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Scuola

INVALSI e PNRR: a scuola nasce il mostro tecnocratico-predittivo che segnerà il futuro dei nostri figli

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Il PNRR, che vomita denaro a fiotti, ha inondato di dobloni anche l’INVALSI (Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema educativo di istruzione e formazione), il quale se ne esce in grande spolvero col trucco rifatto. Beninteso, è sempre il mostro di prima, ma tirato a lustro, e finalmente libero di esibire tutte le perverse potenzialità con cui era stato concepito nel lontano 1999. Perché i tempi, ora, sono maturi.

 

Come per gli altri mille tentacoli dell’apparato – una giungla di sigle cacofoniche che sbucano da ognidove – anche l’evoluzione dell’INVALSI serve l’obiettivo principe di completare il processo di smaterializzazione e disumanizzazione di tutto quanto su questa terra pulsi di vita. E il mondo della scuola è, per sua natura, un concentrato di vita: per questo è urgente intrappolarlo nella prigione ermetica del digitale, neutralizzando tutto il suo contenuto di carne e di spirito.

 

L’INVALSI è uno strumento di valutazione, che opera attraverso la somministrazione di test standardizzati composti da quesiti a risposta chiusa o a risposta aperta univoca.

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Inizialmente ce lo avevano venduto come strumento di valutazione delle scuole, e non degli studenti: l’analisi dei risultati su larga scala avrebbe permesso – ci era detto – di monitorare l’andamento generale del sistema scolastico. Ci avevano altresì venduto le prove come non obbligatorie, e infatti qualcuno le schivava, infastidito da tutte quelle richieste di informazioni su status familiare, titoli di studio e professione dei genitori, numero di locali in casa, numero di auto possedute, di libri, eccetera eccetera. Insomma, con la scusa di valutare le scuole, qualcuno intanto acquisiva una fotografia socio-economica delle famiglie, scattata dai figli.

 

Ci avevano assicurato che, comunque, tutto si svolgeva in regime di totale anonimato, non essendo possibile risalire in nessun modo dai codici alfanumerici all’identità dell’autore della prova.

 

Di fatto, l’INVALSI ha invaso le scuole e, grazie alla carica intimidatoria insita nella sua funzione, si è circondato di un’aura di sacralità, fino a convincere molti docenti a sperperare ore su ore di lezione ad allenare gli sventurati alunni con batterie di test a crocette, invece che insegnare la propria materia. Perché sì, accade anche questo: la didattica tarata sull’INVALSI.

 

Comunque, non tutti se l’erano bevuta. C’era qualcosa che non tornava nel libretto di istruzioni dello strambo marchingegno.

 

E infatti, un po’ alla volta, il mostro è sbocciato, secondo la sua natura. A un certo punto le prove Invalsi sono diventate propedeutiche agli esami di terza media e di maturità, cioè requisito necessario per l’ammissione, cioè obbligatorie. Ma non è finita là. Ora, il decreto legge PNRR stabilisce che i risultati delle prove Invalsi entreranno a fare parte del curriculum dello studente allegato al diploma finale di scuola superiore e contenuto nell’E-Portfolio cui si accede tramite la piattaforma Unica. Il mostro si è finalmente trasfigurato.

 

Conviene aprire una breve parentesi per spiegare a grandi linee cos’è UNICA. A proposito di mostri. Ce la presentano come un sublime incrocio tra: una scatola nera (sic!), perché contiene e ricorda tutto ciò che uno studente ha fatto nel suo percorso scolastico; una piazza virtuale, a cui possono avere accesso docenti, famiglie, tutor, orientatori, e chi più ne ha più ne metta; e una bussola, che serve a capire dove andare. O meglio: dove altri vogliono farti andare.

 

UNICA è una piattaforma nella quale vengono raccolti tutti i dati di tutti gli studenti italiani, e che promette di far dialogare gli studenti con le famiglie, il territorio, le imprese, le università, nonché di realizzare i quattro obiettivi fondamentali della scuola 4.0, che sono: orientamento, personalizzazione, digitalizzazione, semplificazione (le quattro parole d’ordine del ministro che sintetizzano la devastazione in programma). INVALSI stesso suggerisce agli studenti di scaricare le certificazioni ottenute in italiano, matematica, inglese, «per arricchire il proprio curriculum o e-portfolio, evidenziare i livelli di competenze raggiunti sui social network o su altre piattaforme professionali, fornire una rappresentazione visiva delle proprie competenze su un sito web»; insomma, per farsi profilare al meglio, anche attraverso un Open Badge (ed ecco spuntare un altro mostro).

 

Dunque, come si diceva, con l’avvento del PNRR i risultati delle prove INVALSI, stabiliti insindacabilmente dagli algoritmi, entreranno a fare parte del curriculum dello studente contenuto nell’E-Portfolio che sta nella piattaforma Unica. Cioè, il curriculum si arricchirà di una specifica sezione dedicata ai livelli di apprendimento raggiunti nelle prove Invalsi per ciascuna disciplina.

 

L’inserimento dei risultati INVALSI nel curriculum dello studente consentirebbe – così ci è detto – oltre al riconoscimento delle competenze acquisite durante il percorso formativo, anche la valorizzazione delle eccellenze, ovvero di «premiare gli studenti che si sono distinti nelle diverse discipline, offrendo loro un vantaggio in vista di future attività formative e lavorative».

 

Dal che risulta evidente come, nella mens del legislatore, i dati raccolti e immortalati nel profilo virtuale dello studente lungo il corso della sua storia personale sono tali da condizionarne le opportunità future. Vale a dire che sono in grado di rappresentare, nel bene e nel male, uno stigma indelebile.

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Ciò significa che, all’esito di una specifica prestazione, localizzata nel tempo e nello spazio, viene ricondotta la etichettatura definitiva di un soggetto in via di formazione: l’etichetta scolpita nella memoria delle banche dati gli resterà appiccicata addosso, facendo strame del suo potenziale di crescita e di maturazione, delle metamorfosi imprevedibili, delle salite e delle discese, delle cadute e dei miracoli che costellano la vita di ogni essere umano, soprattutto se in fase di crescita.

 

Le sorti dell’umano, insomma, le decide in anticipo la macchina valutando delle crocette sulla base di automatismi imponderabili, senza che all’umano sia possibile financo verificare ex post la correttezza del procedimento usato e del risultato ottenuto dalla macchina, e quindi senza alcuna possibilità di ripeterlo e di correggerlo, e nemmeno di ottenerne l’oblio.

 

È evidente dunque che, attraverso il PNRR e la sovrastruttura tecnologica che ad esso è legata, è stato portato a compimento un mastodontico piano di raccolta dati (non solo relativi al rendimento scolastico, ma anche al contesto sociale e culturale di appartenenza) e di schedatura capillare degli studenti italiani affidata integralmente agli algoritmi e affrancata da qualsiasi interferenza umana.

 

Dal 2022, INVALSI ha introdotto un nuovo indicatore individuale per identificare gli studenti in condizione di fragilità, alla cui scuola di appartenenza saranno destinate risorse aggiuntive per attuare didattiche differenziate.

 

Si tratta di un bollino assegnato sempre algoritmicamente in base ai risultati dei test standardizzati, il quale, certificando il rischio di dispersione implicita o abbandono scolastico, permetterebbe di predisporre precocemente misure ad hoc, non si sa bene di che tipo. Ne ha scritto diffusamente Rossella Latempa su Roarsquiqui e qui, e a lei si rimanda per un’analisi più approfondita del tema.

 

È chiaro che INVALSI, in questo modo, assume una funzione non più solo valutativa, ma anche predittiva, intestandosi un’operazione di schedatura di massa degli studenti supposti fragili. Lo ha confermato il suo presidente Roberto Ricci, nel maldestro tentativo di negare tutto: «Nessuna certificazione, nessuna etichettatura. L’idea è proprio quella di fornire indicatori che probabilisticamente individuano dei fragili. Come dire: se ho determinate caratteristiche fisiche, sono esposto a determinati rischi, e mi controllerò per prevenirli. Un’altra lettura delle cose favorisce l’oscurantismo». Commento che si commenta da solo.

 

Egli poi, sempre tentando di negarlo, ammette anche che i codici identificativi consentono di associare il valore dell’indicatore di fragilità alla scheda personale di ogni studente; e che il bollino viene loro appiccicato a totale insaputa delle famiglie. Un capolavoro assoluto di trasparenza e di democrazia, non c’è che dire.

 

Tutta la procedura si dispiega al riparo da ogni controllo esterno; non è contestabile né riproducibile; sono ignoti i criteri utilizzati per segnare la soglia di fragilità, tutto è secretato. I risultati, come dice Latempa, vanno accettati come puro atto di fede. Ipse (dove ipse è INVALSI) dixit.

 

Le parole della stessa Autorità Garante per la protezione dei dati personali (in un recente dibattito dal titolo: «Intelligenza artificiale: come proteggere i dati e come utilizzarli per la dispersione scolastica?») rendono ragione della gravità di questo potenziamento dell’INVALSI con la ridefinizione dei test in senso predittivo. Di seguito alcuni stralci del suo discorso, riportati qui.

 

«Quando uniamo IA e dati la miscela diventa esplosiva. I dati sono di fatto proiezioni, frammenti dell’identità di una persona. Messi insieme rappresentano la persona. Il chi siamo nella dimensione digitale». E ancora: «In una stagione in cui il tecnologicamente impossibile non esiste più e il tecnologicamente possibile è tutto, se cedo all’idea che quello che è tecnologicamente possibile e legittimo è democraticamente sostenibile, il risultato finale (…) è che il governo diventa della tecnologia. La tecnocrazia travolge la democrazia perché la vera regola la fissa la soluzione tecnologica (…) Rischiamo di consegnarci mani e piedi agli algoritmi e alla tecnologia (…) che esce dai laboratori di ricerca ormai sempre più nelle mani dei privati e quindi è sviluppata nel loro legittimo interesse».

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Il Garante ha fatto anche un esempio delle aberrazioni cui questo sistema può condurre:

 

«Pensiamo all’accesso abusivo a quell’informazione con il dato di Paolo Rossi, che per colpa di un algoritmo che ha messo in fila in maniera non corretta dei fattori si ritrova classificato come a rischio dispersione, poi quando quello proverà ad entrare in un’Università X o Y che cerca solo quelli bravi resterà fuori dalla porta; o quando ci sarà qualcuno che dovrà selezionarlo per un lavoro e avrà accesso ai dati dirà ma era addirittura “a rischio dispersione”». È solo un esempio, e nemmeno il più grave, nel panopticon che ci aspetta.

 

Per concludere. Attraverso una valutazione standardizzata che fuoriesce completamente dal controllo umano si pretende non soltanto di fotografare il presente, in termini di livello di apprendimento dello studente, ma anche di prevedere statisticamente i futuri possibili e di intervenire per modificarli; si pretende, tecnicamente, di influenzare il futuro ingabbiando le vite in fiore dentro una prigione informatica dalla quale diventa impossibile evadere.

 

Come dice Rossella Latempa, «L’effetto immediato è quello di rendere presenti quei futuri selezionati come più probabili, non solo attraverso la classificazione individuale, la cui traccia sociale è imprevedibile, ma soprattutto per mezzo della catena di interventi attivati (progetti di potenziamento didattico, recupero…)». In sostanza, dice sempre Latempa: «la valutazione automatizzata è un processo performativo, cioè coinvolto nella creazione della realtà che pretende di rappresentare. Il potere auto-rappresentante di una classificazione come quella di fragilità emessa dall’INVALSI non è paragonabile al giudizio umano di un insegnante, negoziabile e revisionabile. Automatizzare le valutazioni significa naturalizzare le disuguaglianze e rafforzarle».

 

Nell’incommensurabilità tra il giudizio umano, che implica una relazione interpersonale in divenire, e la tassonomia computerizzata, che sigilla una prestazione in un dato indelebile, risiede il nucleo di questa perversione.

 

Insomma, la mole imponente di dati raccolti dall’INVALSI per ciascuno studente lungo tutto il corso della sua carriera scolastica alimenta un database da cui trarre informazioni personali e premonizioni oracolari. In pratica, un mostro cibernetico inafferrabile – programmato e reso onnipotente da frotte di poveri nerd inconsapevoli – traccia e pilota le biografie dei nostri figli, obbligati a viaggiare per la vita ciascuno con la propria scatola nera cucita addosso. Non per nulla li chiamano «capitale umano».

 

Non bisogna dimenticare, a margine, la contestuale stretta sul cosiddetto «orientamento», il quale – sempre grazie al decreto PNRR – si avvia a grandi passi a diventare vincolante, ovvero sottratto alla volontà della famiglia (nel sito del MIM si legge: «si valorizza il consiglio di orientamento, rilasciato dalle istituzioni scolastiche agli alunni della classe terza della Scuola secondaria di I grado, demandando a un decreto del Ministro l’adozione di un modello unico nazionale di consiglio di orientamento, da integrare nell’E-Portfolio». Se ne parla più diffusamente qui).

 

Ecco a voi le meraviglie del progresso. Chi in questi anni avvertiva qualche disagio nel prestare la prole ai rilevamenti statistici richiesti per il miglioramento della scuola, della specie, dell’ecosistema, del pianeta; chi magari pensava addirittura che l’INVALSI, in realtà, fosse una polpetta avvelenata a lento rilascio, beh, ora sa che aveva ragione.

 

Stavano preparando il pasto perpetuo per il gigantesco Minotauro tecnocratico. Aspettiamo Teseo.

 

Elisabetta Frezza

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Scuola

Scuola: puerocentrismo, tecnocentrismo verso la «società senza contatto». Intervento di Elisabetta Frezza al convegno di Asimmetrie.

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Renovatio 21 pubblica l’intervento di Elisabetta Frezza al convegno Euro Mercati Democrazia di Asimmetrie   Da questa stessa postazione parlavo di Scuola qualche anno fa, in particolare nel 2020 (quando il tema del convegno era «Il conformismo») e nel decennale del Goofy del 2021, allorché si dibatteva de «Lo stato delle cose».   Aggiungerei oggi qualche nota a margine (ci sarebbe davvero tanto tanto da dire!), e credo che questa postilla si possa a buon diritto intitolare: Quod Erat Demonstrandum. Perché?   Perché i pezzi che sono saltati fuori dalla pregressa disamina – cioè vivisezionando il pachiderma pedoburocratico così come uscito, geneticamente modificato, da trent’anni e più di riforme affastellate l’una sull’altra (ogni ministro ha aggiunto il proprio ingrediente alla mappazza cucinata dai predecessori) – si sono rivelati ex post delle formidabili «ventose» sulle quali far aderire la coltre digitale. Concepita per essere impermeabile: per soffocare definitivamente conoscenza, cultura e umanità. E per tarpare tutte le ali di chi, appunto, dovrebbe imparare a volare.    Il riformatore seriale (il singolare è voluto, perché, a prescindere dal colore politico dei governi che le hanno varate, tutte le riforme hanno corrisposto a un’unica mens), ci ha fatto familiarizzare con un mucchio di trovate in apparenza neutre, innocue – anzi, in apparenza pure buone, semplicemente perché nuove – tipo (cito alla rinfusa): orientamento (in entrata, in uscita, in tutte le salse), cittadinanza digitale, nuova educazione civica, registro elettronico, curriculum dello studente, e-portfolio; INVALSI e la galassia di sigle infestanti tra cui CLIL; PCTO; STEM; e poi BES, DSA, DAA; PDP, PEI, PFI; UDA. Una fonetica grottesca che chi vive la scuola è costretto a lallare ogni giorno.    Questo armamentario lussureggiante risponde a una metafisica distillata in un repertorio di dogmi «gentili» che suonano bene e infatti piacciono tanto – cosa che peraltro li rende difficilmente contestabili. Degli assoluti che stanno lassù, nell’iperuranio scolastico, e sono: «inclusione», «benessere dello studente», «personalizzazione didattica», «successo formativo». Riposano tutti su un’idea di fondo suggestiva e attraente, ovvero che la scuola vada ritagliata, come un abito su misura, addosso a ogni singolo alunno, il quale è sovrano e protagonista della propria formazione.   Tutto deve ruotare intorno a lui, sul presupposto che egli sia capace da solo di dare forma a se stesso assecondando le proprie pulsioni e i propri ritmi, e abbia bisogno soltanto di un ambiente attrezzato, possibilmente ludico, e di un badante-animatore al suo fianco posto al servizio del suo «stare bene»: l’insegnante viene così derubricato a satellite dello scolaro, a facilitatore, e il suo ruolo centrale, fondamentalissimo, di promotore del sapere, è marginalizzato, ridotto alla dimensione protocollare e burocratizzato. Pronto, a quel punto, per la sostituzione con l’assistente virtuale

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Si chiama «puerocentrismo» ed è il cuore di quella cosiddetta «pedagogia progressiva» – detta anche «didattica attiva» – che ha il suo nucleo teorico originario in J. J. Rousseau e nel suo Emilio (1762) e che poi, a partire dal secolo successivo, ha tratto nuova linfa facendo il giro largo per gli USA dove (con Dewey, Kilpatrick, etc.) si è guarnita di vari orpelli ma, soprattutto, è stata applicata in corpore vili su larga scala nel sistema scolastico preuniversitario (1)    Benché oltreoceano abbia provocato un innegabile – e infatti non negato (2) – disastro sul piano cognitivo e culturale, il pacchetto completo è stato infine entusiasticamente reimportato nelle colonie in groppa, oltre che alla metafisica di cui sopra, a tutt’un prontuario di stilemi angloaziendali che ne rappresenta il marchio di fabbrica e che ha attecchito in Italia fin dentro il lessico delle leggi e della burocrazia, sulla spinta da un lato della fascinazione per il nuovo (di nome ma non di fatto, visto che è roba vecchia di secoli e rimasticata), dall’altro della estero(anglo)-filia radicata al punto da indurci a masochisticamente cibarci dei rifiuti altrui, facendo finta che siano prelibatezze.   Il regime concorrenziale scatenato dalla «autonomia scolastica» (legge Bassanini 59/1997) ha fatto da volano allo strumentario d’importazione e lo ha amplificato fino al parossismo nella frenetica rincorsa dei singoli istituti ai finanziamenti, alle iscrizioni, al procacciamento di clientela mediante le attrazioni esibite nei PTOF.    Il modello pedagogico puerocentrico ha programmaticamente smantellato la didattica trasmissiva classica fondata – come dice il nome – sulla trasmissione delle conoscenze nelle diverse discipline di studio, ciascuna delle quali possiede un proprio statuto epistemologico.    Enfatizza il metodo a scapito dei contenuti, per cui la conoscenza accumulata, la cultura ereditata, tutto ciò che ci parla dal passato, è visto come una zavorra da cui emanciparsi; quanto richieda un minimo di esercizio intellettuale (e anche fisico: come tipicamente la scrittura a mano) e di sforzo attentivo/mnemonico/raziocinante è ascritto alla fattispecie della tortura e bandito, perché domina la fede che il puer vada intrattenuto, divertito, gratificato.    Come dicevamo, inoltre, si ipostatizza l’ambiente: si capisce allora come oggi questo ambiente, proprio per stare al passo con i tempi, debba essere integralmente ristrutturato in modalità digitale. Ed ecco spuntare l’ambiente on life (con un simpatico calco orwelliano della locuzione on line, che assume ufficialmente la preminenza sulla dimensione della realtà), detto anche «eduverso» o, ammiccando alla retorica green, «ecosistema di apprendimento».   La metamorfosi tecnoambientale cui stiamo assistendo non è altro, quindi, che il precipitato di quella pedagogia – di quella «religione» – predicata e liturgicamente celebrata da una casta di bramini – gli «esperti», i conoscitori delle leggi interiori ai quali tutti debbono inchinarsi – che ha fornito il supporto teorico, si può dire «mistico», al sovvertimento del senso stesso della scuola: non per nulla lo spostamento del baricentro dal docente al discente – dalle discipline all’ambiente, dalla cultura alla natura, dalle lezioni cosiddette frontali ai laboratori interattivi – è presentato come «rivoluzione copernicana» e vidimato col timbro della scientificità.

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Un timbro farlocco, ma pur sempre munito di una potente carica intimidatoria, tant’è che la più parte dei docenti ha sviluppato verso questa pseudo-scienza e verso i suoi sacerdoti un malcelato complesso di inferiorità, e accetta supinamente, in una postura di sudditanza quando non in modalità suicidaria, dei veri e propri rituali di auto-umiliazione.    Basti vedere come è strutturata oggi la formazione dei docenti e i corsi mortificanti che sono loro inflitti. Basti vedere come è concepito il loro stesso sistema di reclutamento: oggi non si seleziona più in base alla preparazione nelle rispettive materie di pertinenza, la selezione è completamente svincolata dalle discipline.   Come scrive Enrico Rebuffat, «nei concorsi pubblici per la scuola, la prova scritta è sempre stata disciplinare: concorrevi per matematica, il tuo scritto concerneva la matematica; partecipavi per filosofia, il tuo scritto era una prova di filosofia. Pareva logico, pareva naturale. Oggi, con i concorsi “PNRR” 2023 e 2024, non più. La prova scritta, adesso, non è disciplinare nel preciso senso che non ha nulla a che fare con la disciplina per cui il candidato concorre». Essa consiste in un quiz di 50 domande a risposta multipla, estratte da un database unico per tutte le classi di concorso, da sostenere al computer e così strutturato: 10 quesiti di ambito pedagogico; 15 quesiti di ambito psicopedagogico; 15 quesiti di ambito metodologico-didattico; 5 quesiti sulla conoscenza della lingua inglese al livello B2; 5 quesiti sulle competenze digitali» (3).    Ne discende che può benissimo spuntarla l’ignorante chi si è ricordato, o ha azzeccato a caso, il nome di un software, o il cognome di un pedagogista, o il numero di una circolare sull’inclusione, e rimanere al palo il candidato preparatissimo nella sua materia che ha piazzato la croce nella casella sbagliata. «Il che – conclude Rebuffat – sarà forse moderno e innovativo, ma di sicuro è semplicemente assurdo».    Assurdo sì, ma per nulla casuale: questa procedura stravagante non può che garantire, come effetto solo apparentemente collaterale, il tracollo di qualità di un corpo insegnante già in buona parte squalificatosi da sé o perché incapace, o perché rassegnato e obbediente a un sistema in cui tutto deve essere intermediato, proceduralizzato, de-teorizzato e despiritualizzato, svuotato dell’essenza: il grosso del lavoro è già stato fatto e proprio per questo ora bisogna eliminare capillarmente e con ogni mezzo, se necessario anche attraverso la repressione, qualsiasi residua velleità di insegnare davvero e di instaurare con gli allievi un rapporto fecondo finalizzato alla tradizione della conoscenza.    Del resto, era l’estate del 2022 quando l’allora ministro Bianchi, al convegno organizzato dall’Aspen Institute a Venezia, usò un verbo eloquente che sollevò pure qualche polemica: «in 4/5 anni dobbiamo riaddestrare 650.000 insegnanti per andare incontro a un insegnamento adeguato al futuro digitale».   Dunque, attraverso tante vie convergenti, tutte sempre lastricate di belle parole, la scuola ha potuto trasformarsi nel luogo elettivo di propagazione dell’ignoranza e, insieme, in un succulento terreno di conquista per piazzisti, imbonitori e predatori di ogni risma. Perché, se la si svuota della sostanza culturale durevole, solida, cementata nel tempo – a partire dal primo elemento costitutivo, «atomico», di questa sostanza, ovvero il linguaggio (che è simbolo: anche la matematica è un linguaggio) – allora lo spazio che si crea può essere riempito con ciarpame assortito: progetti, attività, effetti speciali; millemila «educazioni» (sessuale, affettiva, alimentare, sanitaria, stradale…).    Ma cosa sono queste educazioni? Sono variopinte catechesi su contenuti pre-pensati e prescrittivi (vedi Agenda 2030) con la funzione di introiettare, nel vuoto pneumatico, pseudo-valori moraleggianti, schemi comportamentali conformi, automatismi mentali senza pensiero trasportati da slogan che riproducono i codici linguistici e i suoni ritmati della grancassa mediatica.    In modo che il rumore sia sempre lo stesso dappertutto, fuori e dentro la scuola. Scrive Giovanni Carosotti: «Un tempo la scuola faceva argine agli atteggiamenti anti-culturali, impediva ad essi e al linguaggio in cui si manifestavano di essere legittimati nella sfera “alta” del sapere. Oggi, invece, paradossalmente, è chiesto agli stessi docenti di adeguarsi a quelle forme espressive» (4).   Il colpo da maestro è che a rottamare la conoscenza sono chiamati proprio coloro che, per mandato professionale se non proprio per vocazione, dovrebbero insegnarla – e il dramma è che i più questo compito se lo intestano felici.   Ma, oltre all’imbarbarimento ubiquo, oltre all’istituzionalizzazione dell’abbruttimento, questa sostituzione di contenuti (un aliud pro alio) provoca un’altra conseguenza di non poco conto: che chi, eventualmente, canti fuori da quello spartito unico – magari perché pensa – può essere ufficialmente ritenuto un deviato. La scuola presentata al pubblico come regno dell’«inclusione», in realtà è esclusiva nel senso deteriore del termine. Perché quando l’alfabetizzazione, l’istruzione, il contegno teoretico sono messi da parte, quando i saperi si dissolvono lasciando il posto a frammenti comportamentali che ossessivamente rincorrono la propaganda, allora si genera un inquietante fenomeno di clonazione cerebrale collettiva e si imbocca una preoccupante deriva autoritaria.    Gli effetti concreti della diffusione nelle scuole italiane di questa ricetta esotica sono notevoli.   Sempre più scolari approdano alle superiori senza saper impugnare una penna, senza saper scrivere in corsivo, senza essere in grado di articolare una frase minima grammaticalmente corretta e munita di senso compiuto; di comprendere il significato di parole eccedenti un corredo sempre più misero, e sempre più squallido. Non sanno afferrare periodi complessi; usare modi verbali diversi dall’indicativo e tempi diversi da presente o passato prossimo; distinguere un soggetto da un predicato, un aggettivo da un pronome; virgole e punti sparsi a sentimento, i due punti e i punti e virgola caduti in desuetudine.    Non sanno dare una struttura ai propri discorsi, e prima ancora ai propri i pensieri. Sono di fatto condannati al mutismo e alla sordità, con tutta la frustrazione che questo comporta, perché la comunicazione con i propri simili resta anchilosata nella brachilogia e nella iconografia dei social.   L’italiano letterario è diventato una lingua straniera, la geografia e la storia sono ufficialmente abolite, la matematica non va oltre i test a crocette. Prova ne sia che solo una piccola percentuale di matricole all’università, in una prova propedeutica all’esame di analisi matematica, si è dimostrata in grado di risolvere problemi di aritmetica tratti dai libri di quarta elementare del secolo scorso. Prova ne sia che comporre un testo scritto organico e coerente, senza svarioni di ortografia o di sintassi e con una punteggiatura sensata, è sovente un’impresa ardua per un laureato in lettere o in giurisprudenza.   Non che certe carenze – sarebbe più appropriato definirle voragini – inibiscano il taglio di traguardi formalmente ambiziosi, no. Un diploma non si nega a nessuno, in nome di quel dogma, del «successo formativo», che per essere rispettato si è dovuto tramutare in diritto: il degrado della scuola intesa come luogo di formazione culturale e umana va a braccetto, in una dinamica solo in apparenza paradossale, con un tripudio di titoli appariscenti. Il diritto all’istruzione, oggi, ha il significato di diritto a un diploma (e il diploma è una patacca), non certo a un percorso di studi serio e qualificante. 

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E qui si annida un altro paradosso: mentre si cavalcano pretese esigenze di svecchiamento, di inclusività e di egualitarismo avverso una tradizione educativa etichettata come elitaria, discriminatoria, obsoleta, si oscura un’evidenza che tanto bene esprimeva Gramsci quando nei suoi Quaderni definiva il progressismo pedagogico un mezzo di conservazione dello status quo funzionale alla divisione della società in caste. Il perché è chiaro: esso rompe l’ascensore sociale che dovrebbe essere compito primario, essenziale, della scuola pubblica far funzionare.    Elemento chiave di questa inarrestabile agonia della scuola è il mito della «personalizzazione», il cui potenziale distruttivo si disvela oggi pienamente – come vedremo – a contatto con la cosiddetta transizione digitale.   A proposito di personalizzazione, è opportuno aprire una breve parentesi sui bisogni educativi speciali (BES in acronimo), che stanno alla base dei piani didattici personalizzati. Quello dei BES è un universo molto frastagliato. A parte le disabilità vere e proprie, disciplinate dalla legge 104/92, lo spettro dei BES va dai DSA (dislessia, discalculia, disgrafia, disortografia), alle sindromi d’ansia, all’iperattività, al deficit di attenzione, agli svantaggi linguistici, sociali o economici, eccetera: fatto sta che tutte queste situazioni, tra loro molto eterogenee, sono suscettibili di essere certificate e, sulla base della certificazione, di dare luogo a percorsi scolastici personalizzati.   La legge 170/2010 con i DSA ha creato un concetto equivoco: dice che essi si manifestano «in presenza di capacità cognitive adeguate, in assenza di patologie neurologiche e di deficit sensoriali», epperò sono denominati «disturbi» e devono essere «diagnosticati» (o dal SSN o, eventualmente, da strutture o specialisti accreditati, a pagamento).   La diagnosi dà diritto a due ordini di misure: quelle cosiddette «dispensative», con cui si semplificano i programmi per alleggerire un carico giudicato nel caso specifico troppo gravoso; e quelle «compensative», che consistono nel fornire dei supporti per compensare le prestazioni carenti (per lo più supporti tecnologici: ad esempio calcolatrice per i discalculici, tablet per i disgrafici, smartpen per i dislessici, e poi app per sintesi vocali, software per costruire mappe concettuali, schemi, formulari).    Ciò che qui interessa rilevare è come il fenomeno delle certificazioni (e dei piani personalizzati che ne scaturiscono) sia andato via via gonfiandosi fino a esplodere, addirittura ribaltando il rapporto da regola a eccezione: sono sempre di più le classi in cui gli alunni certificati e muniti di un programma individuale sono diventati la maggioranza, alcune volte la totalità. Insomma, è nata una moda e, con essa, un floridissimo commercio di certificazioni ormai in buona parte standardizzate – perché una diagnosi non si nega a nessuno – che non di rado pasce piccoli despoti alle cui spalle stanno famiglie disposte a tutto pur di facilitarsi la vita assicurando al figlio un carico di lavoro alleggerito, interrogazioni pianificate, promozioni in scioltezza.    È strano? No, non è strano. È conseguente al (dis)ordine delle cose.   Il dettato della legge 170, con la sua ambiguità, lascia ampio margine alla fantasia e quindi all’arbitrio. E l’arbitrio galoppa proprio perché si è incistata nella mente del genitore collettivo e del docente collettivo l’idea che, siccome la scuola va personalizzata addosso allo studente, è necessario e giusto metterlo sotto la lente di ingrandimento dell’esperto per scovare i suoi (presunti) limiti, che vanno fotografati in una certa fase (a caso) della sua crescita, e congelati, tipizzati, medicalizzati; sul presupposto (che è un presupposto apodittico: tra le righe lo ammette lo stesso ISS) che qualsiasi peculiarità (o «divergenza», come piace chiamarla) abbia una eziologia organica, una base genetica, e quindi un che di connaturato.   Ciò spesso porta sia a trascurare la ricerca di possibili altre cause o concause dello svantaggio, che magari è risolvibile altrimenti, sia a oscurare un fatto notorio: che il cervello è un organo plastico capace, attraverso stimoli appropriati, di modellarsi e ristrutturarsi, anche se anziano. Figuriamoci in giovane età.    Epperò se un ostacolo, invece che qualcosa da superare mettendo in campo tutte le proprie migliori risorse, diventa per principio qualcosa da rimuovere onde evitare sforzi e frustrazioni, il rischio in agguato è che i punti deboli di quel soggetto in crescita si cristallizzino, si cronicizzino (ora per giunta restino fissati nella memoria indelebile delle banche dati) e le sue potenzialità, non adeguatamente stimolate, si deprimano; che resti inchiodato ai suoi (supposti) limiti, mentre magari si sta solo accarezzando la sua incostanza, pigrizia, malavoglia (del tutto fisiologiche a quell’età!).    Non solo. Il trattamento su misura, o spacciato come tale, esaspera la frammentazione della classe – che invece è un micromondo integrato e dinamico, in cui nel tempo si prende e si dà, le velocità mutano e gli equilibri si riaggiustano – e così sgretola l’essenza stessa della scuola.   Provocatoriamente, Giorgio Israel aveva riformulato l’acronimo DSA in DSI, Disturbi Specifici di Insegnamento: se non si insegna più a tempo debito a scrivere, a leggere, a fare i conti, e non si raggiungono quelle abilità di base che, per svilupparsi, richiedono tecnica ed esercizio, parecchio e anche un po’ noioso (e c’è una precisa finestra temporale predisposta dalla natura per acquisirle), è abbastanza logico che si incrementino le fila dei disgrafici, disortografici, dislessici, discalculici.    Come si accennava, la personalizzazione, con la svolta terapeutica che le è collegata, è il gancio perfetto per le nuove tecnologie. Esse, come si è visto, sono copiosamente impiegate come supporti compensativi. Ma non solo. A supervedere e gestire il percorso dello studente – quello ipo-normo-iper-dotato (o suppostamente tale) – sarà ora l’intelligenza artificiale.    Ciò implica che tutta la messe di dati, metadati e anche psico-dati (perché, nel delirio tecnofideistico, si dà per assunto che pure i tratti caratteriali siano misurabili, matematizzabili, e quindi malleabili), tutto questo «bottino» venga dato in pasto alla megamacchina affinché essa segua algoritmicamente la biografia socio-cognitiva di ogni studente restituendogli il suo identikit digitale, e anche la sua proiezione futura: ogni fase del percorso, scolastico ed extrascolastico, viene scansionata e il file che ne esce alimenta un avatar destinato a seguirlo come un’ombra e a sostituire la sua identità: non sarai più tu ma il flusso di dati che produci a diventare rilevante, per esempio, in una domanda di accesso a un’università o di lavoro.    L’operazione è venduta come una occasione per poter «cucire addosso» a ciascuno interventi mirati che prevengano insuccessi o esaltino eccellenze. Come sempre, il veleno viene incartato dentro la caramella, in modo che il genitore si convinca che la radiografia precoce e continuata del figlio serva a farlo crescere meglio, in modo, appunto, personalizzato. E consegna felice le chiavi della propria casa, della propria vita e della propria intimità.   Agitare dentro lo stesso barattolo i due mantra, della personalizzazione e della digitalizzazione, sta generando mostri che non siamo più capaci di domare e che si materializzano ovunque intorno a noi, specie da quando l’agenda digitale – che pure affonda le sue radici lontano – ha subìto un’accelerazione furibonda col Piano scuola 4.0 apparecchiato grazie al laboratorio della pandemia.

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È stata l’emergenza sanitaria a rendere possibile un effetto catapulta, realizzando in unica soluzione un salto nella distopia che altrimenti avrebbe richiesto tempi ben più dilatati e, forse, avrebbe conosciuto qualche salutare intoppo. Perché la fretta ha il potere di azzerare il tempo della riflessione e nel paradigma dell’emergenzialismo per definizione non c’è spazio per la democrazia e le sue procedure.    Duccio Chiapello scrive: «Ci spacciano per destino un disegno di “transizione” della scuola, i cui veicoli ben conosciamo: il PNRR, la scuola 4.0 e tutti gli annessi e connessi digitali. Questi veicoli sono tutti presentati come “ultimi treni”: presto, salite a bordo, i fondi vanno spesi entro dicembre, i progetti vanno attivati entro marzo, gli esperti esterni devono intervenire entro maggio. Ci viene chiesto, in sostanza, di fare quello che normalmente non faremmo mai: saltare su un treno in partenza per il solo fatto che sta partendo, senza che la destinazione sia resa nota; dopodiché, nel corso del viaggio, ci viene continuamente intimato di gettare dal finestrino una parte sempre maggiore dei nostri bagagli – i contenuti disciplinari, le conoscenze, la cultura classica, il pensiero astratto – così da consentire al treno di procedere alla massima velocità» (5).   La pandemia è stata il movente di un esperimento psicosociale dalla durata indefinita – in quanto rimessa a decisioni sempre modificabili, e infatti di giorno in giorno modificatee quindi psicologicamente vissuta come permanente. Abbiamo assistito, a danno dei nostri figli, a un esercizio continuato di bullismo istituzionale che si è espresso in vessazioni variamente demenziali, ma ha avuto il suo cuore nell’isolamento sine die, pretesto per organizzare la transumanza di massa nella cosiddetta «società senza contatto».   Questo esperimento è stato devastante per i più giovani, sia sul piano psicofisico sia sul piano cognitivo. Ne sono usciti grandemente sofferenti, schiavi dei dispositivi informatici, arrugginiti e inselvaggiti, contenitori ambulanti di ordigni inesplosi: un corposo report dell’UNESCO (dell’UNESCO, non dei complottisti) pubblicato nel novembre 2023 (di 650 pagine) si intitola significativamente An ed tech tragedy   Ma lo si sapeva bene. Nel 2019, quindi ancora in era pre-COVID, la VII Commissione del Senato della Repubblica aveva congedato un documento – che lo stesso ministro Valditara allegò a una nota (prot. 107190) inviata a tutte le scuole italiane il 19 dicembre 2022 – dal titolo Sull’impatto del digitale negli studenti, con particolare riguardo ai processi di apprendimento, sintesi di letteratura ed esperienza consolidate. Dove si parlava dei danni fisici. Dei danni psicologici. Della perdita di facoltà mentali essenziali. Dove si affermava testualmente che il digitale sta decerebrando le nuove generazioni. Perché inibisce sul nascere, o atrofizza, funzionalità biologiche radicate, esternalizzandole in un prolungamento artificiale del corpo, che funziona come una vera e propria protesi, tanto che privarsene è come subire l’amputazione di un arto; del resto, gli algoritmi sono programmati per adescare l’utente, catturarlo e tenerlo avvinto in ostaggio il più a lungo possibile – a conferma del fatto che questi aggeggi non sono «strumenti» e bisognerebbe smetterla di chiamarli così: perché allo strumento è coessenziale la nota della neutralità.   Infatti, nella relazione della Commissione si legge anche che essi hanno «le stesse, identiche, implicazioni chimiche, neurologiche, biologiche e psicologiche della cocaina». Tant’è che nel mercato statunitense gira questa tavoletta inerte con le fattezze dell’iPad ma senza connessione, chiamata «metadone tecnologico». Non è uno scherzo.    La scuola digitale in sfolgorante carriera non fa che fomentare questa dipendenza morbosa, la istituzionalizza, istigando i più giovani alla connessione perpetua e offrendo loro un alibi fisso per giustificarla. Che i dispositivi funzionino da idrovore di dati personali, da profilatori permanenti, da braccialetti elettronici per genitori elicottero e altri elicotteri non genitori, da spacciatori di spazzatura che fluttua sul web, pazienza: ciò che importa, evidentemente, è fare della scuola pubblica una sterminata mangiatoia per nutrire la più importante industria al mondo di estrazione di dati, EdTech: «se i dati sono il nuovo petrolio, la scuola è il nuovo Texas».    Una pletora di aziende private (che fanno capo a una manciata di colossi militar-industriali) si è assicurata la disponibilità di una immensa distesa di materiale umano da scrutare, da dare in pasto alle banche dati, da assoggettare agli automatismi degli algoritmi. E, grazie alla capillare attività di spionaggio, esse schedano gli spiati e ora predicono anche il loro destino, e lo fanno in modo del tutto opaco, non controllabile, non riproducibile – ovviamente, a proprio uso e consumo.    Si punta a influenzare il futuro dei soggetti in crescita affidandolo ai vaticini della Pizia sintetica ben sapendo – è noto dalla notte dei tempi – che le profezie tendono ad autoavverarsi (oggi lo chiamano anche «effetto pigmalione»): di fronte a un’etichetta appiccicata o a un oracolo sputato fuori dalla macchina che ha fatto il suo frullato di dati, uno si convince davvero di essere il tipo umano riportato sull’etichetta, o di dover diventare quell’altro stabilito dall’oracolo.    I test standardizzati INVALSI, quelli che erano stati presentati al pubblico come strumento anonimo di monitoraggio del sistema scolastico, si sono palesati come un appuntito mezzo di sorveglianza e di schedatura individuale, fino ad assumere un valore «predittivo e diagnostico». Nell’ingranaggio INVALSI è stato introdotto, per esempio, l’indicatore di fragilità: un bollino che viene assegnato, algoritmicamente e insindacabilmente, agli allievi che nei test non raggiungono livelli ritenuti adeguati, col pretesto che ciò consentirebbe di prevedere precocemente il rischio di abbandono scolastico. E INVALSI ora indaga, sempre algoritmicamente, anche le cosiddette competenze non cognitive (le soft skills: tipo amicalità, coscienziosità, stabilità emotiva, apertura mentale) – gli psicodati, appunto – sempre al fine di poter intervenire tempestivamente a manipolarli.    Ancora. A decorrere dall’anno scolastico 2023/2024, il curriculum del singolo studente è integrato nell’e-portfolio: una specie di scatola nera che ognuno, volente o nolente, si ritrova confezionata addosso, d’ufficio, e gli resta incollata ad vitam æternam. E che contiene le specifiche di tutta la sua carriera: carriera scolastica (voti, esiti di prove a crocette e altre prestazioni estemporanee, certificazioni varie, sentenze di orientamento pronunciate da uno che passa di là e che, siccome ha vinto alla lotteria il patentino di orientatore dopo alcune ore di corso on line, ha il potere di decidere della tua vita) e anche carriera extrascolastica.   Cioè, l’occhio del grande fratello non si accontenta di sorvegliarti a scuola, vuole sapere cosa fai anche nel tuo tempo libero che non è più libero, perché il fatto che entri anch’esso nel tuo curricolo digitale indelebile fatalmente condizionerà le tue scelte quotidiane sottraendole al motore umano della spontaneità e dell’intuito. Non solo: chi avrà i mezzi per farlo, acquisterà punti per il portfolio rimpinzandolo di viaggi, corsi, vacanze-studio, certificazioni linguistiche. A proposito di divisione in caste.   Intanto più giovani si assuefanno a subire una sorveglianza diacronica e ubiquitaria, al punto da assumere inconsapevoli automatismi comportamentali (una riflessione a parte la meriterebbe il monstrum del registro elettronico, presenza occhiuta e invadente che deresponsabilizza e falsa i rapporti tra l’alunno e la scuola, tra lui e la famiglia, tra la scuola e la famiglia). Si abituano a cedere passivamente i propri dati personali come corrispettivo di qualsiasi servizio. Hanno insomma interiorizzato una concezione carceraria dell’esistenza, nell’illusione – magistralmente alimentata con tanti specchietti per allodole – di essere sommamente liberi. Vivono dentro un panopticon ma non se ne rendono conto, realizzando appieno l’idea rousseauiana secondo la quale «non c’è assoggettamento più perfetto di quello che conserva le apparenze della libertà». 

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Dunque, per concludere. L’infrastruttura capillare (quella che appariva innocua) allestita lungo decenni di riforme mirate, serviva a due scopi concorrenti, e tra loro interdipendenti. Serviva: 1) a interrompere la catena di trasmissione del sapere togliendo di mezzo chi sappia e possa provvedere a mantenerla integra, e in tal modo a lasciar deteriorare, e morire, un tessuto culturale e spirituale più che due volte millenario, e 2) a fare incetta di informazioni di vita, di morte e di miracoli, su ciascun individuo, dall’asilo in poi, sulle sue prestazioni e le sue abitudini, i suoi profili caratteriali e le sue fragilità, in modo che tutto sia risucchiato e immortalato nel buco nero delle banche dati, a prescindere dalla volontà dei titolari. Quelli ai quali, peraltro, viene fatta una testa così sulla tutela della privacy.   Il puerocentrismo su cui emotivamente si fa perno, con straordinario successo di pubblico, si è rivelato la formula ideale per demolire ab imis il sistema della conoscenza; allo stesso tempo, a contatto con la tecnolatria, che è la superstizione del nostro tempo, si tramuta in un sinistro e fagocitante tecnocentrismo (6)   Già Mc Luhan, ne La luce e il mezzo ci diceva in tempi non sospetti, con stupefacente preveggenza, come l’uomo si stesse progressivamente autosostituendo con qualcosa di altro da sé. Oggi, il soggetto dell’apprendimento non è più l’uomo, è la macchina: il principio di utilità della tecnica si è ribaltato, in primis in scuola e università, in quello di utilità per la tecnica.   Le macchine aspirano tutto quello che trovano in giro, lo ruminano e lo risputano fuori, a caso, ottenendo in cambio dagli uomini cieca devozione. Gli uomini, dal canto loro, non più nutriti alle fonti della conoscenza, lasciati a rimbambire nelle sale giochi, crescono incolti e invertebrati. Privi delle risorse necessarie per padroneggiare le macchine, si autorelegano in una posizione di minorità, nella convinzione balorda, che è stata loro inculcata con metodo, che esse li surclassino per efficienza, oggettività di analisi, velocità di esecuzione. Fino a sottomettere se stessi e il proprio destino alle loro prestazioni e ai loro vaticini.   Ma se io uso l’algoritmo (cioè: consulto la Sibilla) per decretare se sarai un bravo studente e poi un lavoratore di successo, oppure un asino per sempre, e per segnare il tracciato in cui devi incanalarti nella vita, io ti impedisco di essere artefice del tuo futuro, ti tratto come una cosa. Consegno le tue sorti alla magia.    Eppure, chiunque abbia avuto a che fare con un soggetto in crescita sa bene come cambi taglia d’improvviso, come basti un niente per accendere una scintilla, per suscitare una passione o provocare una svolta. Come ogni scivolone sia una medaglia al valore, e possa aprire la strada a conquiste preziose. Come il tempo lungo della maturazione non sia mai lineare, mai prevedibile né replicabile, e in questo risieda la sua infinita ricchezza.    Sa bene come le vocazioni si disvelino a contatto con gli imprevisti della vita, intercettando eventi incrociatori che nessun orientatore per caso può immaginare e nessun algoritmo potrà mai calcolare.   Ed è folle – direi anche criminale – lasciare che una stupida macchina interferisca con questo flusso meraviglioso e gli imponga una traiettoria.   Ognuno ha diritto di fallire una batteria di test per scimmiette addestrate; ha diritto di cascare e di rimettersi in piedi; di costruire pian piano con pazienza la propria bussola interiore, alla faccia di orientatori che spuntano ovunque come funghi. Ha il diritto all’oblio dei propri errori, perché sono proprio quegli errori che servono a svegliarlo fuori e a farlo diventare grande. Ha diritto a che il mondo non scruti nelle pieghe del suo passato, che è rodaggio alla vita, perché il mestiere del giovane è proprio quello di imparare. Per questo, egli ha anche il sacrosanto diritto di potersi misurare con cose difficili, complesse, impegnative, perché la vera autostima si conquista così, superando sé stessi per raggiungere traguardi magari impensati. 

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Dappertutto si sente ripetere ad nuseam il ritornello che la tecnologia non si può fermare, è qui per rimanere, la sua cavalcata è inevitabile. E che, allora, occorre educare fin da bambini all’“uso consapevole”. Che – lo abbiamo visto – equivale a dire: drògati, ma fallo in modo consapevole.    E però, oltre ad essere fallimentare per l’apprendimento, abbiamo anche visto che l’uso precoce della tecnologia produce danni enormi e permanenti, e questi danni noi li abbiamo drammaticamente sotto i nostri occhi. Se è così – ed è così – allora la filastrocca della inevitabilità equivale ad ammettere che abbiamo creato un mostro che ghermisce i nostri figli ma ormai vive di vita propria, o – detta altrimenti – che abbiamo aperto il vaso di Pandora, abbiamo perso il coperchio, ma amen, lasciamolo aperto e restiamo a guardare l’effetto che fa. Avvitàti come siamo in una spirale di irresponsabilità e di infantilismo transgenerazionale che ci sta inabissando, senza freni, dentro una nuova primitività e una inedita forma di schiavitù.   Il seme della libertà è custodito dentro il ben di dio di cose umane – di esperienza, memoria, pensiero e arte – sul quale siamo seduti. Non per nulla lo vogliono far seccare – sia mai che più di qualcuno si accorga dell’impostura in atto. Ma per portare in salvo quel ben di dio, il patrimonio culturale e spirituale edificato in migliaia di anni, occorre poterlo consegnare nelle mani di chi abbia gli strumenti per riceverlo, farlo proprio e tramandarlo a sua volta.   Ecco perché la scuola pubblica – che è uno spazio sacro, dove si impara e si cresce, e si impara a crescere – va salvata dalle assurdità e dalla bruttezza che la stanno travolgendo e va restituita ai suoi abitatori legittimi, bonificata dall’artificio, protetta dai predatori. Affinché possa recuperare il suo statuto, il suo senso e la sua dignità.  Se questa sia una missione possibile o impossibile, non è facile dirlo, ma non è neppure dirimente saperlo: ci è toccata in sorte una responsabilità epocale di cui abbiamo semplicemente il dovere di farci carico, sia come singoli sia come collettività; sia nell’oikos, sia nella polis. Quella di salvare i saperi per salvare la scuola, o viceversa, perché l’espressione è palindroma.    Elisabetta Frezza   NOTE 1) In Salvare i saperi per salvare la scuola, a cura di Elisabetta Frezza, Il Cerchio, 2025; intervento di Fausto Di Biase. 2) E.D. Hirsch jr, Le scuole di cui abbiamo bisogno e perché non le abbiamo, Petite Plaisance, 2024. 3) In Salvare i saperi per salvare la scuola, cit. 4) Ibid.; intervento di Giovanni Carosotti. 5) Ibid.; intervento di Duccio Chiapello. 6) Ibid.; intervento di Stefano Isola.

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Pensiero

Se la realtà esiste, fino ad un certo punto

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I genitori si accorgono improvvisamente che la biblioteca scolastica mette a disposizione degli alunni strani libri «a fumetti» dove si illustra amabilmente il bello della liaison omoerotica.

 

L’intento degli autori è inequivocabile, quello di presentare un modello antropologico indispensabile per una adeguata formazione dell’individuo in crescita… Meno chiaro appare nell’immediato se la scuola, nel senso dei suoi responsabili vicini o remoti, di questa trovata educativa abbiano coscienza e conoscenza.

 

Di istinto, i genitori dell’incolpevole alunno si chiedono se tutto ciò sia proprio indispensabile per uno sviluppo armonico della psicologia infantile, magari in sintonia con i suggerimenti più elementari della natura e della fisiologia.

 

Tuttavia, poiché anche lo zeitgeist ha una sua potenza suggestiva, a frenare un po’ il comprensibile sconcerto, in essi affiora anche qualche dubbio sulla adeguatezza culturale dei propri scrupoli educativi, tanto che sono indotti a porsi il dubbio circa una loro eventuale inadeguatezza culturale rispetto ai tempi, votati come è noto, a sicure sorti progressive.

 

Ma il caso riassume bene tutto il paradosso di un fenomeno che ha segnato questo quarto di secolo e soltanto incombenti tragedie planetarie, mettono un po’ in sordina, finché dagli inciampi della vita quotidiana esso non riemerge con tutta la sua inaspettata consistenza.

 

Infatti la domanda sensata che si dovrebbero porre questi genitori, è come e perché una anomalia privata abbia potuto meritare prima una tutela speciale nel recinto sacro dei valori repubblicani, per poi ottenere il crisma della normalità e quindi quello di un modello virtuoso di vita; il tutto dopo essersi insinuata tanto in profondità da avere disattivato anche quella reazione di rigetto con cui tutti gli organismi viventi si difendono una volta attaccati nei propri gangli vitali da corpi estranei capaci di distruggerli.

 

Eppure, per quanto giovani possano essere questi genitori allarmati, non possono non avere avvertito l’insistenza con cui questa merce sia stata immessa di prepotenza sul mercato delle idee, quale valore riconosciuto, dopo l’adeguata santificazione dei cultori della materia ottenuta col falso martirio per una supposta discriminazione. Quella che già il dettato costituzionale impediva ex lege.

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Ma tutta l’impalcatura messa in piedi intorno a questo teatro dell’assurdo in cui i maschi prendono marito, le femmine si ammogliano nelle sontuose regge sabaude come nelle case comunali di remote province sicule, non avrebbe retto comunque all’urto della ragione naturale e dell’evidenza senza la gioiosa macchina da guerra attivata nel retrobottega politico con il supporto della comunicazione pubblica e lasciata scorrazzare senza freni in un mortificato panorama culturale e partitico.

 

Nella sconfessione della politica come servizio prestato alla comunità, secondo il criterio antico del bene comune, mentre proprio lo spazio politico è in concreto affollato da grandi burattinai e innumerevoli piccoli burattini, particelle di un caos capace di tenere in scacco «il popolo sovrano». Una parte cospicua del quale si sente tuttavia compensato dalla abolizione dei pronomi indefiniti, per cui tutte e tutti possono toccare con mano tutta la persistenza dei valori democratici.

 

Non per nulla proprio in omaggio a questi valori è installato nella anticamera della presidenza del Consiglio, da anni funziona a pieno regime un governo ombra, quello terzogenderista dell’UNAR. Un ufficio che ha lavorato con impegno instancabile, e indubbia coerenza personale, alla attuazione del «Piano» (sic) elaborato già sotto i fasti renziani e boschiani, per la imposizione capillare nella società in generale e nella scuola in particolare, di tutto l’armamentario omosessista.

 

Il cavallo di battaglia di questa benemerita entità governativa è la difesa dei «diritti delle coppie dello stesso sesso», dove sia il «diritto», che la «coppia» hanno lo stesso senso dei famosi cavoli a merenda.

 

Ecco dunque un esempio significativo ed eccellente di quella desertificazione della politica per cui il governo ombra guidato da interessi particolari in collaborazione e in sintonia con centri di potere radicati in istituzioni sovranazionali, possa resistere ad ogni cambio di governo istituzionale senza che ne vengano disinnescati potere e funzioni.

 

I partiti, dismessi gli apparati ideologici, e omogeneizzati nella sostanza, sono ridotti a «parti», alla moda di quelle fiorentine che pure un qualche ideale di fondo ce l’avevano, anche se tutte si assestavano su un gioco di potere.

 

Qui prevale il gioco dei quattro cantoni, dove tutti sono guidati dall’utile di parte che coincide a seconda dei casi con l’utile politico personale o ritenuto tale. Un utile calcolato tra l’altro senza vera intelligenza politica ovvero senza intelligenza tout court. Anche chi si è abbigliato di principi non negoziabili, alla bisogna può negoziare tutto, perché secondo il noto Principio della Dinamica Politica, «Tutto vale fino ad un certo punto».

 

Tajani, insieme a Rossella O’Hara ci ha offerto il compendio di tutta la filosofia occidentale contemporanea. Quindi dobbiamo stare sereni. Ma i genitori attoniti devono comprendere che quei libretti e questa scuola non sono caduti dal cielo. Sono il frutto di una politica diventata capace di tutto perché incapace a tutto sotto ogni bandiera.

 

Patrizia Fermani

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Scuola

Mostri nei loro barattoli e nella loro formaldeide

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Lo splendore della fede professata nel pellegrinaggio giubilare nella Città Eterna, la bellezza luminosa dei dipinti di Georges de La Tour, i sontuosi ricami delle Orsoline di Amiens, l’importanza di una cultura che non trasgredisce la natura ma la trascende, sono questi i temi di Nouvelles de Chrétienté per il nuovo anno scolastico.   Sotto un’apparente diversità, questi temi sono profondamente uniti in un’intenzione comune espressa con «vigore e chiarezza» da Padre Calmel, quando chiede agli insegnanti cristiani di aprire «i loro studenti ai valori dell’arte nelle sue diverse forme», rendendoli al contempo «capaci di una fiera indipendenza e di un bel disprezzo per tutte le anomalie, infezioni, purulenze e mostruosità, che hanno l’audacia di esigere da loro un’ammirazione complice adornandosi della realtà dell’arte e più spesso della sua apparenza».   Il frate domenicano esprime un desiderio preciso: «I mostri torneranno ai loro barattoli e alla loro formaldeide, gli scorpioni artistici reintegrano i loro buchi artistici, il giorno in cui un certo numero di esseri giovani e determinati, non certo per barbarie ma per sovrano rispetto della cultura, tratteranno con disprezzo i prodotti immondi della cultura. La cultura non ha alcun diritto contro i diritti della decenza e dell’onore».   Aggiunge: «non deve essere lontano il tempo in cui l’insidioso sofisma “onestà significa stupidità” sarà privo di ogni credibilità, perché sarà diventata chiara la prova che ciò che è normale è bello e che, in una civiltà degna di questo nome, l’intelligenza, la sottigliezza, la leggerezza, la finezza e l’arte marciano di concerto con l’onestà, la santità, il rifiuto inflessibile dei veleni e delle ignominie. La scuola cristiana deve affrettare l’arrivo di questi tempi di libertà». (Ecole chrétienne renouvelée, cap. XXIX, tre sensible en chrétien aux valeurs d’art, pp. 188-189, ed. Téqui)   Padre Calmel scrisse queste potenti righe alla fine degli anni ’50, lontano dal wokismo, dalla cultura della cancellazione, dello sradicamento e dell’incoscienza… E si aspettava che le suore, autentiche insegnanti, avessero «idee non solo corrette, ma idee che cantano dentro [di loro] e che incantano [i loro] piccoli alunni», per «comunicare loro una verità canterina e germinante». (Ibid., pp. 129 e 131).   È una bella frase da scrivere in cima a un quaderno, in questi giorni di ritorno a scuola!   Abate Alain Lorans   Articolo previamente apparso su FSSPX.News

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Immagine da FSSPX.News
 
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