirigersi a Kiev?»
È bello che il giornale degli Elkann guidato da Maurizio Molinari trovi, per una volta, di farsi una domanda vera. Specie considerando i rapporti non idilliaci di ambedue – gli Elkann e Molinari – con la Russia. Perché la Russia c’entra anche qui.
«A febbraio del 2022 ha abbandonato gli USA e si è diretto in Ucraina (come emerge dal suo passaporto) dove ha spiegato ai magistrati di aver combattuto, gli ha perfino mostrato delle foto in mimetica, armato di pistole e fucili». Il nostro è un Foreign Fighter, quindi, e non fa nulla per nasconderlo – c’è da capirlo, del resto, perché abbiamo visto, a dispetto di una legge specifica, l’Italia fischiettare sui Foreign Fighter pro-Kiev, mentre ci ricordiamo di subitanei arresti in aeroporto per quelli sospettati di aver combattuto per conto dei russi.
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Ma torniamo alle domande che Repubblica pone, e cerchiamo di accennare noi una mezza risposta, fatta della solita nuvola di puntini che sarà compito del lettore unire da sé.
In primis, ricordiamo che, per quanto riguarda la facilità con cui si possono spostare dagli USA all’Ucraina certi criminali. Ci viene in mente la vicenda del veterano americano incriminato dal Dipartimento di Giustizia USA per l’omicidio di una coppia in Florida, molto misteriosamente comparso a «lavorare» al fronte in Ucraina come «volontario», nonostante su di lui penda una richiesta di estradizione da parte di Washington. Il personaggio, che in America avrebbe minato la casa della moglie incinta, cercato di ucciderla, e poi ammazzato una coppia di «donatori» che volevano dare danaro alla sua causa, avrebbe aderito nel 2015 ad una milizia di estrema destra e, secondo documenti trapelati dalla divisione penale del Dipartimento di giustizia dell’Ufficio per gli affari internazionali il veterano americano in Ucraina avrebbe «presumibilmente preso come prigionieri non combattenti, li avrebbe picchiati con i pugni, li avrebbe presi a calci, li avrebbe picchiati con un calzino pieno di pietre e li avrebbe tenuti sott’acqua».
In secundis, vediamo come la personalità con tratti di violenza parossistica pure non è rara tra la manovalanza estera mandata in Donbass – anche prima dell’invio delle truppe russe il 24 febbraio 2022. Nel caso sopracitato, secondo il sito Ukr-leaks che raccoglie i documenti trapelati, un testimone – poi arrestato negli USA – avrebbe quindi anche raccontato di come il veterano americano avrebbe picchiato e annegato la ragazza, mentre un altro membro del gruppo, un australiano, le avrebbe somministrato iniezioni di adrenalina in modo che la giovane non perdesse conoscenza. «Tutto questo è stato filmato dalla telecamera» scrive il sito.
Diciamo di più: tali tipi di profili, inclini alla violenza parossistica sino all’essere insensata, ultrasadica, non solo sono comuni nelle guerre sporche degli USA in giro per il mondo, sono necessari.
La creazione delle forze neonaziste che servono il regime di Kiev – cioè lo Stato profondo americano – è stata operata per anni andando a lavorarsi le parti della popolazione che più si sarebbero prestate alla psicologia della violenza indiscriminata: ecco serviti al serbatoio immenso di braccia tatuate e teste rasate che sono le curve degli stadi le teorie di Bandera. È un processo di radicalizzazione, che non deve essere stato differente da quello di ISIS e Al-Qaeda. Lo si vede bene, descritto anche con una certa mesta poesia, nel film Syriana. È un qualcosa che, nemmeno più a denti stretti, cominciano a temere i servizi di sicurezza americani e pure qualche politico goscista francese: i Foreign Fighter di ritorno, radicalizzati in Ucraina in maniera totale, di ritorno a casa, magari pure con qualche arma di quelle «donate» a Kiev.
È il «jihadismo ucronazista» coltivato dall’Occidente per questo conflitto e forse per il prossimo – quello contro la stessa popolazione europea da trascinare nell’anarco-tirannia, come scritto tante volte da Renovatio 21.
Prendi una generazione impoverita (i soldi sono andati tutti agli oligarchi, gli stessi che poi hanno finanziato le milizie ucronaziste), la riempi di ideali che risuonano con il testosterone giovanile, sangue e suolo, la violenza come principale valuta sociale… aggiungi appoggi politici, armi, etc. Quello che ottieni è guerra. Morte e distruzione. Cioè quello che serve ai pupari per creare il cambiamento geopolitico.
È bene ricordare che se diciamo «nazisti», stiamo dicendo davvero «nazisti», oppure anche peggio. Strapagati giornalisti italiani ci hanno detto che i ragazzi con la svastica leggono Kant, la realtà è che i «nazionalisti integralisti» ucraini sono stati capaci di crudeltà che hanno impressionato pure gente di stomaco. È il caso di quel famigerato skinhead americano tatuatissimo, un altro volontario del fronte ucraino che aveva dichiarato che mai aveva visto una violenza del genere.
Girava un video, già prima della guerra, intitolato «gli ebrei si beccano la corda». Il contenuto: una donna incinta e suo marito, presumibilmente di origine giudaica, venivano linciati dai miliziani. Dicevano che si trattava di propaganda russa, non era vero. I nazisti ucraini non esistono. Salta fuori che, anche se i due non sono ebrei, il video è vero: e che i nazisti ucraini non solo esistono, ma sono capaci di gesti così indicibili da far pensare, più che altro, a vere caricature dei nazisti.
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E allora, torniamo alla domanda vera: perché? Perché il supercriminale Foreign Fighter ucraino stava in Piazza San Pietro?
Ah, poi c’è chi si chiede come abbiano fatto a beccarlo: alcuni non sono disposti ad accettare subito la storia dell’intuito da chiaroveggenti dei nostri, pur bravissimi certo, poliziotti zona Vaticano. Qui le ipotesi possibili sono due.
La prima: in Vaticano ci sono telecamere dotate di tecnologia face recognition, ma forse non si può dire, perché in Italia non si capisce se siano esattamente legali, e la Santa Sede non è Italia ma, pensano gli attuali occupanti del Soglio, è meglio non dirlo troppo spesso. Quindi: voi che su Facebook scrivete commenti contro Bergoglio, occhio.
La seconda: qualcuno ha fatto una soffiata, e ha avvertito i nostri che il tizio, ecco la foto segnaletica, era diretto da quelle parti. Qui si aprirebbero altre questioni cui ovviamente non sapremmo rispondere in alcun modo. Se lo ha mandato qualcuno, chi lo ha mandato? A fare cosa? Chi ha spifferato? Con che fine? Era avvertire di un pericolo, o era, più sottilmente, far comprendere a qualcuno, che c’è quel pericolo esiste?
Roba abissale, giuochi di specchi sacri e geopolitici come ai tempi di Ali Agca e le piste che incrociano i lupi grigi (altri giovani radicalizzati contro la Russia…), servizi bulgari, frati belgi legati alla CIA (come suggerì in un’intervista, sornione e diabolico, Andreotti), magari pure la Madonna di Fatima, et pour cause.
Possiamo solo buttare lì qualche altro puntino per il lettore. Sappiamo che il rapporto del papa con l’Ucraina, partito con un bacio alla bandiera della Centuria di Maidan (proprio ad un’udienza del mercoledì), passato per una politica di relazioni sterile, falsa e millantatoria, finito con vari insulti da parte Ucraina, è quello che è.
Lui ce l’ha messa tutta: ha taciuto quando hanno attaccato un suo sacerdote – sì, un prete cattolico, ad Uzhgorod – quando aveva osato pregare per la pace, ha provato a vendere ai giornalisti l’idea che la sua conversazione a Budapest con Ilarione – gerarca modernista e filocattolico del Patriarcato di Mosca finito rimosso, e che peraltro ora, dopo la Fiducia Supplicans, di Roma non ne vuole più sapere nulla – serviva alla pace, aveva mandato avanti Zuppi (idea geniale) a Kiev, aveva accettato che Zelens’kyj si sedesse prima di lui da ospite nell’incontro in Vaticano durante l’Italian tour del comico ucraino finito chez Bruno Vespa. (Qualcuno, in Russia, dice che il vertice tra Francesco e il comico TV divenuto presidente, invece, abbia alle spalle un famoso cardinale inglese…)
Bergoglio si era beccato gli insulti del consigliere di Zelens’kyj Mikhailo Podolyak, che sul Corriere della Sera (dove sennò) attaccò il papa e il cristianesimo tutto. Poi, con la storia dell’appello ai negoziati lanciato dall’argentino alla testata svizzera, ecco le offese anche del ministro degli Esteri già «bambino di Chernobyl» in Irpinia Kuleba, che ha insinuato di antichi rapporti della Santa Sede con il nazismo (il bue che dice all’asino… ecco quella storia lì).
Davvero, il ragazzo biancovestito in sedia a rotelle ce l’aveva messa tutta, o almeno aveva fatto finta, almeno per un po’. Adesso, chissà cosa vogliono dirgli.
Anche perché ad essere arrabbiati con lui mica sono solo quelli della banda di Kiev. Qualche mese fa è partita la rabbia dei rabbini, perché questa equidistanza vaticana con i palestinesi (fra cui, ricordiamo, la Chiesa cattolica ha molti, molti fedeli) non si poteva sentire. Anche lì: il sudamericano si era impegnato, nel 2017 aveva pure visitato la tomba del fondatore del sionismo Teodoro Herzl (ma perché?) a fianco di un soddisfattissimo premier Netanyahu, quello che adesso chiamano macellaio genocida, sconfessando il suo predecessore papa San Pio X che, in modo leggermente diverso, quando Herzl gli chiese l’appoggio per far tornare gli ebrei in Palestina gli promise che la Chiesa si sarebbe opposta con ogni forza al progetto.
Ma un patatrac presso il Sacro Palazzo cuore della cristianità globale farebbe comodo a tanti altri.
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Sappiamo come funziona il pensiero dei padroni del vapore: il programma va mandato avanti per traumi. Le società umane si manipolano shock dopo shock. Presidenti uccisi, presidenti rapiti, bombe nelle piazze, nelle stazioni, aerei dirottati, torri che cascano, guerre, invasioni, pandemie.
Aggiungiamo anche un altro pensiero, sul quale non ci dilungheremo qui. Durante la guerra del Vietnam la CIA organizzò uno sforzo operativo chiamato Phoenix Program, che doveva distruggere fisicamente e moralmente il sistema dei Viet Cong attraverso rapimenti, infiltrazioni, assassinii, terrorismo, torture. Secondo alcuni, il Phoenix Program prevedeva la creazione vera e propria di serial killer. Soldati americani capaci di violenze infinite, psicopatici al punto da essere più considerabili per i nemici come vampiri (con atti di cannibalismo inclusi) che non come nemici, in grado quindi di scatenare timori ancestrali nei vietnamiti comunisti.
C’è chi dice che l’effetto più evidente di questo programma siano stati i continui casi di assassini seriali registrati in USA negli anni Settanta e Ottanta. Moltissimi di questi soggetti, divenuti popolari grazie a stampa, TV e cinema, avevano un passato tra i militari americani, alcuni proprio direttamente in Vietnam. Se ci fate caso, dopo gli anni Novanta – in cui il fenomeno divenne una costante, più che nella cronaca nera, nella cultura popolare – i serial killer sono spariti.
Dove sono finiti gli assassini seriali? Sono scomparsi? O forse, dice qualcuno con malizia, ne hanno «chiuso la fabbrica»? E la fabbrica, magari, si può riaprire? L’hanno riaperta?
Una volta potevi parlare dei patsy, dei capri espiatori usati nei grandi misteri storici, e non prenderti del complottista. Ricordo ancora i tempi in cui credere che Lee Harvey Oswald fosse un matto manipolato (anche lui con trascorsi militari significativi…) piazzato lì per prendersi la colpa del regicidio Kennedy non era una bestemmia, anzi era la norma.
Ora c’è da aver paura anche solo a fare delle ipotesi. Ma non solo per l’etichetta di pazzotico che ti possono affibbiare i benpensanti, i fact-checker, gli algoritmi censori dei social e dei motori di ricerca. C’è da aver paura di averci ragione.
Che cosa sono disposti a fare, questi mostri, per far bruciare ancora di più il mondo?
A quale altro regicidio dobbiamo assistere?
Quale efferata crudeltà li sazierà mai?
Roberto Dal Bosco
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Pensiero
La giovenca rossa dell’anticristo è arrivata a Gerusalemme
ALERT 🚨 – The fanatical Zionists from Temple Mount Org have announced that April 22nd is their day to slaughter the much-vaunted #RedHeifer in Jerusalem to realise their version of the End Times messianic prophecy… https://t.co/HLo9nYbGvi pic.twitter.com/JYfs5dHORg
— Patrick Henningsen (@21WIRE) April 12, 2024
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Also to be precise: the red heifer isn't technically a sacrifice. It is slaughtered and burned on the Mt. of Olives but not on an altar. The ashes are used to make a mixture that is used in the purification process for entering the inner courtyard of the Temple Mount. Practical…
— Kassy Akiva (@KassyDillon) April 4, 2024
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