Pensiero
Il caso delle celebrazioni di Don Milani. Lettera aperta di due intellettuali fiorentini
Renovatio 21 pubblica la lettera aperta scritta da scrittore e giornalista pubblicista Pucci Cipriani e il blogger Pier Luigi Tossani, entrambi fiorentini, in merito alle celebrazioni per il centenario della nascita di Don Lorenzo Milani. La lettera aperta è stata spedita a varie autorità civili e religiose che intendono commemorare il priore della Barbiana. Sul caso di Don Milani, e su quello che può significare oggi, Renovatio 21 aveva pubblicato un saggio piuttosto esteso quattro anni fa. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
Gentilissimi,
non è a cuor leggero, quanto piuttosto gravato da dispiacere e preoccupazione, che vi inviamo la presente missiva.
Ci riferiamo all’imminente centenario della nascita di don Lorenzo Milani, che ricorrerà il 27 maggio prossimo e per il quale è stata organizzata una nutrita serie di manifestazioni, incontri, giornate di ricordo e di studio, che si protrarranno anche nel 2024.
Ne leggiamo sul sito web dell’Istituzione Culturale don Milani, a questo link, dove si dà notizia della costituzione di un Comitato nazionale dedicato, la cui presidenza è stata affidata all’on. Rosy Bindi.
Ci rivolgiamo a Voi, poiché siete stati chiamati a vario titolo alla composizione del Comitato e alla collaborazione con esso.
Da parte nostra, ci presentiamo: Giuseppe (Pucci) Cipriani, scrittore e giornalista pubblicista di Borgo San Lorenzo, direttore della rivista Controrivoluzione, e Pier Luigi Tossani, cittadino e blogger fiorentino.
Vi scriviamo dunque, per porgervi alcune considerazioni sulla figura del priore di Barbiana. Leggiamo nel testo precedentemente linkato, che il sindaco di Vicchio, Filippo Carlà Campa, ha affermato:
«La strada che stiamo seguendo, quella di non interpretare soggettivamente i testi di don Milani ma di leggerli nel loro significato profondo e vero, ha portato coesione e finalità d’intenti. La figura di don Lorenzo è divisiva nel senso che i suoi scritti, il suo messaggio chiamano, spingono a una riflessione, a prendere posizione, ma proprio per questo unisce, indica la direzione. Ci sprona – conclude – a ricercare sempre la verità nei suoi scritti».
È appunto questo che noi intendiamo fare: non tanto interpretare, quanto piuttosto semplicemente leggere direttamente alla fonte gli scritti del priore di Barbiana nel loro significato anche letterale, in quanto manifestazioni puntuali del suo pensiero, per trarne le conseguenze, circa la sostanza della sua lezione.
Oltre a ciò, nel testo di riferimento di questa missiva, diamo la parola ad alcuni testimoni che lo conobbero personalmente, e anche ad altre voci. Tale testo di riferimento è il dossier in undici capitoli che accompagnava la «supplica», che lo scrivente Pier Luigi Tossani – integrando le testimonianze fornitegli dall’altro scrivente Giuseppe Cipriani, senza le quali il dossier non avrebbe potuto essere completato nella sua interezza – volle rivolgere il 14 giugno 2017 a Papa Francesco e a tre Cardinali, nell’imminenza della visita del Pontefice a Barbiana, per metterli in guardia sui contenuti discutibili della lezione di don Milani. Dossier e «supplica» sono tuttora leggibili online, sul blog dello scrivente Pier Luigi Tossani.
La posta in gioco è di estrema importanza, poiché nel tempo il pensiero milaniano è divenuto ormai un paradigma non solo italiano, ma in certo modo anche internazionale, per fare non solo pastorale ecclesiale, ma anche educazione in senso lato, fare scuola e, infine, anche di interpretare il tema del lavoro e la politica.
Procediamo dunque per punti, accennando sinteticamente in questa sede solo ai punti principali, e rimandando, per ogni necessario approfondimento, al testo del dossier.
1. Obbediente?… No, ribelle
Don Milani, lungi dall’essere quel «ribelle obbediente» alla Chiesa, come viene correntemente definito, viveva invece in uno stato di permanente ribellione verso di essa (vedi capp.1, 3, 6, 10 del dossier).
L’ultimo superiore di don Milani, il Card. Ermenegildo Florit, sa valutare correttamente il temperamento del suo prete, nonché la cifra del suo lavoro pastorale, e ha la carità di dirglielo con garbo, ma anche con franchezza e fermezza.
Florit è misericordioso davanti all’aggressività di don Milani, tipica di una personalità problematica. Ne esce quindi un don Milani, secondo Florit, che glielo scrive personalmente, «assolutista», che fa una pastorale ispirata alla «lotta di classe», caratterizzato da uno «zelo fustigatore» che lo fa apparire «dominatore delle coscienze prima ancora che padre».
Don Milani pretende da Florit che il suo lavoro a San Donato a Calenzano e a Barbiana sia «solennemente e pubblicamente onorato», ma è fuori dalla realtà. Il priore non è quindi in grado di recepire la correzione del vescovo. Dal libro di Mario Lancisi “Processo all’obbedienza: la vera storia di don Milani” (Laterza, 2016), si evince che il priore si sfoga, per lettera, con uno dei suoi ragazzi, Francuccio Gesualdi. Al quale il 30 gennaio 1966 scrive che la risposta di Florit consiste in «tre pagine di crudeltà di falsità di ingiurie», e che non gli era mai stata data una parrocchia perché
«…manco di carità pastorale, sono classista, sferzante, credo di prendere la gente con l’aceto, invece ci vuole il miele, ecc. ecc. Ci ho sofferto per qualche ora, poi mi è passata perché lui (il Cardinale Florit, ndr) è un deficiente indemoniato (basti pensare la scelta del momento!) mi accusa ora che sono fuori combattimento di cose che se avesse creduto vere aveva il dovere di dirmi quando ero giovane e potevo correggermi. Pensa che è il primo rimprovero che ricevo dai “superiori” in 19 anni di sacerdozio». (pag. 103)
Per il priore di Barbiana il suo Vescovo è dunque «un deficiente indemoniato», che gli scrive una lettera piena «di crudeltà di falsità di ingiurie». Questo è.
Dopo la valutazione di Florit circa il lavoro di don Milani, rimandiamo al dossier, ancora al capitolo 1, per vedere l’opinione del primo Vescovo di don Milani, il Venerabile Cardinale Arcivescovo Elia Dalla Costa.
Al capitolo 10 riferiamo anche del parere di Angelo Giuseppe Roncalli, che all’epoca è patriarca di Venezia, e sarà poi il pontefice Giovanni XXIII. Nonché accenniamo alla severa critica del celebre testo milaniano «Esperienze pastorali» da parte de La Civiltà Cattolica, stampata con l’assenso del papa, che a quella data è Pio XII.
2. Il progetto educativo milaniano – Lettera «da» una professoressa
L’insieme degli aspetti problematici del priore ha ovviamente influenzato il suo progetto educativo (vedi al cap. 2 del dossier), attribuendo ad esso un carattere ideologico e classista, che ne ha pregiudicato gravemente il livello nella qualità e nei contenuti.
Ciò si è risolto in un danno, paradossalmente proprio nei confronti di quei poveri e di quegli ultimi che egli diceva di aver a cuore e voler aiutare, vale a dire in prima istanza i suoi allievi.
Secondariamente verso tutti coloro, docenti e discenti, che si sono ispirati al suo esempio educativo. Si evince infatti dal dossier, ancora al capitolo 2, che tutta la scuola italiana è stata largamente contaminata in modo negativo dal portato milaniano, che come si sa ha avuto moltissimi estimatori e seguaci.
Svolgiamo questo tema, in prima istanza, con l’ausilio della relazione della prof. Michela Piovesan, che cinquanta anni dopo la famosa Lettera a una professoressa, risponde al priore di Barbiana.
Nel medesimo capitolo, seguono poi altri interventi, a firma della prof. Cesarina Dolfi, di Roberto Berardi e di Maurizio Grassini.
I testi degli interventi sono tratti dalla rivista web fiorentina di cultura Il Covile, diretta da Stefano Borselli, che nella circostanza ringraziamo.
3. «Pacifista», ma non operatore di pace
Il priore si dichiara «pacifista», ma non è operatore di pace. Si veda, ad esempio, quando egli scrive nella Lettera ai cappellani militari toscani:
«…E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto».
Il che ci fa dedurre che il «pacifismo» del priore sia di matrice ideologica, strumentale alla lotta di classe. Egli riesce infatti a promuovere il «combattimento contro i ricchi» perfino quando si esprime sull’obiezione di coscienza, che, in quanto tale, in teoria dovrebbe ripudiare il combattimento. Don Milani, in effetti, dice che «le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente…», però già agli albori del suo ministero, nell’ormai lontano 1950, quando era vice parroco a San Donato a Calenzano egli scriveva nella famosa Lettera a Pipetta:
«Hai ragione, sì, hai ragione, tra te e i ricchi sarai sempre te povero a aver ragione. Anche quando avrai il torto di impugnare le armi ti darò ragione».
Pare dunque che le due posizioni milaniane, quella disarmata e quella armata, vadano fatalmente a confliggere.
4. Cuore di tenebra
Andiamo ora a verificare in questo importante capitolo se la valutazione di Dalla Costa e Florit su don Milani era giusta. È un servizio che rendiamo molto volentieri a questi due grandi della Chiesa fiorentina.
Capire don Milani è dopotutto abbastanza semplice, potendo accedere direttamente al suo pensiero tramite i suoi scritti.
Rileviamo dunque che in alcuni suoi testi il priore di Barbiana si rivela un sostenitore della violenza rivoluzionaria (vedi capp. 3 e 4 del dossier). Egli infatti scrive nella famosa Lettera a Gianni, che porta la data del 30 marzo 1956:
«Ma domani, quando i contadini impugneranno il forcone e sommergeranno nel sangue insieme a tanto male anche grandi valori di bene accumulati dalle famiglie universitarie nelle loro menti e nelle loro specializzazioni, ricordati quel giorno di non fare ingiustizie nella valutazione storica di quegli avvenimenti. Ricordati di non piangere il danno della Chiesa e della scienza, del pensiero o dell’arte per lo scempio di tante teste di pensatori e di scienziati e di poeti e di sacerdoti».
Dunque la sentenza che giustifica l’ecatombe classista è già stata stesa. Poi leggiamo che
«Se quel Giudice quel giorno griderà “Via da me nel fuoco eterno” per ciò che Adolfo ha fatto colla punta del suo forcone, che dirà di quel che il signorino ha fatto colla punta della sua stilografica? E se di due assassini uno ne vorrà assolvere, a quale dei due dovrà riconoscere l’aggravante della provocazione? A quale dei due l’attenuante dell’estrema ignoranza? D’una ignoranza così grave da non esser neanche più uomini. Neanche forse più soggetti d’una qualsiasi responsabilità interiore».
E perché mai il Giudice dovrebbe assolvere uno dei due assassini? In base a quale ratio? Non è dato sapere.
Nella visione milaniana, gli sterminatori di classe hanno comunque diritto all’attenuante specifica dell’«estrema ignoranza», che li esimerebbe dalla responsabilità degli omicidi da loro commessi a danno dei padroni, e che potrebbe anche persino aprir loro la porta del Regno dei Cieli. Il priore parla infatti di «assoluzione» divina per i proletari assassini. Anzi secondo lui essi non sarebbero «neanche più uomini», e quindi, in quanto tali «forse» nemmeno perseguibili a termini di legge.
Francamente quella di don Milani ci pare una disistima eccessiva per la classe contadina, che, specie nel 1956, non crediamo fosse ridotta nello stato di abbrutimento sub-umano da lui evocato. Ai padroni invece il priore assegna «l’aggravante della provocazione», per il solo fatto di essere tali.
Non sfugge dunque ad un occhio oggettivo il nocciolo profondo di violenza rivoluzionaria di stampo giacobino – spiace dirlo ma è bene esser chiari – che evidentemente albergava nel cuore di tenebra del priore di Barbiana.
Il tutto ci pare eloquente. Il tempo futuro è domani, 31 marzo 1956. Il verbo non è il congiuntivo imperfetto, ma l’indicativo. L’eliminazione fisica della controparte, il prospettato massacro degli intellettuali, degli uomini di scienza, dei confratelli sacerdoti e perfino degli innocentissimi poeti, è preconizzato da don Milani come imminente e ineluttabile.
Diremmo che è particolarmente grave il fatto che il priore di Barbiana, invece di scongiurare la violenza rivoluzionaria, abbia evocato l’epilogo della lotta di classe fino alle sue estreme conseguenze, invece di servirsi, da cattolico ancor prima che da prete, dei princìpi di sussidiarietà e di partecipazione autentica dei cittadini alla gestione della cosa pubblica, per risolvere pacificamente i problemi del consesso civile con gli strumenti della Dottrina sociale cattolica.
Di questa alternativa possibile si parla estesamente nel capitolo 7 del dossier.
Il priore si rivela ancora una volta sostenitore dello spargimento del sangue dei nemici del popolo, come si legge nel cap. 4 del dossier quando nella Lettera a Ettore Bernabei egli scrive:
«…Per il bene dei poveri. Perché si facciano strada senza che scorra il sangue. E se anche il sangue dovesse scorrere un’altra volta, perché almeno non scorra invano per loro come è stato finora tutte le volte».
Già agli albori del suo ministero, nell’ormai lontano 1950, quando era ancora vice parroco a San Donato a Calenzano, si è visto che don Milani scriveva, nella famosa Lettera a Pipetta:
«Ora che il ricco t’ha vinto col mio aiuto mi tocca dirti che hai ragione, mi tocca scendere accanto a te a combattere il ricco. Ma non me lo dire per questo, Pipetta, ch’io sono l’unico prete a posto. Tu credi di farmi piacere. E invece strofini sale sulla mia ferita. E se la storia non mi si fosse buttata contro, se il 18… non m’avresti mai veduto scendere là in basso, a combattere i ricchi. Hai ragione, sì, hai ragione, tra te e i ricchi sarai sempre te povero a aver ragione. Anche quando avrai il torto di impugnare le armi ti darò ragione».
Possibile, ci diciamo, che ancora oggi non si colga la valenza incendiaria di queste parole?
Su questo punto segnaliamo altre pericolose implicazioni, nel medesimo capitolo 4.
5. Le pulsioni omosessuali/pedofile, e la questione del padre
In ultimo, don Milani manifesta anche pulsioni omosessuali e pedofile (vedi al cap. 5 del dossier), quando in una lettera all’amico Giorgio Pecorini egli scrive:
«Come facevo a spiegare che amo i miei parrocchiani piú che la Chiesa e il Papa? E che se un rischio corro per l’anima mia non è certo quello di aver poco amato, ma piuttosto di amare troppo (cioè di portarmeli anche a letto!)».
e
«… E chi potrà mai amare i ragazzi fino all’osso senza finire col metterglielo anche in culo se non un maestro che insieme a loro ami anche Dio e tema l’Inferno e desideri il Paradiso?»
Per il doveroso approfondimento della spinosa questione che non può certo essere svolto qui, rimandiamo all’intero capitolo 5 e in particolare all’equilibrata relazione di Armando Ermini.
A questo punto riteniamo opportuno fermarci per non appesantire ulteriormente la nostra missiva e rimandarvi al testo integrale del dossier per gli altri temi pur importanti che vi abbiamo trattato, come da indice. Tutto ciò premesso, leggiamo sul Corriere Fiorentino in data 7 dicembre 2022 a questo link, circa le commemorazioni milaniane, che in proposito vi siete espressi nel modo seguente:
«Per dodici mesi, quindi anche nel 2024, non vogliamo celebrare, una parola cui lui era allergico, ma farlo parlare oggi, farlo parlare in primo luogo ai giovani, ai ventenni, motivo per cui ci sarà anche un sito del centenario e coinvolgeremo le scuole con iniziative, concorsi, premi, borse di studio collettive — spiega Rosy Bindi — il sito oltre a coinvolgere i giovani avrà spazio per tutte le iniziative legate al priore di Barbiana, non solo per quelle che faremo noi, poche, di livello nazionale e mi auguro di qualità».
Ebbene oggi, di cosa vogliamo far parlare don Milani, ai giovani, ma anche a noi stessi?
È forse cambiato qualcosa rispetto al passato, rispetto alle valutazioni che su don Milani avevano dato i suoi diretti superiori dell’epoca, il Venerabile Cardinale Arcivescovo Elia Dalla Costa, e il Cardinale Ermenegildo Florit?
È cambiato qualcosa rispetto alle valutazioni che ciascuno di noi ancora oggi può fare circa la lezione milaniana, attingendo direttamente dalle parole del priore?
Può essere che la débâcle educativa milaniana, l’ammutinamento sistematico ai superiori, l’apologia della violenza rivoluzionaria, della lotta di classe, dello spargimento del sangue dei nemici del popolo, della lotta armata di stampo proto-brigatista e finanche – ma di questo Dalla Costa e Florit non erano a conoscenza – l’orgogliosa rivendicazione di pulsioni omosessuali e pedofile (il tutto è naturalmente documentato nei diversi capitoli del dossier), non siano più censurabili come lo erano una volta?
È una grave responsabilità quella di presentare il priore, non soltanto ai giovani, ma a tutti, come un modello da imitare. L’elementare principio di precauzione lo sconsiglia vivamente.
Dicevamo in apertura della nostra missiva che nel prendere l’iniziativa di rivolgerci a Voi, siamo dispiaciuti e preoccupati. Siamo dispiaciuti perché ci rendiamo ben conto che quanto ci siamo sentiti in dovere di porgerVi è senz’altro assai spiacevole, e possa scandalizzarvi o ferirvi.
Specie coloro fra di voi che sono stati più vicini al priore di Barbiana. Ma se le parole hanno un senso, siamo anche molto preoccupati, perché se non guardiamo la realtà in faccia e non andiamo a dismettere il mito milaniano, la realtà ci travolgerà.
Anzi ha già cominciato a travolgerci, come ben si vede.
Concludendo, ci pare evidente che a questo punto il tema centrale della questione vada ben oltre il pur importante ed esemplare caso specifico di don Lorenzo Milani.
Ci permettiamo di segnalare piuttosto l’urgenza della ricerca della verità, ponendo sulla realtà uno sguardo libero da ideologie. Potremo così anche dare un giudizio chiaro e univoco, a pro di tutti, non sulla persona di don Lorenzo Milani, cosa che ci guardiamo bene dal fare, avendo anzi verso di lui la massima compassione, quanto piuttosto sulle scelte che egli fece e sulle parole inequivocabili che egli volle convintamente pronunciare.
Una volta accantonato il mito ingombrante, potremo pienamente affidare il priore di Barbiana alla Misericordia di Dio e lasciarlo riposare in pace.
Václav Havel, nel Potere dei senza potere, scriveva: «La prima politica è vivere nella verità». Non sarà mai troppo tardi per riconoscere questo elementare dato di fatto.
(…)
Con ossequi, restando a disposizione,
Giuseppe (Pucci) Cipriani
rivista web Controrivoluzione
Pier Luigi Tossani
blog La filosofia della TAV
Renovatio 21 pubblica questa lettera aperta per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.
Immagine pubblico dominio CCO via Wikimedia.
Pensiero
Di tabarri e boomerri. Pochissimi i tabarri
Abbiamo lanciato su queste colonne un mese fa una dura condanna dei cosiddetti Baby Boomer, cioè i nati dal 1946 al 1964, definendoli come «generazione perduta nel suo egoismo». In altri articoli, come quello sulle gemelle suicide Kessler, abbiamo definito sempre più il tiro riguardo la cifra utilitaristico-mortifera di questa fetta della popolazione.
Molti dei problemi che stiamo vivendo, crediamo, derivano da questo gruppo generazionale, cui tutto è stato concesso senza che nulla fosse dato in cambio. I boomer con il loro narcisismo tossico, la loro avarizia, il loro edonismo autistico hanno mandato alla malora il mondo, portandolo sull’orlo del collasso. I boomer come volenterosi carnefici della Necrocultura, come agenti di decadenza, come soldati della fine della Civiltà. Questa è un’analisi che non ci togliamo dalla testa.
Tuttavia, il lettore deve sapere come il direttore di Renovatio 21 abbia visto rimbalzare il concetto del male boomerro ad un evento, forse più prosaico di questi pensieri, cui ha partecipato di recente.
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Il vostro affezionatissimo un paio di mesi fa è andato a dare una mano a degli amici che producono tabarri durante una piccola fiera che si tiene in un castello medievale sperduto nel deserto padano piacentino. Nella piattezza della campagna emiliana (o… lombarda?) si tiene questa rassegna che dovrebbe essere incentrata sulla frutta antica, ma a cui partecipano vari artigiani.
Gli amici facitori di tabarri vi avevano allestito, con sforzo non indifferente, un piccolo banchetto ricchissimo: diecine di capi, il banchetto, lo specchio, il mobile per i cappellacci, manichini, locandine, foto, registratore di cassa e bancomatto. Lo scrivente era lì per aiutare: come presidente della Civiltà del Tabarro mica posso esimermi dall’opera di evangelizzazione, cioè di tabarrizzazione del mondo: convertire le moltitudini del paganesimo giubbotto per portarle verso la luce della verità vestimentaria, del gusto immortale, della storia umana, della Civiltà, del Tabarro.
Sono stati due giorni di fatica impressionante. In piedi per una diecina e più di ore, interazioni con centinaia di persone (non sempre piacevoli: ci arriveremo), una caviglia dolente perché rottasi cadendo a settembre per le scale dell’Università di Scampia (un’altra storia, un’altra volta).
Già dopo qualche ora abbiamo cominciato a percepire che forse gli avventori della fiera non rappresentavano esattamente il nostro target, ma in fondo non era vero – c’era qualcosa di diverso, di più sottile, che ci turbava.
Accanto a noi, c’era, appena separato da una colonna e dai nostri appendi-abiti, il banchetto di un ragazzotto oltre i cinquanta, simpatico e gentile, che vendeva un unico prodotto specifico: copertine di lana. Tali copertine non incontravano, diciamo, il gusto nostro e dei nostri amici: fatte di lana grezza, con fiorelloni e altri motivi non irresistibili…. e poi, l’idea che quelle sembravano coperte, più che da letto, da ginocchia, da divano, cioè da televisione.
Non riuscivo ad immaginarne altro uso: uno che guarda la TV (immagine che dentro di me è quasi divenuta antica, come un bisnonno che si scalda un pentolone d’acqua per lavarsi) e che, nel culmine della narcosi catodica, vuole riscaldarsi le gambe, divenute inutili, proprio come accade agli astronauti in assenza di gravità: la televisione non prevede l’uso degli arti, trasforma i suoi utenti in tronchetti mutilati, quindi è normale che si senta la necessità di riscaldarsi davanti al fuoco freddo del palinsesto televisivo.
Eppure, il ragazzotto aveva lo stand pieno, strapieno. Sempre. Noi no. E quelle copertine, mica le vendeva a poco. La ressa attorno al suo banchetto era totale, continua. «Pare che venda gelati» dice il mio amico, che ha fatto il commerciante dagli anni Sessanta, e usa questa espressione spesso per dire che un negozio è pieno di clienti.
Il lettore avrà capito chi fossero gli infiniti clienti della copertineria. Erano, senza eccezione, tutti boomer. Un’esercito, un’armata, che sgomitava assiepata per comprarsi la calda copertina di lana. «Quanto costa questa»…? Altre domande non mi è parso di sentirne, anche perché probabilmente non era possibile farle. Il boomerro compra un prodotto monodimensionale, e l’unico dato con cui si misura davvero è il prezzo.
Da noi, tra i tabarri più belli del mondo, invece, poche persone. Sicuramente molte, molte meno del nostro vicino copertinista. Tuttavia, nelle interazioni che abbiamo avuto, ha cominciato a svilupparsi un pattern.
Entrava spesso qualche boomer, giubbottino di ordinanza, che in realtà era diretto poco più in là. Se avvicinava al punto al bancone che non era possibile registrarlo come semplice curioso: ti tocca, a quel punto alzarti (se sei riuscito a sederti un minuto), avvicinarti, salutare, ricevere, e fargli la domanda più cordiale che si possa fare: «vuole provare un tabarro?»
Risposta: «assolutamente no. Volevo solo dire che ce lo aveva mio padre». Tale replica è stata ottenuta praticamente identica in forse una dozzina di diversi occasioni – ripetiamo: è un pattern riconoscibile. Dicevano proprio: «assolutamente no». Assolutamente. Detto dalla generazione che l’assoluto lo ha perso per strada, è un bel segno di rifiuto, probabilmente non solo del tabarro.
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Subito dopo averci edotto del tabarro paterno, e averci fatto capire quando si sente diverso dal genitore, il boomer medio, rifiutato di provare il capo (nemmeno per fare qualcosa di particolare, ad una fiera), si dirige – indovinate, indovinate – a comprarsi la copertina lì a fianco. Lì spende, tocca, prova, è il suo prodotto. Con evidenza, ne vede l’utilità esistenziale: si immagina subito con il telo lanoso di fiorelloni variopinti steso sopra le gambette mentre guarda Rete 4.
Vi è tuttavia un ulteriore pattern che dà speranza, e completa l’analisi. L’avventore volontario, entusiasta, che chiede del tabarro, lo tocca, lo prova, si guarda e riguarda allo specchio mentre lo indossa in tutte le sue varianti (aperto, chiuso, intabarrato a destra, intabarrato a sinistra, colletto su, colletto giù), gli vedi che in testa gli macina l’immaginazione: come sarebbe uscire con gli amici con il tabarro? Senti, talvolta, delle domande sussurrate: «ma quanto figo sono, così?».
Il giovane aspirante tabarrista ascolta ammirato il suono dell’intabarrata, l’atto di coprirsi con il tabarro – unico indumento che ha un suo effetto sonoro, romantico e notturno come nient’altro. Il ragazzo, la ragazza rimirano ammirati e riproducono estasiati la sequenza di gesti classici per la vestizione: tabarro preso a rovescio dinanzi a sé, colpo d’anca, il manto che gira dietro le spalle… più fluido e raffinato di un kata di un’arte marziale giapponese.
E quando gli dici che il tabarro è per sempre, perché non solo non passerà di moda, ma potrà essere trasmesso ai propri figli, nipoti, pronipoti – ad una conferenza di Renovatio 21 a Modena sei anni fa uno mi si presentò con un tabarro la cui etichetta diceva 1907! – ai giovani brillano gli occhi, sia che la prole la abbiano o sia che non la abbiano ancora. Quei pochi che ne hanno memoria famigliare – del nonno, bisnonno, o persino più indietro – non ne parlano come un ricordo da cui separarsi: il nonno, il bisnonno, il trisavolo, riconoscono i giovani, avevano una dignità superiore alla nostra, una dimensione esistenziale fatta di sacrificio e semplicità, di compostezza e determinazione cui non è possibile non anelare.
Quando ai ragazzi dici il prezzo – certamente più di un giubbino di Decathlon, epperò assai meno di un giubbotto parafirmato, di un Moncler, di qualsiasi brand tiri per qualche ragione quest’anno – non si scompongono. Li vedi calcolare a mente come fare per permetterselo: aspettare il prossimo stipendio, sfruttare il Natale o il compleanno, rompere il porcellino che da qualche in parte è in casa.
Il ragazzo veniva, provava, e si lanciava con il pensiero: questa cosa se la metteva addosso per uscire, non per chiudersi in casa. Per portare fuori la morosa, per trovarsi con le amiche o per (caso di una serie di signorine che, senza che si conoscessero, sono capitate tutte da noi) per andare a cavallo. Il tabarro come catapulta dell’essere, veicolo per incontrare, nella materia, le persone, il mondo.
Capite da voi cosa invece rappresentino le copertine boomer: la contrazione nel non-essere del tinello televisivo, la chiusura verso la realtà della gente, del consorzio umano, del proprio corpo. La copertina è l’addobbo per l’essere umano che ha abdicato alla sua dignità di creatura vivente e creatrice, che ha appaltato la gestione del cervello a qualcun altro, che ha accettato per decadi la propria mummificazione catodica.
È, in tutta chiarezza, uno scontro metafisico, ontologico, apocalittico: l’espansione contro la contrazione, l’essere contro il non-essere… la vita contro la morte.
Una volta realizzato questo, bisogna andare avanti con la disamina, e considerare i concreti effetti sociopolitici di quanto stiamo notando.
Nonostante il loro lavoro, non tutti i giovani che volevano acquistare un tabarro avevano i danari per farlo. Al contrario, tutti i boomer che sono entrati per rifiutarsi di indossare il tabarro i soldi per il tabarro li avevano, accumulati nell’età dell’oro dell’economia mondiale, quando era possibile, senza essere imprenditori d’alto bordo, farsi una casa, una seconda casa, la macchina e pure mettere via qualche soldo in banca.
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Tutti i boomer che finiscono ricoperti a guardare Barbara D’Urso e Mentana hanno conti in banca che permettono loro di vivere benissimo, e pensioni che moltiplicano tale benessere. Ecco quindi la settimana in crociera, il weekend alle terme, il sole a Sharm el-Sheik, il giretto in Nepal, la vacanzetta all’isola d’Elba, etc. Tutti questi non hanno avuto problemi a cambiare l’auto – di più, non hanno avuto necessità di farlo, ma senza problemi si sono presi l’ultima Toyota, Audi, Hyundai, FIAT, etc.
Il giovane, al contrario, non ha i soldi per niente di tutto questo, e l’auto, o la vacanza, o il tabarro, devono essere calcolati a dovere in un paradigma che è l’opposto di quello della generazione precedente: non più abbondanza, ma carenza, scarsità anche negli ambiti più basilari. Quanti, della generazione dei boomer, hanno avuto problemi a riscaldare la propria casa? Per quanti il costo del gas o della benzina sono stati un problema tale da indurre rinunzie drastiche, come quella di lasciare mezza casa, o una casa intera, al freddo?
È chiaro, quindi, il blocco storico del presente: tutte le risorse sono in mano ad una generazione vecchia, sterile, priva di valori che non siano di consumo continuo e distruttivo. Le generazioni successive, che pure hanno dalla loro la spinta della vita che non ancora sono riusciti a spegnere, hanno niente o poco più – e di fatto pagano per le gozzoviglie degli anziani parassiti. I mezzi economici sono concentrati su una fetta della popolazione votata allo spreco e – in ultima analisi – alla morte e alla sua cultura. A chi manda avanti la società, a chi continua la vita, invece non è lasciato nulla. Non ci è chiaro quanto questa situazione sarà considerata tollerabile, di certo i suoi effetti sono già visibili e devastanti.
Secondariamente, c’è il rilievo psico-sociale: se compri una coperta per il divano e non un mantello per uscire e vivere stai di fatto amalgamando il tuo essere al programma del potere costituito che è, lo abbiamo visto con i nostri occhi col lockdown, chiuderti in casa. In casa sei controllabile in ogni modo possibile, in casa non creerai mai alcun problema, in casa ti puoi spegnere senza sporcare, levarti di torno senza che nemmeno si oda il tuo lamento – il vertice della piramide vede il tuo appartamento come luogo di esistenza pre-tombale a bassa intensità.
Qui, nel loculo domestico, non puoi far altro che ricevere gli ordini che ti arrivano dalla TV (o dai grandi canali internet, che abbiamo visto essere manipolati dagli stessi poteri che producevano la psicopolizia dei palinsesti televisivi). Chi si mette al calduccio per guardare il televisore accetta di farsi lavare il cervello, e quindi divenire servitore dell’agenda mondialista.
Sì, l’esistenza stessa di un fenomeno come quello della pandemia COVID parte proprio dai divani di una generazione stravaccata e satolla che si è fatta indottrinare nel modo più rivoltante, accettando la clausura, la siringa genica obbligatoria, le ore quotidiane di odio verso i no-vax… Di lì avanti, ancora, la stessa gente ha accettato di pagare bollette folli e rischiare una guerra termonucleare globale perché la TV gli ha detto è ripetuto che Putin è cattivo.
La società, la geopolitica mondiale, la storia presente sono impattate da questo blocco umano immenso, e in maniera presente.
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È stata consentita qualsiasi cosa, ai boomer, perfino l’essere gustibus soluti: il loro schifo non è solo metafisico e morale, è pure estetico. Il giubbino in piuma d’oca, il cappottino peloso, sono lì a testimoniarcelo con più forze del nano da giardino.
La rivolta contro il boomer moderno passa, quindi, da dimensioni come quella del tabarro, che ti avvolge spingendo in faccia agli aridi e narcisi il loro essere senza bellezza e senza radice.
Renovatio 21 si offre di dare una mano a coloro che vorranno partecipare a questa riscossa cosmica. Se volete un tabarro, non avete che da comunicarcelo.
Non siete soli. Il network della resistenza è più grande di quello che potete pensare. E contiene, ovvio, pure vari boomer anagrafici non piegati ai diktat entropici del sistema.
Un tabarro alla volta, rovesceremo l’impero delle copertine di lana. Chi scrive già da anni opera in questo senso.
Riscriveremo l’etica del secolo passando per l’estetica, e non poteva che essere così. Dimenticandoci una volta per tutti di quelli che hanno vissuto con indolenza distruttiva, offendendo la meraviglia della Vita e della Civiltà.
Roberto Dal Bosco
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Foto di Silvano Pupella; modificata
Pensiero
Trump e la potenza del tacchino espiatorio
🦃 America’s annual tradition of the Presidential Turkey Pardon is ALMOST HERE!
THROWBACK to some of the most legendary presidential turkeys in POTUS & @FLOTUS history before the big moment this year. 🎬🔥 pic.twitter.com/QT2Oal12ax — The White House (@WhiteHouse) November 24, 2025
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Civiltà
Da Pico all’Intelligenza Artificiale. Noi modernissimi e la nostra «potenza» tecnica
Se Pico della Mirandola fosse vissuto nel nostro secolo felice, non avrebbe avuto di certo le grane che gli procurò la Chiesa del suo tempo.
Avrebbe potuto discutere tranquillamente le sue 900 tesi, tutte più o meno volte a dimostrare la grandezza dello spirito e dell’ingegno umano. Soprattutto avrebbe venduto in ogni filiale Mondadori milioni di copie del proprio best seller sulla superiorità dell’uomo e della sua creatività benefica, ben rappresentata in Sistina dall’ eloquente immagine delle mani di un possente Adamo e del suo creatore, che si sfiorano e dove, in effetti, non si sa bene quale sia quella dell’ essere più potente.
Insomma Pico non avrebbe dovuto darsela a gambe nottetempo da Roma per finire prematuramente i propri giorni nelle terre avite, raggiunto da una febbre malsana di origine sconosciuta, manco gli fosse stato iniettato a tradimento un vaccino anti-COVID. Eppure era stato frainteso, o a Roma si era temuto che potesse essere frainteso dai suoi contemporanei e dai posteri. Che avrebbero potuto interpretare quella sbandierata superiorità dell’uomo come una divinizzazione capace di escludere la sua condizione di creatura.
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Ma oggi proprio così fraintesa, quella affermata superiorità dell’uomo faber serve ad alimentare la accettazione compiaciuta di qualunque gabbia tecnologica in cui ci si consegna per essere tenuti volontariamente in ostaggio. Sullo sfondo, l’ambizione tutta moderna ad essere liberati dalla condizione involontaria di creature, e dall’inconveniente di una fatale finitezza. Non per nulla la prima cosa di cui si incarica la scuola è quella di rassicurare i bambini circa la loro consolante discendenza dalle scimmie.
Ed è con questa superiorità che hanno a che fare le meraviglie abbaglianti della tecnica.
Dopo la navigazione di bolina e la scoperta dell’America, dopo il telaio meccanico e la ghigliottina, l’idea della onnipotenza umana ha trovato conferma definitiva in quella che a suo tempo è apparsa la conquista più ingegnosa della tecnica moderna: la capacità di uccidere il maggior numero di individui nel minor tempo possibile. Gaetano Filangeri annotava infatti già alla fine del Settecento come fosse proprio questo il massimo motivo di compiacimento che emergeva dai discorsi di tutti i politici incontrati in Europa.
Di qui, di meraviglia in meraviglia, si è capito che non solo si possono fare miracoli, prescindendo dalla natura, ma che è possibile un’altra natura, prodotta dall’uomo creatore. E se Dio il settimo giorno riconobbe che quanto aveva creato era anche buono, non si vede perché non lo debba pensare anche l’evoluto tecnico, o il legislatore o il giudice che si scopra signore della vita e della morte.
Sia che crei la pecora Dolly, o inventi il figlio della «madre intenzionale», o renda una coppia di maschi miracolosamente fertile, oppure stabilisca chi e come debba essere soppresso perché inutile o semplicemente desideroso di morire per mano altrui.
O, ancora, applichi a scatola chiusa quel criterio della morte cerebrale che serve a dare qualcuno per morto anche se è vivo. Una trovata perfetta capace di salvare capra e cavoli: perché mentre soddisfa la sacrosanta aspirazione del cliente ad ottenere un pezzo di ricambio per il proprio organo in disuso, appone sull’operazione il sigillo altrettanto sacrosanto della scientificità, che tranquillizza tutti e preserva dalle patrie galere.
Con la tecnica si manipolano le cose ma anche i linguaggi e quindi le coscienze. Si può mettere pubblicamente a tema se sterminare una popolazione inerme etnicamente individuata seppellendola sotto le sue case, costituisca o meno genocidio. Con la logica conseguenza che, se la risposta fosse negativa, la cosa dovrebbe essere considerata politicamente corretta mentre l’eventuale giudizio morale può essere lasciato tranquillamente sui gusti personali.
Tuttavia senza l’approdo ultimo alla cosiddetta «Intelligenza Artificiale», tutte le meraviglie del nostro tempo non avrebbero potuto elevare il moderno creatore tecnologico alla odierna apoteosi, molto vicina a quella con cui i romani presero a divinizzare i loro imperatori, senza andare troppo per il sottile.
Anzi, dopo più di un secolo di riflessione filosofica, di scrupoli, timori, ansie e visioni apocalittiche, di pessimismo sistematico e speranze di redenzione, di fughe in avanti e pentimenti inconsolabili come quello di chi dopo avere donato al mondo la bomba atomica ne aveva verificato meravigliato gli effetti, dopo tanta fatica di pensiero, le acque sembrano tornate improvvisamente tranquille proprio attorno all’oasi felice della cosiddetta «Intelligenza Artificiale».
Ogni dubbio antico e nuovo su dominio della tecnica ed emancipazione umana potere e libertà, civiltà e barbarie, sembra essersi dissolto in un compiacimento che non risparmia pensatori pubblici e privati, di qualunque fascia accademica, e di qualunque canale televisivo. Anche l’antico monito di Prometeo che diceva di avere dato agli uomini «le false speranze» ha perso di significato, di fronte a questo nuovissimo miracolo che entusiasma quanti, quasi inebriati, toccano con mano i vantaggi di questa nuova manna. Mentre le più ovvie distinzioni da fare e la riflessione doverosa sui problemi capitali di fondo che il fenomeno pone, sembrano sparire da ogni orizzonte speculativo.
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Dunque si può tornare a dire «In principio fu la meraviglia» ovvero lo stupore e il timore reverenziale di fronte alla potenze soverchianti della natura che portarono il primo uomo a venerare il sole e la madre terra e a riconoscere una volontà superiore davanti alla quale occorreva prostrasi. Eppure allora iniziò anche qualche non insignificante riflessione sull’essere umano e sul suo destino.
Oggi lo stupore induce al riconoscimento ottimistico di una nuova forza creatrice tutta umana e quindi controllabile e allo affidamento alle sorti progressive che comunque si ritengono assicurate.
Incanta il miracolo nuovo che eliminando la fatica di fare e pensare induce compiacimento e fiducia. Il discorso attorno a questo miracolo non ha alcuna pretesa filosofica perché assorbito dalla meraviglia si blocca sulla categoria dell’utile. La prepotenza della funzione utilitaristica assorbe la riflessione critica. Non ci si preoccupa perché la tecnica «non pensa» come vedeva Heidegger alludendo alla indifferenza dei suoi creatori circa la qualità delle conseguenze. La constatazione trionfalistica dell’utile fornito in sovrabbondanza dalla tecnica basta a fugare ogni scrupolo, ogni dubbio, ogni timore, ogni preoccupazione sui risvolti esistenziali non più e non solo derivanti dalla volontà di dominio delle centrali di potere che la governano.
Viene eluso in modo sorprendente il nodo centrale del fatale immiserimento delle capacità critiche logiche e speculative, in particolare di quelle del tutto indifese, perché non ancora formate, dei più giovani, esposti ad un progressivo e forse irrecuperabile deterioramento intellettuale. Eppure questa avrebbe dovuto essere la preoccupazione principale sentita da una civiltà evoluta.
Come accadde in tempi lontanissimi all’avvento della scrittura, quando ci si chiese se essa avrebbe mortificato le capacità mnemoniche di popolazioni che avevano fondato la propria cultura sulla tradizione orale.
Noi ci compiaciamo dell’avvento della scrittura, che ci ha permesso di tesaurizzare quanto del pensiero umano altrimenti sarebbe andato perduto. Ma ciò non toglie che quella coscienza arcaica avesse chiaro il senso dei propri talenti e avesse la preoccupazione della possibile perdita di una capacità straordinaria acquisita nel tempo, dello straordinario patrimonio accumulato grazie ad essa e in virtù della quale quel patrimonio avrebbe potuto essere trasmesso, pur con altri mezzi.
la mancanza di questa preoccupazione prova una inconsapevoleza e un arretramento culturale senza precedenti, ed è lecito chiedersi se tutto questo non sia già il frutto avvelenato proprio delle acquisizioni tecnologiche già incorporate nel recente passato.
La riflessione dell’uomo sulle proprie possibilità ha accompagnato la «consapevolezza della propria ignoranza e le domande fondamentali sull’origine dell’universo e sul significato dell’essere». Ma presto, il pensiero greco aveva messo in guardia l’homo faber dalla tracotante volontà di potenza di fronte alla natura e alle sue leggi, e aveva eletto a somma virtù la misura. Esortava a quella conoscenza del limite oltre il quale c’è l’ignoto. Hic sunt leones! Come avrebbero scritto gli antichi cartografi.
Del resto la saggezza antica suggeriva anche di tenere ben distinto il mondo dei mortali da quello incorruttibile degli dei che ai primi rimaneva precluso. La stessa divinizzazione degli imperatori romani era una messinscena politico demagogica sulla quale si poteva anche imbastire una satira feroce.
Il valore dell’uomo si misurava sulle imprese di quelli che erano capaci di lasciare il segno in una storia che inghiottiva tutti gli altri, senza residui.
Poi per gli umanisti in generale, a destare meraviglia fu l’uomo in se’, ovvero l’essere superiore capace di dotarsi di pensiero filosofico e speculativo, e di un bagaglio culturale elevato, in cui vedere riflessa la propria superiorità. Pico scrive il manifesto di questo riconoscimento intitolandolo Oratio Hominis dignitate. La grandezza dell’uomo non si esprime in opere dell’ingegno ma nella capacità di rigenerarsi come essere superiore. Attraverso la ragione può diventare animale celeste, grazie all’intelletto, angelo e figlio di Dio. È la potenza del pensiero a farne il signore dell’universo accanto all’Altissimo. Del quale però rimane creatura. Precisazione indispensabile per Pico, che doveva salvarsi l’anima, se non la vita. Gli artisti cominciavano a firmare le proprie opere ma l’arte era ancora la scintilla divina che essi riconoscevano nel proprio creare.
Col tempo, la vertiginosa progressione tecnica fino alla impennata tecnologica contemporanea ha invece condotto l’uomo contemporaneo, ad un senso di sé che si declina come volontà di potenza espressa nelle opere dell’ingegno di cui egli è creatore e fruitore.
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Tuttavia, se la tecnica serve per uccidere il maggior numero di uomini nel minor tempo possibile, si capisce come da nuova meraviglia e nuova natura, possa farsi problema. Si è presa coscienza vera delle sue applicazioni e implicazioni economiche, politiche, e antropologiche in senso ampio, della mercificazione umana di cui diventa portatrice. Ma anche della necessità di risalire alla matrice prima di questo processo, ovvero alla ragione, la dote distintiva dell’uomo che da guida luminosa può degenerare in mezzo di autodistruzione.
Giovanbattista Vico aveva visto nelle sue degenerazioni il germe di una seconda barbarie. Quella stessa ragione che ha scoperto i mezzi per vincere l’ostilità della natura, procurare condizioni più favorevoli di vita, e controllare la paura dell’ignoto, ha sviluppato la tecnica, soprattutto nella modernità occidentale, secondo una progressione geometrica. Ma questa stessa ragione umana da fattore di liberazione si rovescia in strumento di dominio, proprio attraverso la tecnica.
Tale rovesciamento, come è noto, è stato al centro della Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno che lo hanno fissato genialmente nell’incipit memorabile: «L’illuminismo ha sempre perseguito il fine di togliere all’uomo la paura dell’ignoto, ma la terra interamente illuminata, splende all’insegna di trionfale sventura». Dove per illuminismo si allude appunto all’impiego della ragione calcolante, e al suo sforzo primigenio per vincere lo smarrimento e la sottomissione indotte dalle forze della natura. Ma il mondo creato attraverso il processo di razionalizzazione diventa a sua volta naturale e quindi domina i rapporti umani, ne produce la reificazione, e a sua volta risulta ingovernabile. Dunque la ragione è creatrice degli strumenti di dominio sotto la maschera della liberazione.
Questi autori hanno visto da vicino, anche per esperienza personale, come l’avanzata incessante del progresso tecnico possa diventare incessante regressione verso quella seconda barbarie preconizzata da Vico tre secoli prima. Hanno visto la barbarie ideologica e pratica prodotta dai sistemi totalitari. E poi, una volta emigrati negli Stati Uniti, lo imbarbarimento di una società che dal di fuori era ritenuta politicamente più evoluta. Avevano constatato come l’umanità del XX secolo avesse potuto regredire a «livelli antropologici primitivi che convivevano con stadi più evoluti del progresso».
E infine, come in questo orizzonte regressivo i capi avessero «l’aspetto di parrucchieri, attori di provincia, giornalisti da strapazzo», «al vuoto di un capo, corrispondesse una massa vuota, e alla coercizione quella adesione generalizzata che rende la prima quasi irreversibile». Inutile dire che di questi fenomeni abbiamo ora sotto gli occhi la forma più compiuta.
Con la modernità la ragione che per Pico avvicinava l’uomo a Dio, è diventata irrimediabilmente strumentale e soggettiva. Non si mette in discussione la qualità dei fini ma si adotta in ogni campo e senza riserve, fraintendendone il senso, la lezione di Machiavelli. Non per nulla, nella versione Reader’s Digest, questo rimane l’autore di riferimento, dei teorici dell’espansionismo imperiale e americano fino ai giorni nostri.
Ma se con la ragione strumentale si impone la logica dei rapporti di forza, questa, portata alle estreme conseguenze,, fa cadere anche il limite e il discrimine tra bene e male, secondo la filosofia di De Sade, che sembra farsi largo in una società ormai nichilista. Così negli ospedali londinesi si possono sopprimere impunemente i neonati troppo costosi per il sistema sanitario, a dispetto dei genitori. Si possono destabilizzare i governi a dispetto dei popoli, si possono roversciare i canoni etici, estetici, religiosi e logico razionali.
Dunque, quella diagnosi pessimistica, dovrebbe tornare quanto mai attuale oggi che l’approdo alla cosiddetta intelligenza artificiale si è compiuto, ed essa è già diabolicamnete applicata all’insaputa delle vittime, o trionfalmente accolta dai suoi ammirati fruitori. Torna attuale per avere messo a tema la torsione della ragione liberatrice in strumento di dominio anche se non era ancora possibile intravedere il rovesciamento ulteriore, l’Ultima Thule della autoschiavizzazione che avviene con la sottomissione spontanea e felice alla sovraestensione tecnologica.
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Invece sembra che si sia dimenticata, per incanto, tutta la riflessione intorno alla tecnica , che ha affaticato il pensiero di un intero secolo. Ora che le metamorfosi di una intera Civiltà, diventate presto di dimensioni planetarie, mostrano più che mai la necessità di riprendere il tema filosofico per eccellenza, sulla essenza e sul destino dell’uomo.
Ed è con questo tema che noi abbiamo a che fare più che mai. Infatti non si tratta più o non solo di prendere coscienza della esistenza di centri di potere che hanno in mano le redini degli strumenti con cui siamo dominati. Perché questa, bene o male, è diventata coscienza abbastanza diffusa almeno in quella parte di dominati che hanno la capacità di riflettere sulla propria condizione di sudditanza.
Tutti più o meno si sono accorti della manipolazione del consenso e della potenza della pubblicità e della forza della propaganda. Nonché della dipendenza dalla tecnologia e delle sue controindicazioni. Anche se ogni diffidenza e ogni riconoscimento di dipendenza viene poi spesso temperato dalla convinzione che si possa comunque controllare lo strumento.
Il salto di qualità l’ha prodotto la meraviglia. Questa volta non turbata dal timore della propria impotenza. L’utile immediato è metafisico, e il miracolo salvifico non megtte in discussione la bontà della volontà che lo genera. Il miracolo crea fedeli e discepoli confortati. Gli agnostici tutt’al più vogliono toccare con mano, anche Tommaso diventa il più convinto dei credenti di fronte alla evidenza dei risultati. Ogni aspetto problematico della faccenda viene messo da parte perché è comunque meglio una gallina oggi che un uovo domani.
Sotto a tanta meravigliosa e meravigliata fiducia c’è la rinnovata fede nella divinità del genio umano che comunque appare lavorare per il bene dei mortali. Un bene tangibile, pronto e tutto svelato, nonché senz’altro proficuo per le nuove generazioni sollevate dalla fatica inutile di imparare a leggere, scrivere e fare di conto, e soprattutto da quella pericolosa attitudine a pensare, ricordare, esplorare e guardare al di là del proprio particulare.
Ancora una volta è dunque la ragione calcolante che dopo avere rinchiuso gli uomini nella gabbia dell’utile materialmente ponderabile tenuta dal potere, fa sì che essi vi si rinchiudano con rinnovato entusiaimo e di propria iniziativa. Insomma non si tratta più di un ingranaggio di dominio e manipolazione subito e del quale non tutti e non sempre hanno acquistato chiara consapevolezza. Si tratta della rinuncia volontaria alla propria capacità di autonomia e di sviluppo delle facoltà speculative destinate ad immiserirsi e isterilirsi per abbandono progressivo, e infine per non uso.
Di certo la difficoltà di uscire dall’ingranaggio, di fronte alla prepotenza dell’ordigno e alla accondiscendenza crescente degli stessi entusiasti utilizzatori diventa oggi drammatica quanto sottovalutata. Gli stessi Horkheimer e Adorno avevano esitato a proporre una soluzione per il problema, più oggettivamnete contenuto, che avevano affrontato allora con tanta acribia. Non bisogna però sottovalutare il suggerimento che essi formularono alla fine, ipotizzando la possibilità di riportare proprio la ragione calcolante alla autoriflessione sul proprio invasivo precipitato tecnologico.
Una soluzione utopica , si è detto, perché la ragione rinnegando se stessa dovrebbe paradossalmente rinunciare a tutto quello che ha anche fornito all’uomo come mezzi di sopravvivenza e di emancipazione dai condizionamenti della natura. Tuttavia non è insensato pensare che la autoriflessione possa condurre a stabilire il confine invalicabile oltre il quale il costo umano capovolge il senso stesso del calcolo razionale togliendo ad esso ogni giustificazione logica. Si tratta di vedere con disincanto tutta la realtà dei nuovi giocattoli antropofagi. Perché di questo si tratta: quella innescata dalle nuove frontiere della tecnica altro non è che autodistruzione morale e materiale, consegna senza scampo all’arbitrio incontrollabile di una potenza che fugge anche al controllo di chi la mette in moto.
Se «dialettica dell’illuminismo» significava nella riflessione dei suoi autori, rovesciamento della promessa di emancipazione della ragione in dominio e schiavizzazione sotto mentite spoglie, di questo rovesciamento la cosiddetta Intelligenza Artificiale è il compimento funesto e pericolosissimo perché capace non soltanto di neutralizzare attualmente ogni difesa, ma anche di isterilire nel tempo ogni potenzialità critica e speculativa. E appare del tutto irrisorio obiettare che è possibile controllare il processo perchè si è consapevoli che in ogni caso il meccanismo è un prodotto umano. Come se la valanga provocata dalla dinamite fosse per ciò stesso anche arrestabile.
Converrebbe piuttosto ricordare il monito di Benedetto XVI sulla necessità di allargare un concetto di ragione oramai ridotta a ragione calcolante per riconoscere di nuovo ad essa la funzione di guidare gli uomini verso l’ orizzonte spiritualmente ed eticamente più ampio ed elevato della cura e della vita buona, della consapevolezza e della corrispondenza tra il pensiero e il bene che va oltre l’immediatamente utile.
Per questo forse non basta lo sforzo di autoriflessione suggerito nella Dialettica dell’illuminismo, occorre ritrovare quel senso della trascendenza che allarga la mente oltre il vicolo cieco e le secche di un pensiero senza la luce di fini più grandi dell’utile contabile ed immediato.
Quell’uomo non a caso tanto presto dimenticato, perchè incompatibile con la miseria dei tempi, aveva compreso perfettamente, dall’alto di una grande intelligenza e di una solida fede, che sul ciglio del baratro occorre tornare indietro e buttare al macero «le false speranze».
Patrizia Fermani
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