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Dietro al rave dello scandalo: l’opportunismo, le politiche di Soros e i traffici internazionali di pastiglie

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Il rave in Toscana è finito. Il più grande pugno tirato nella faccia della popolazione internata dal COVID – dai gestori di discoteche chiuse, agli attivisti ora denunciati perché scesi in piazza a protestare contro il green pass – si è spento.

 

La faccenda in apparenza ha dell’incredibile. Un gruppo franco-spagnolo organizza una mega-festa con 15 palchi e almeno 10 mila partecipanti su di una proprietà privata – un altro diritto che probabilmente è evaporato nel bienni pandemico.

 

Di più: lo fanno su un campo dell’ex sindaco del Paese, un uomo di destra che assiste stupefatto allo svolgersi degli eventi. C’è scappato il morto, forse due. Una ragazza ha avuto le doglie e partorito. I cani hanno ucciso le pecore che pascolavano, ma si parla anche di vari poveri fido morti di caldo. Chetamina a 5 euro, LSD a 10. Le farmacie della zona, hanno detto, hanno finito le siringhe. Ricoveri per coma etilico e overdose. Due presunti stupri denunciati.

 

Non vogliamo nemmeno immaginare cosa il povero proprietario – un allevatore – si troverà a dover pulire. Vetri, preservativi usati, qualche siringa. La bonifica potrebbe non finire mai. Gli animali dovrebbero tornare a pascolare lì?

 

Tuttavia, le domande che premono sono altre.

Il ministero degli Interni potrebbe aver scelto di non interrompere la festa perché i possibili conseguenti tafferugli, cioè l’ultima cosa che vuole un governo  in questo preciso momento

 

Soprattutto, perché non è stato fermato con la forza? Di rave bloccati dalla polizia si ha memoria. Questa volta non è successo, e i raver sono andati avanti indisturbati – come zombie, a vedere dalle foto – a ballare drogati per giorni anche dopo che lo scandalo era sui telegiornali delle otto. È la TAZ – la zona temporaneamente autonoma teorizzata dal filosofo anarco-pedofilo Hakim Bey – realizzata nell’estate 2021. Tunz-tunz-tunz

 

Ci sono diverse risposte a questa domanda.

 

La prima: il ministero degli Interni potrebbe aver scelto di non interrompere la festa perché i possibili conseguenti tafferugli. Cioè, l’ultima cosa che vuole un governo, e specie un ministro apertamente schierato con le politiche sociali e migratorie di sinistra,  in questo preciso momento.

 

Il lettore che segue Renovatio 21 sa che un esempio di recente c’è già stato, in Francia, due mesi fa: la battaglia al rave di Ille-et-Vilaine, in Bretagna, dove negli scontri «di estrema violenza» tra la polizia e i festaioli ad un ragazzo è stata mozzata la mano.

 

 

Il bagno di sangue, così poco telegenico, è stato risparmiato

Per fronteggiare una massa di 10 mila persone ci vogliono quantità di manganelli poco fotogeniche, soprattutto di questi tempi, dove in molti sta montando l’idea di vivere in una società repressiva. Creare nel cuore di agosto una Tien’An Men techno non è l’ideale per la carriere di molti, e la tenuta del governo (nonostante abbiamo visto che siano proprio talvolta i «sinceri democratici» delle testate dell’oligarcato chiedere il golpe militare).

 

Che il ministro e la sua cintura di decisori abbia preso nota? Difficile a dirlo, considerando la superficialità con cui ha trattato la questione del green pass, passando da mezzi avvertimenti a frasi confusionarie in pochi giorni..

 

Tuttavia, il bagno di sangue, così poco telegenico, è stato risparmiato.

 

Un’altra risposta potrebbe essere che si tratti di un favore elettorale: anche i techno-fattoni, pensano i ministri di area PD, votano, come votavano i centri sociali, che talvolta sono perfino riusciti a mandare in Parlamento qualche loro non indimenticabile sgherro.

 

Eppure, sarebbe anche questo un errore. Chi conosce il mondo dei Technival sa quanto siano apolitici, perché il nichilismo neuronale risultante dalla combo anfetamina più musica elettronica occupa tutta la loro vita, e non hanno davvero tempo di pensare a cose complicate come le elezioni, le leggi, il futuro, la famiglia, etc. Ma tant’è: i no-vax in piazza (che, invece, votano eccome) si possono reprimere, i raver smandibolatori no.

 

Quindi: non hanno caricato per l’illusione ottica di un possibile opportunismo politico?

 

Quindi: non hanno caricato per l’illusione ottica di un possibile opportunismo politico?

La verità è che ci sarebbe un’altra domanda da farsi. Che è forse ancora più basilare.

 

Chi c’è dietro ai rave? Sono davvero un fenomeno spontaneo, senza padroni, senza finanziatori?

 

Difficile dirlo, perché si tratta di eventi ed organizzazioni di per sé davvero opache, nomadi, chiuse – segrete al punto che anche i luoghi delle feste . Tuttavia, ci ha colpita una delle descrizioni del rave finita sui giornali: «c’erano i “laboratori” della riduzione del danno dove le sostanze venivano preventivamente analizzate per non correre rischi inutili» scrive il Corriere di oggi.

 

Cioè, vi erano  dei banchetti dove testavano la droga che si acquistava, con «opuscoli con informazioni di base diffusi fra i presenti per evitare comportamenti dannosi». Cioè, ripetiamo l’espressione, quella che si chiama «riduzione del danno».

 

Qui bisogna alzare le antenne: la «riduzione del danno» è da sempre uno dei cavalli di battaglia di George Soros, per i cui programmi ha versato miliardi. La gente oggi tende a dimenticarlo, ritenendolo solo il miliardario dietro a certe rivoluzioni colorate, all’attacco alla lira e alla sterlina, e all’immigrazione totale che stiamo vivendo: no, Soros è stato anche uno dei più grandi sostenitori globali della droga libera.

 

Anni fa Soros scrisse di suo pugno un articolo per il Financial Times in cui ricordava come il suo approccio fosse diverso da quello dei governi nazionali:

 

Chi c’è dietro ai rave? Sono davvero un fenomeno spontaneo, senza padroni, senza finanziatori?

«La guerra alla droga è stata un fallimento da mille miliardi di dollari… Per oltre quarant’anni i governi di tutto il mondo hanno speso enormi somme su politiche repressive. Questo a discapito di programmi che funzionano». L’allusione è alle politiche della cosiddetta riduzione del danno, delle quali il Soros è munifico sostenitore. «Non è stato solo uno spreco di danaro: è stato controproducente»

 

«Il proibizionismo e la lotta alle droghe hanno fatto più male che bene… Per anni, la mia Open Society Foundation ha supportato programmi di riduzione del danno come lo scambio di siringhe…»

 

Insomma, dietro all’idea che la droga sia inarrestabile, e quindi non vada in alcun modo combattuta, ma ne vadano solo mitigati gli effetti, ci sono i miliardi del solito miliardario Soros.

 

Al momento, non sappiamo quale associazione che si interessa di «riduzione del danno» abbia stampato i dépliant in libera distribuzione al rave della Tuscia, né se quei «volontari» ai banchetti fossero in qualche modo stipendiati…

 

Sappiamo però che l’interesse delle forze globaliste per l’argomento c’è – eccome. Un mondo con la droga libera è un mondo di intossicati; un mondo di intossicati è davvero più facile da comandare (e anche: più economico) rispetto ad uno fatto di famiglie e cittadini responsabili…

 

Un altra domanda che nessuno si fa è: da dove viene quella immane quantità di droga consumata nei rave, così come nelle discoteche italiane dove ogni anno, in genere, ci scappa il morto con relativo e transeunte scandalo?

 

«Il proibizionismo e la lotta alle droghe hanno fatto più male che bene… Per anni, la mia Open Society Foundation ha supportato programmi di riduzione del danno come lo scambio di siringhe…» George Soros

Negli anni Novanta si bisbigliava che a produrla fossero le stesse farmaceutiche: del resto, come l’eroina fu inventata e commercializzata dalla Bayer, l’ecstacy, o MDMA – cioè la droga principalmente consumata con la musica elettronica – fu sintetizzata dalla Merck. Non c’è prova del fatto che Big Pharma produca oggi queste droghe e le smerci sottobanco: si tratta di una sorta di cospirazionismo drogastico-farmaceutico, che si diffonde tra le chiacchiere notturne di ragazzini storditi.

 

Tuttavia, ci sono invece prove del fatto che nel traffico di pastiglia siano attivi cittadini di un determinato Paese mediorientale, lo Stato di Israele.

 

Il quotidiano francese Liberation scriveva il 23 luglio 2001 che la mafia israeliana «ha dirottato il mercato delle droghe sintetiche». L’11 agosto dello stesso anno, anche Le Figaro confermava che «l’Ecstasy è il campo di caccia privato del sottobosco criminale israeliano».

 

«Gli Israeliani sono al centro del commercio dell’ecstasy» scrive il 1 novembre 2009 Haaretz analizzando un documento dello U.S. State Department. «Negli anni recenti, il crimine organizzato israeliano, con qualche legame presso le organizzazioni criminali della Russia, hanno preso controllo della distribuzione della droga in Europa, secondo un documento del Bureau for International Narcotics and Law Enforcement Affairs». Lo stesso documento mostra pure come «gruppi criminali israeliani hanno le mani sulla distribuzione di ecstasy in Nordamerica»

 

Grazie alla multinazionalità israeliana – i cittadini dello stato ebraico hanno in genere più di un passaporto, e legami con USA, Russia, Europa – la rete di traffico messa in piedi dagli israeliani e vastissima e profonda

 

Sono coinvolte diverse famiglie, coinvolte in faide con autobombe, esecuzioni,  e omicidi vari.

 

Una delle principali famiglie, Abergil sono oggetto negli USA di ogni capo di imputazione: assassinii, riciclaggio, estorsioni, frode, controllo di casinò illegali, collusione con una gang di Latinos (i Vineland Boyz) nella sua guerra criminale contro un cartello di rivali messicani.

«Gli Israeliani sono al centro del commercio dell’ecstasy» scrive il 1 novembre 2009 Haaretz

 

L’Olanda è uno degli snodi principali per gli israeliani, con milioni di pasticche spedite ovunque, dall’Europa a ogni Stato degli USA.

 

Perfino in luoghi dove i tentacoli della diaspora non dovrebbero arrivare compaiono kapò dello smercio israeliano di metanfetamina: nel settembre del 2000, la polizia giapponese arresta un cittadino israeliano per lo smuggling di almeno 25.000 pastiglie su suolo nipponico.

 

Se non credete alla vastità del fenomeno, è sufficiente rammentare il caso del ministro Gonen Segev, un pediatra della zona di Haifa che fu non solo deputato alla Knesset (il parlamento israeliano), ma pure ministro dell’energia e delle infrastrutture  1995 sia sotto il governo di Yitzhak Rabin e sotto il successivo governo presieduto da Shimon Peres. Non un politico qualsiasi: si considera che il suo voto fu fondamentale per il passaggio degli accordi di Oslo presso la Knesset.

 

Ebbene, nel 2004 l’ex-ministro di Tel Aviv viene arrestato all’aeroporto di Amsterdam mentre si imbarca su di un volo per Israele. Dice alle autorità aeroportuali che quelle pillolette colorate che gli hanno trovato siano delle M&Ms, avete presente, i variopinti cioccolatini che piacciono ai bambini. Invece erano migliaia e migliaia di pasticche di ecstasy.

 

Non fermare il rave, indirettamente, corrisponde al non fermare questa marea di psicofarmaci illegali che infiltrano il cervello della nostra gioventù

Insomma, l’onorevole, già ministro di un Paese che dispone di almeno 200 testate atomiche non dichiarate», trasportava ecstasy in quantità.

 

Ora, sarebbe bello capire quali percorsi hanno seguito le pastiglie consumate per istupidire e tenere in piedi i 10 mila raver del viterbese. Sarebbe bello sapere questo, e tante altre cose.

 

Del resto, attraverso i confini italiani, con gli ultimi governi, sono entrati milioni di clandestini – figuriamoci dunque quante pasticchette potrebbero essere passate.

 

Non fermare il rave, indirettamente, corrisponde al non fermare questa marea di psicofarmaci illegali che infiltrano il cervello della nostra gioventù.

 

E chi si droga ad una festa d’estate con psicofarmaci legali, mai dirà di no a quelli legali, soprattutto in annate in cui il lockdown ne ha moltiplicato il consumo – in perfetta legalità civile ed etica medica.

Per noi, da dovunque la si guardi, si tratta di un unico fenomeno, una vera catastrofe cerebrale generazionale, con i ragazzi trasformati sempre più consapevolmente in zombie assuefatti a sostanze sintetiche.

 

Altro che «riduzione del danno».

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

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Gli USA attaccano un narco-sottomarino nei Caraibi: le immagini

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Nell’ambito delle operazioni in corso contro i cartelli della droga in area caraibica, le forze armate statunitensi hanno colpito un sommergibile sospettato di traffico illecito di stupefacenti.

 

Il presidente Donald Trump ha rivelato l’azione durante una conferenza stampa del venerdì, in presenza del presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj in visita alla Casa Bianca.

 

Il biondo presidente ha illustrato l’operazione in risposta alle notizie su due presunti superstiti dell’attacco a un’imbarcazione dedita al narcotraffico.

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Il Segretario di Stato Marco Rubio ha risposto per primo alle interrogazioni sui due sopravvissuti, prima che Trump lo interrompesse per qualificare l’imbarcazione come un «sottomarino».

 

«Gli Stati Uniti stanno portando avanti un’operazione contro il narco-terrorismo. Riguardo ai dettagli di eventuali incursioni recenti, non siamo qui per rivelarli tutti, ma ve li comunicheremo presto», ha introdotto Rubio.

 

«Si trattava di un sottomarino, vero?», ha interloquito Trump.

 

«Lo era. Abbiamo neutralizzato un sottomarino, un sottomarino per il trasporto di droga, progettato appositamente per veicolare ingenti carichi di stupefacenti. Per chiarire, non erano innocenti civili. Non capita spesso di incontrare gente con un sottomarino privato, e si è trattato di un colpo a un mezzo zeppo di droga», ha proseguito Trump.

 

Quella dei narco-submarinos è un storia antica con addentellati anche in Europa, come quando un anno fa sono stati fatti arresti di narcotrafficanti sottomarini colombiani. La costruzione di ciascuna nave può costare fino a due milioni di dollari; i sottomarini possono trasportare abbastanza cocaina in un singolo viaggio da generare più di 100 milioni di dollari in proventi illeciti per i trafficanti.

 

Il video è stato postato sul profilo X ufficiale della Casa Bianca.

 

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L’incursione sul sommergibile rappresenta almeno il sesto intervento di questo genere su natanti nei Caraibi dall’inizio del mese precedente.

 

Il 2 settembre, il Segretario alla Difesa Pete Hegseth aveva reso noto che le truppe americane avevano eliminato 11 sospetti trafficanti.

 

In un messaggio sui social, Trump ha indicato gli individui come affiliati al Tren de Aragua, un gruppo criminale originario del Venezuela designato quest’anno come organizzazione terroristica dal Dipartimento di Stato.

 

Trump ha sostenuto che la formazione agisse «sotto il comando di Nicolás Maduro», capo di Stato venezuelano.

 

Nelle scorse settimane, l’amministrazione Trump ha intensificato le pressioni su Maduro, accusandolo di dirigere direttamente bande delittuose come il Tren de Aragua.

 

Questa settimana è emerso che Trump ha dato il via libera alla CIA per operazioni clandestine in Venezuela, verosimilmente volte a minare il governo di Maduro. Parallelamente, gli USA stanno dispiegando bombardieri B-52 al largo delle sue coste in un’esibizione di potenza.

 

Venerdì, un cronista ha interrogato Trump su Maduro. «Si dice che Maduro abbia messo in palio tutte le ricchezze del suo Paese, le risorse naturali incluse. Domenica ha persino inciso un video in inglese proponendo la sua mediazione. Che fare?», ha domandato il giornalista a Trump.

 

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«Ha offerto tutto», ha replicato Trump, che ha risposto utilizzando una mala parola molto gettonata ultimamente nel giro MAGA .

 

«Ha offerto tutto. Hai ragione. Sai il motivo? Perché non vuole più fare il cazzone con gli Stati Uniti» ha detto Trump, utilizzando il termine «fuck around», cioè «fare il cazzone», «disturbare», «fare il pirla», base per il popolare acronimo FAFO, «fuck around and find out», ovvero «fai il cazzone e poi vedi».

 

Di fatto, Trump sta trattando Maduro come le sua azioni fossero già meme da distribuire sull’internetto.

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Droga

Alla fonte dell’antico traffico mondiale dell’eroina

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Alfred W. McCoy pubblicò nel 1972 The Politics of Heroin in Southeast Asia, un libro che diede scalpore e che venne ampiamente discusso alla sua uscita anche dalla stessa CIA, in cerca di potenziali errori al suo interno.   L’ultima edizione riveduta e ampliata risale al 2003 e venne rinominata, più accuratamente, The politics of heroin: CIA complicity in the global drug trade. McCoy storico accademico e autore, si specializzò inizialmente in storia delle Filippine per poi deviare verso la storia del traffico illecito di sostanze stupefacenti.    All’uscita del libro nel 1972, a 26 anni ancora dottorando a Yale in Storia del Sud-Est Asiatico, accusò e testimoniò di fronte a un comitato del Senato statunitense la complicità di un gruppo di persone per la produzione e la ridistribuzione della raffinazione del papavero da oppio.

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In una copia del Daytona Beach Morning Journal del primo giugno del 1972, possiamo trovare riassunti tutti i punti portati da McCoy davanti al comitato. Le accuse di McCoy comprendevano la più alte sfere militari laotiane, cambogiane, sud vietnamite e tailandesi. Alcuni intermediari come la mafia corsa di Marsiglia e la famiglia malavitosa di Santo Trafficante di Miami. Infine accusò ufficiali americani complici di aver condonato e addirittura cooperato per sostenere questo schema di tratta illegale di stupefacenti in seguito a vantaggi politici e militari.    La pronta risposta dalle istituzioni americane chiamate in causa non tardò ad arrivare commentando con fermezza che le accuse lanciate non avevano incontrato alcun riscontro e neppure alcuna prova di colpevolezza. Al contrario, sottolineavano, come se non fossero bastate già le accuse, che la collaborazione con le più alte sfere politiche e militari del Sud-Est asiatico non era mai stato così solida.    McCoy spiegava come il traffico di eroina e oppio in Vietnam del Sud era diviso tra le organizzazioni politiche del presidente Nguyen Van Thieu, il vice presidente Nguyen Cao Ky a il primo ministro Tran Van Khiem. Secondo l’autore, la sorella del generale Ky, la signora Nguyen The Ly, viaggiava una volta al mese a Vientiane, la capitale del Laos, per organizzare una spedizione di eroina verso Phnom Pehn o Pakse in Cambogia. Successivamente sarebbe stata presa in carico dalla quinta divisione aerea vietnamita in direzione Saigon.    Lo studioso descriveva come il primo fornitore della signora Ky fosse un malavitoso cinese chiamato Huu Tim Heng il quale a sua volta utilizzava la sua partecipazione nell’industria di imbottigliamento di Pepsi di Vientiane come copertura per l’importazione dei prodotti chimici necessari. Heng a sua volta comprava l’oppio dal generale Ouane Rattikone chief of staff del reale esercito del Laos.    Lo storico ricordava come il generale Rattikone aveva ammesso di controllare il commercio di oppio nel Laos settentrionale e ponentino fin dal 1962 ma oltre a questo anche i sistemi per la sua produzione. La somma delle due iniziative lo facevano risultare come il più grande fabbricante del paese. L’eroina prodotta da Rattikone era di tale qualità che veniva venduta direttamente anche alle truppe americane nel Vietnam del Sud.    McCoy spiega come la maggioranza del traffico di oppio nel Laos del nordest era controllato dal generale Vang Pao, comandante delle truppe mercenarie sostenute dalla CIA. Allo stesso modo il governo della Tailandia permetteva ai ribelli birmani, ai nazionalisti cinesi irregolari e alle bande armate di mercenari, di muovere enormi carovane di muli carichi con centinaia di tonnellate di oppio birmano attraverso i confini della Tailandia settentrionale. Secondo l’accusatore, alcuni tra i più vicini sostenitori del presidente Thieu all’interno dell’esercito vietnamita controllavano la distribuzione e la vendita dell’eroina ai soldati americani di stanza in Indocina.    L’autore racconta come Santo Trafficante, principale rappresentante della sua famiglia mafiosa, organizzò assieme ai più importanti membri della cosca corsa di Marsiglia un incontrò a Saigon per aprire sempre più le strade all’eroina del Sud-Est asiatico verso le terre americane. 

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Le dichiarazioni dello studioso andavano anche verso il generale Dang Van Quang, consigliere militare del presidente Thieu, inquadrato come il più importante pusher di tutto il Vietnam meridionale. Secondo alcuni ufficiali americani, il generale Ugo Dzu, risultava come uno dei maggiori trafficanti di narcotici di tutto il Vietnam centrale. Secondo il libro, il generale, comandante della seconda armata, venne rimosso successivamente dal suo incarico per incompetenza militare.    McCoy, non risparmiando nessuno, continua accusando anche le ambasciate americane in Indocina di tentare di coprire il più possibile il ruolo dei degli ufficiali locali palesemente implicati nella tratta di eroina. Secondo lo storico, McMurtrie Godley, ambasciatore statunitense in Laos, fece del suo meglio per prevenire l’assegnazione di ufficiali del U.S. Bureau of Narcotics al Laos per via del suo interesse nel continuare a cooperare con il governo e i militari laotiani.    Per chiudere con uno degli esempi più famosi e ritratti anche da un celeberrimo film con Mel Gibson e Robert Downey jr., nel Laos del Nord, i velivoli e gli elicotteri della Air America affittati dalla CIA trasportavano regolarmente oppio coltivato dai mercenari al soldo dell’agenzia.   Nell’articolo apparso sul New York Times del 9 agosto del 1972 possiamo scoprire come Harper & Row, Inc., la casa editrice, decise comunque di pubblicare il testo del giovane studioso nonostante le forti lamentele provenienti dall’agenzia.    Lawrence D. Houston, responsabile legale della CIA, richiese una copia per sua personale lettura precedente alla pubblicazione. B. Brooks Thomas, vice presidente e responsabile legale della società editrice, rispose che le accuse arrivate in seguito al controllo del testo si erano rivelate generaliste e anche abbastanza deludenti.    In un intervista successiva McCoy sottolineò quanto fosse stupito dalla disparità intercorsa tra la iniziale roboante, militante critica della CIA sul libro e la lettera finale che si era rivelata essere molto debole al limite del patetico.    Marco Dolcetta Capuzzo

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La Russia accusa gli Stati Uniti di pianificare un colpo di Stato in Venezuela

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L’ambasciatore russo all’ONU, Vassilij Nebenzia, ha accusato gli Stati Uniti di orchestrare un colpo di Stato in Venezuela, mascherandolo come una campagna antidroga.

 

Gli USA hanno dispiegato marines e navi da guerra al largo delle coste venezuelane, conducendo attacchi aerei contro presunte imbarcazioni dedite al traffico di droga. Almeno quattro imbarcazioni sono state affondate, causando oltre 21 morti. Caracas ha denunciato l’operazione come una violazione della propria sovranità, convocando una sessione urgente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e avvertendo che l’obiettivo era rovesciare il presidente Nicolas Maduro, minacciando la stabilità regionale.

 

Durante la sessione di venerdì, Nebenzia ha dichiarato che la Russia «condanna fermamente» la campagna statunitense, definendola «una palese violazione del diritto internazionale e dei diritti umani».

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«Assistiamo a una sfacciata campagna di pressione politica, militare e psicologica contro il governo di uno Stato sovrano, con l’unico scopo di abbattere un regime sgradito agli Stati Uniti», ha affermato, sottolineando che il piano golpista utilizza «i classici strumenti delle rivoluzioni colorate e delle guerre ibride», alimentando «artificialmente un clima di scontro».

 

Secondo Nebenzia, la giustificazione di Washington per l’azione militare «sembra la trama di un film hollywoodiano» in cui gli americani «salvano il mondo», ma è pura finzione, evidenziando che l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine non considera il Venezuela un centro di traffico di droga, poiché l’87% della cocaina diretta negli USA transita per l’Oceano Pacifico, a cui il Venezuela non ha accesso.

 

«Washington deve cessare immediatamente di intensificare le azioni con falsi pretesti ed evitare l’errore irreparabile di un’azione militare contro il Venezuela», ha esortato.

 

Altri membri del Consiglio di Sicurezza hanno chiesto una de-escalation, ma il consigliere politico statunitense John Kelley ha ribadito che Washington userà tutta la sua «forza» per eliminare i presunti «cartelli della droga» venezuelani.

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L’amministrazione del presidente USA Donald Trump accusa da tempo Maduro di legami con i cartelli, etichettandolo come «narcoterrorista» e aumentando la taglia per il suo arresto a 50 milioni di dollari.

 

Trump non ha riconosciuto la rielezione di Maduro nel 2024, sostenendo apertamente il suo rivale. Venerdì ha elogiato la leader dell’opposizione Maria Corina Machado per il Premio Nobel per la Pace, riconoscendo il suo precedente sostegno alla sua causa.

 

Maduro ha ripetutamente smentito con forza le accuse degli Stati Uniti riguardo a presunti legami con il traffico di droga.

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)

 

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