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Cina

I governi dell’Asia centrale impiegano miliziani uiguri contro i talebani

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di Asianews

 

 

Paesi come Tagikistan e Turkmenistan sono minacciati dall’avanzata degli estremisti afghani. Il sostegno della Russia, che tratta anche con gli “studenti di Dio”. La Turchia entra in gioco assoldando miliziani ex Isis.

 

 

 

Diversi Paesi dell’Asia Centrale sono pronti a usare gruppi mercenari per proteggere i propri confini minacciati dal conflitto in Afghanistan tra esercito governativo e talebani

Diversi Paesi dell’Asia Centrale sono pronti a usare gruppi mercenari per proteggere i propri confini minacciati dal conflitto in Afghanistan tra esercito governativo e talebani

 

Lo ha riportato il 10 luglio l’autorevole giornale russo Nezavisimaja Gazeta, secondo cui la maggior parte di miliziani arruolati dai governi della regione sono profughi di origine uigura provenienti dalla Cina.

 

A lanciare gli uiguri contro i talebani sarebbero il Tagikistan e altre nazioni appartenenti alla Comunità degli Stati indipendenti (CSI), nata dal crollo dell’Urss negli anni ’90. Come parte degli accordi CSI, in territorio tagiko è attiva la base militare 201 della Federazione Russa, ma il Cremlino si limita per ora a osservare la situazione.

 

Dalla base 201 i militari russi hanno avviato però varie manovre preventive con le truppe tagike: le operazioni si sono svolte nei poligoni montani di Lokhur e Sambuli. A guidare le attività sono gli spetsnaz russi (forze speciali) del Distretto militare centrale, che cura anche la preparazione dei militari uzbeki. Si prevede a breve un dislocamento di queste forze miste proprio sulle frontiere con l’Afghanistan.

La maggior parte di miliziani arruolati dai governi della regione sono profughi di origine uigura provenienti dalla Cina

 

L’Uzbekistan è il Paese più tiepido nella lotta ai talebani, con i quali aveva stretto accordi ai tempi dello storico presidente Islam Karimov. Anche il suo successore Šavkat Mirziyoyev non è contrario ad assumere modelli sociali più vicini a quelli dei talebani.

 

Con la recente legge sulla libertà religiosa, Mirziyoyev ha permesso ai musulmani uzbeki di professare forme più aperte di radicalismo islamico, compresa la possibilità d’indossare l’hijab nei luoghi pubblici. Anche l’Uzbekistan, comunque, sta accogliendo vari soldati afghani in fuga dalle milizie talebane.

 

La situazione è più incerta in Turkmenistan, il cui confine con l’Afghanistan è in mano ai talebani. Il presidente Gurbangul Berdymukhamedov ha deciso di rafforzare la presenza militare alla frontiera, anche assoldando milizie private; esse sono schierate pure al confine con l’Iran. Molti di questi gruppi armati sono formati proprio da profughi uiguri.

 

Come parte degli accordi CSI, in territorio tagiko è attiva la base militare 201 della Federazione Russa, ma il Cremlino si limita per ora a osservare la situazione

I piani comuni di difesa contro i talebani sono in discussione anche da parte dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO). Il suo direttore Anatolij Sidorov è ormai in pianta stabile a Dušanbe per seguire il monitoraggio della frontiera afghano-tagika e l’elaborazione di piani di risposta comuni.

 

Per ora, l’unica misura in atto sembra anche qui l’utilizzo delle milizie uigure.

 

La Russia sta cercando anche di trattare in modo diretto con i talebani. Una delegazione dei fondamentalisti islamici è stata accolta a Mosca, nonostante si tratti di una «organizzazione estremista» bandita nella Federazione.

La Russia sta cercando anche di trattare in modo diretto con i talebani. Una delegazione dei fondamentalisti islamici è stata accolta a Mosca, nonostante si tratti di una «organizzazione estremista» bandita nella Federazione

 

La trattativa ha suscitato diverse polemiche: molti oppositori ora pretendono di escludere il ministro degli Esteri Sergej Lavrov dalle liste elettorali, in cui sarebbe capolista del partito Russia Unita, la formazione del presidente Vladimir Putin.

 

Il «contatto con gli estremisti» è la motivazione usata anche per escludere dalle elezioni tutti i navalnisti.

 

Anche la Turchia starebbe preparando piani di intromissione in Afghanistan. Secondo vari mezzi curdi d’informazione, Ankara vorrebbe ingaggiare le milizie mercenarie della «Armata nazionale siriana», a cui aderiscono vari esponenti dell’ex ISIS.

 

Anche la Turchia starebbe preparando piani di intromissione in Afghanistan. Secondo vari mezzi curdi d’informazione, Ankara vorrebbe ingaggiare le milizie mercenarie della «Armata nazionale siriana», a cui aderiscono vari esponenti dell’ex ISIS.

I mercenari, uiguri o altri, sarebbero quindi la chiave per la gestione di un conflitto molto complesso, che travalica i confini dell’Afghanistan e interessa tutta la regione dell’Asia centrale.

 

 

 

 

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Condanna finita, ma nessuna notizia della blogger che raccontò la pandemia a Wuhan

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Cristiana in prima linea per i diritti umani a Shanghai, oggi quarantenne, Zhang Zhan avrebbe dovuto essere liberata oggi scontati i quattro anni di reclusione, ma alla famiglia è stato imposto il silenzio e non si hanno notizie certe su di lei. Gli attivisti che seguono il suo caso temono che la sua detenzione stia proseguendo sotto altre forme, come già accaduto in altri casi.

 

Trascorsi i quattro anni di carcere a cui era stata condannata con la classica accusa di «provocare litigi e creare problemi», oggi doveva essere il giorno della liberazione di Zhang Zhan, la blogger cristiana di Shanghai che nel febbraio 2020 si era recata a Wuhan e dalla città epicentro della pandemia da COVID-19 come «cittadina giornalista» per tre mesi aveva provato a raccontare quanto stava succedendo.

 

A fine giornata, però, dal carcere femminile di Shanghai dove ha scontato la sua detenzione non è ancora filtrata alcuna notizia. E la preoccupazione degli attivisti per i diritti umani è che la sua privazione della libertà stia semplicemente continuando sotto un’altra forma.

 

Quarant’anni, laureata alla Southwestern University di Chengdu, Zhang Zhan era un avvocato a cui a Shanghai le autorità locali avevano già sospeso la licenza a causa delle sue battaglie per i diritti umani. Era già stata arrestata una prima volta nel settembre 2019 per aver marciato con un ombrello su Nanjing Road a Shanghai, a sostegno delle proteste di Hong Kong.

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Alle prime notizie della pandemia si era quindi recata a Wuhan per documentare quanto stava succedendo, pubblicando un centinaio di video in tre mesi e rispondendo anche a domande di media internazionali. Arrestata nel maggio 2020 era diventata la prima blogger a essere condannata per le notizie diffuse sulla pandemia.

 

In una nota diffusa questa sera alle ore 19,30 di Pechino la campagna Free Zhang Zhan – che dalla Gran Bretagna ha tenuto accesi i riflettori sul suo caso – ha confermato che non è arrivata nessuna conferma sul fatto che la donna abbia effettivamente lasciato il carcere e sia tornata a casa.

 

«Sappiamo che la famiglia di Zhang Zhan è stata sottoposta a enormi pressioni e ha ricevuto un severo avvertimento a non rilasciare interviste ai media» si legge in una nota diffusa stasera. «Anche le telefonate degli amici sono rimaste senza risposta. Almeno un attivista di Shanghai nei giorni scorsi è stato convocato dalla polizia per aver espresso l’intenzione di andare a prendere Zhang Zhan all’uscita della prigione insieme alla madre. Un’attivista dell’Henan è stata intercettata in una stazione ferroviaria mentre cercava di recarsi a Shanghai; voleva salutare Zhang Zhan o almeno mostrarle solidarietà fuori dal carcere femminile, ma le è stato impedito di comprare il biglietto ferroviario».

 

La campagna Free Zhang Zhan parla di «segnali estremamente preoccupanti». «Se Zhang Zhan si troverà nella stessa situazione di Chen Jianfang (un’altra attivista che nell’ottobre 2023, quando è stata rilasciata dal carcere, è stata posta agli arresti domiciliari ndr), avrà poche possibilità di ricevere le cure mediche urgenti di cui ha bisogno per riprendersi. È assolutamente inaccettabile che il governo cinese sottoponga molti difensori dei diritti umani e le loro famiglie a questo tipo di crudeltà. Anche dopo il loro rilascio, sono ancora privati dei loro diritti fondamentali. Per alcuni è come se avessero ricevuto una condanna a vita».

 

«Avremmo già dovuto avere notizie da lei o dalla sua famiglia» conclude la nota. «Invece, ci chiediamo dove sia, come stia fisicamente e mentalmente, che cosa sia successo alla sua famiglia e che cosa le riservi il futuro: rimarrà prigioniera in casa sua (come accaduto a Chen Jianfang)? Sarà detenuta in una struttura medica senza accesso alla sua famiglia (come capitato all’attivista dell’Hubei Yin Xu’an)? Scomparirà forzatamente (come l’avvocato per i diritti umani Gao Zhisheng)? Il silenzio parla chiaro. Esortiamo la comunità internazionale a chiedere conto al regime comunista cinese della sua orrenda pratica di “detenzione morbida” o di “non rilascio” degli ex prigionieri politici».

 

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Le Filippine vicine all’espulsione dei diplomatici cinesi

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   La Cina questa settimana ha diffuso una presunta conversazione telefonica risalente a gennaio durante la quale un ammiraglio filippino accetta di fare delle concessioni ai funzionari cinesi. Il consigliere per la sicurezza nazionale ieri ha sottolineato che in questo modo Pechino sta violando le leggi locali.   Continuano le tensioni nel Mar cinese meridionale tra la Cina e le Filippine. Il consigliere per la sicurezza nazionale Eduardo Ano ha chiesto l’espulsione dei diplomatici cinesi dopo che questi hanno rilasciato la presunta conversazione telefonica di un ufficiale militare filippino: «i ripetuti atti da parte dell’ambasciata cinese di creare e diffondere ora rilasciando trascrizioni o registrazioni fasulle di presunte conversazioni tra funzionari del Paese ospitante – non dovrebbero essere consentiti senza autorizzazione o senza gravi sanzioni», ha affermato ieri il consigliere per la sicurezza nazionale.   La presunta conversazione, che risalirebbe a gennaio, è stata diffusa questa settimana. Nell’audio, un diplomatico cinese e un ammiraglio filippino di nome Alberto Carlos, discutono della disputa nel Mar cinese meridionale, dove Pechino ripetutamente invade le acque territoriali non solo delle Filippine, ma anche di altri Paesi del sud-est asiatico, per ottenere il controllo delle risorse ittiche e marine.

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Il militare filippino avrebbe accettato di «allentare la tensione ad Ayungin», un isolotto sommerso (chiamato Second Thomas Shoal a livello internazionale) parte delle Isole Spratly, dove un piccolo contingente di militari filippine vive a bordo del relitto di una nave da guerra fatta intenzionalmente arenare da Manila nel 1999 per promuovere le proprie rivendicazioni territoriali. Oggi viene utilizzata come appoggio per i rifornimenti. Carlos avrebbe promesso di limitare il numero di navi filippine che si recano alla base e fornire un preavviso alla Cina.   Il ministero degli Esteri cinese ha subito risposto alle dichiarazioni di Ano di ieri, affermando di «chiedere solamente che le Filippine garantiscano ai diplomatici cinesi di poter svolgere normalmente i loro compiti».   Le relazioni tra i due Paesi continueranno a essere tese, secondo gli osservatori, nonostante a gennaio entrambi avessero promesso di voler migliorare le comunicazioni per gestire le tensioni. Dall’inizio dell’anno ci sono stati tre scontri diretti tra la Guardia costiera filippina e la Marina cinese, ha fatto sapere Manila.   Nelle ultime settimane la Cina ha anche più volte fatto riferimento ad un presunto «accordo segreto» stipulato con il precedente presidente Rodrigo Duterte, effettivamente più filo-cinese rispetto all’attuale Ferdinand Marcos Jr. In base al presunto accordo, Manila avrebbe promesso di non riparare o costruire strutture a Second Thomas Shoal, ma il ministro della Difesa filippino ha dichiarato di non essere a conoscenza di nessun trattato di questo tipo.   Don McLain Gill, analista e docente presso l’Università De La Salle di Manila, ha spiegato al Nikkei che nel caso in cui le Filippine decidano di espellere i diplomatici cinesi, Pechino risponderebbe alla stessa maniera. Al momento la questione resta senza una vera risoluzione.   Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne. Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Un treno di prodotti agricoli dallo Xinjiang a Salerno. Le ONG uigure: frutto di lavoro schiavo

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Un viaggio di 10mila chilometri esaltato da Pechino come occasione di sviluppo (e di rivincita sull’uscita dell’Italia dalla Belt and Road Initiative). Ma il cotone e i pomodori dello Xinjang sono al centro della «politica di alleviamento della povertà attraverso il trasferimento di manodopera», che secondo numerosi rapporti è una forma di lavoro forzato.

 

Un treno carico di prodotti agricoli partito da Urumqi, nella tormentata regione autonoma cinese dello Xinjiang, e destinato dopo 10mila chilometri di viaggio tra binari e trasbordi marittimi a raggiungere Salerno, in Italia.

 

Il nuovo viaggio bandiera della China-Europe Railway Express è partito il 29 aprile scorso dalla Cina, con ampia copertura mediatica da parte degli organi di stampa ufficiali di Pechino, che ne esaltano i benefici per l’economia dello Xinjiang.

 

Oltre a rilanciare le «potenzialità» di quella Belt and Road Initiative – la nuova «via della seta» di Xi Jinping – dai cui accordi pure il governo italiano dello scorso anno sarebbe uscito, annullando il memorandum sottoscritto da Roma e Pechino nel 2019 ma senza chiudere ad altre forme di cooperazione commerciale.

 

A restare sullo sfondo è però la questione del rispetto dei diritti umani nello Xinjiang, regione dove gli abusi nei confronti uiguri hanno spesso anche il volto del lavoro forzato utilizzato proprio nell’agricoltura. Ad evidenziarlo è una presa di posizione pubblica lanciata in queste ore da tre dei gruppi più attivi sulla salvaguardia dei diritti della popolazione musulmana dello Xinjiang: Uyghur Human Rights Project, Uyghur American Association e Safeguard Defenders. Insieme hanno scritto una lettera aperta all’ambasciatrice italiana a Washington, Mariangela Zappia, esprimendo preoccupazione per l’iniziativa e chiedendo un’indagine accurata sull’origine dei prodotti trasportati su quel treno.

 

«La moderna schiavitù del popolo uiguro e i continui crimini contro l’umanità – si legge nel documento – sono stati ampiamente documentati da organizzazioni internazionali, media indipendenti e organismi governativi. L’uso del lavoro forzato in qualsiasi forma viola i principi fondamentali dei diritti umani, tra cui il diritto alla libertà dalla schiavitù e dal lavoro forzato, come sancito da diverse convenzioni e trattati internazionali di cui l’Italia è parte».

 

L’iniziativa della China-Europe Railway Express è rilevante anche per il peso della Regione autonoma uigura dello Xinjiang nella produzione agricola cinese: coltiva l’85% del cotone del Paese, oltre il 70% dei pomodori (producendo fino al 90% del concentrato di pomodoro destinato all’esportazione), il 50% delle noci e il 28% dell’uva. Inoltre nella regione vi sono anche coltivazioni significative di grano, mais e altri cereali.

 

«Prove significative – scrivono Uyghur Human Rights Project, Uyghur American Association e Safeguard Defenders, citando rapporti specifici sull’agricoltura nello Xinjiang – rivelano che i trasferimenti di manodopera nella regione uigura avvengono in un contesto di coercizione senza precedenti, con la costante minaccia di rieducazione e internamento. Molti lavoratori indigeni non sono in grado di rifiutare o abbandonare volontariamente il lavoro nel settore agricolo, e quindi i programmi equivalgono al trasferimento forzato di popolazioni, al lavoro forzato, al traffico di esseri umani e alla riduzione in schiavitù».

 

Uno dei volti di questo sfruttamento oggi è anche quella che Pechino chiama la «politica di alleviamento della povertà attraverso il trasferimento di manodopera» (转移就业脱贫). Concretamente: migliaia di persone vengono formate e trasferite verso lavori agricoli stagionali, come appunto la raccolta di cotone o pomodori. Inserito nel quadro del più ampio programma di Xi Jinping per la riduzione mirata della povertà, è un sistema costruito su misura di contesti sociali pervasivamente coercitivi, caratterizzati dalla mancanza di libertà civiche, come è appunto quello dello Xinjiang.

 

«Come membro della comunità internazionale – concludono il loro appello Uyghur Human Rights Project, Uyghur American Association e Safeguard Defenders – l’Italia ha la responsabilità di garantire che le sue pratiche commerciali siano in linea con il suo impegno per i diritti umani e gli standard etici. Permettere che merci prodotte attraverso il lavoro forzato entrino nei suoi confini non solo condona queste gravi violazioni dei diritti umani, ma mina anche la credibilità della posizione dell’Italia sulla promozione e l’applicazione dei diritti umani. Esortiamo il governo italiano ad agire immediatamente per indagare sull’origine delle merci arrivate a Salerno e a mettere in atto misure per prevenire l’importazione di prodotti ottenuti con il lavoro forzato».

 

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