Cina
I giganti occidentali dell’abbigliamento invertono i piani di uscita dalla Cina

I produttori globali di abbigliamento e calzature si trovano ad affrontare sfide legate allo spostamento delle catene di approvvigionamento fuori dalla Cina. Ne ha parlato la testata economica americana Bloomberg all’inizio di questa settimana, citando diversi produttori di abbigliamento e proprietari di fabbriche.
La maggior parte ha avuto difficoltà a trovare centri di produzione alternativi, alcuni addirittura hanno fatto «reshoring», cioè sono tornati a produrre in patria. I piani riguardo la manifattura dei prodotti sono stati cambiati a causa delle crescenti incertezze economiche in tutto il mondo e della debole domanda dei consumatori.
Secondo Laura Magill, responsabile globale della sostenibilità presso il marchio di calzature Bata Group, l’ecosistema maturo sviluppato in Cina nel corso di decenni garantisce prezzi competitivi e offre una qualità stabile nella produzione su larga scala che è «difficile da copiare» altrove.
All’inizio di quest’anno, vari media hanno riferito che le aziende di moda degli Stati Uniti e dell’UE hanno iniziato a riconsiderare la loro decennale dipendenza dalle fabbriche in Cina e hanno smesso di elencare il Paese come il loro principale fornitore a causa della crescente incertezza diplomatica nel contesto della guerra commerciale di Washington con Pechino.
Secondo quanto riferito, alcuni produttori hanno spostato le linee di produzione in Vietnam, Bangladesh, India, Turchia e Portogallo.
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Lin Feng, che possiede fabbriche di abbigliamento a Guangzhou e dintorni, in Cina, ha detto a Bloomberg di aver lanciato una nuova linea di produzione di abiti da donna ad Hanoi per «tastare il terreno» nel 2020.
Tuttavia, nonostante gli stipendi due volte inferiori a quelli che paga a Guangzhou, l’uomo d’affari non ha tratto alcun vantaggio dal trasloco, poiché il numero di ordini da parte di diffidenti clienti esteri è notevolmente diminuito. L’imprenditore ha quindi lasciato il Vietnam e ha spostato la sua attenzione di nuovo a Guangzhou nel 2022, poiché i suoi stabilimenti producono abiti principalmente per clienti statunitensi ed europei.
«Non ha senso parlare di espansione o di spostamenti all’estero adesso», ha detto Lin. «Con una domanda debole, il basso costo del lavoro e le esenzioni tariffarie non hanno senso».
La delocalizzazione della manifattura in Cina è l’ingrediente principale della distruzione del tessuto produttivo industriale italiano e della classe media italiana.
Tuttavia, tale realtà è taciuta dal combinato disposto della classe dei grandi industriali, che hanno tutti approfittato delocalizzando per aumentare i margini a discapito dei lavoratori italiani, e di una politica che, soprattutto in anni recenti, si è mostrata avere una contiguità inquietante con Pechino.
Di fatto, la globalizzazione altro non è che una sinizzazione dell’economia mondiale. La globalizzazione è cinese o non è. I ciclici applausi trionfali della classe manageriale globale a Xi Jinping sceso al World Economic Forum di Davos sono la prova più evidente del fatto che la Cina è un elemento fondante del mondialismo in fase di installazione definitiva.
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Cina
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Cina
COVID, blogger cristiana cinese condannata ad altri quattro anni di carcere

Una blogger cristiana cinese già condannata a quattro anni di carcere per aver documentato le prime fasi della pandemia di COVID da Wuhan è stata condannata ad altri quattro anni di carcere.
Zhang Zhan, 42 anni, è stata condannata in Cina con l’accusa di «aver attaccato briga e provocato disordini», la stessa accusa che ha portato alla sua prima incarcerazione nel dicembre 2020. L’accusa viene spesso utilizzata per perseguire i giornalisti che si esprimono contro il governo cinese o rivelano verità imbarazzanti.
Zhang ha pubblicato i resoconti di testimoni oculari di Wuhan sulla diffusione iniziale del COVID-19, compresi video, di strade vuote e ospedali affollati che dimostravano che la situazione a Wuhan era molto peggiore di quanto affermassero le autorità cinesi. I filmati della Zhanga sono stati visualizzati centinaia di migliaia di volte.
Il suo avvocato dell’epoca, Ren Quanniu, aveva affermato che Zhan credeva di essere stata «perseguitata per aver violato la sua libertà di parola». Dopo la prigionia, aveva iniziato uno sciopero della fame e fu alimentata forzatamente tramite un sondino.
Come riportato da Renovatio 21, cinque anni fa erano emerse notizie della sua cattiva salute e di una sua possibile tortura in carcere.
Era stata rilasciata nel maggio 2024. Secondo Quanniu, è stata nuovamente arrestata perché aveva commentato su siti web stranieri, tra cui YouTube e X.
🚨🇨🇳CHINA TO RELEASE JOURNALIST JAILED OVER COVID REPORTING
After spending four years behind bars for her reporting of the Covid outbreak and lockdowns in Wuhan, Zhang Zhan is set to be released today after completing her sentence.
— Kacee Allen (@KaceeRAllen) May 14, 2024
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Un portavoce del governo cinese ha dichiarato: «il caso riguarda la sovranità giudiziaria della Cina e nessuna forza esterna ha il diritto di interferire. I suoi diritti legittimi saranno pienamente rispettati e tutelati».
«Questa è la seconda volta che Zhang Zhan viene processata con accuse infondate che non rappresentano altro che un palese atto di persecuzione per il suo lavoro giornalistico», ha affermato Beh Lih Yi, direttore per l’area Asia-Pacifico del Comitato per la protezione dei giornalisti con sede a Nuova York.
«Le autorità cinesi devono porre fine alla detenzione arbitraria di Zhang, ritirare tutte le accuse e liberarla immediatamente». La Cina costituisce la prigione per giornalisti più grande del mondo. Si ritiene che attualmente vi siano detenuti oltre 100 giornalisti.
Come riportato da Renovatio 21, il nuovo processo era iniziato sei mesi fa.
Prima della pandemia di COVID, l’attivista e giornalista cristiana era già stata arrestata nel settembre 2019 per aver sfilato con un ombrello su Nanjing Road a Shanghai, in segno di solidarietà con le proteste di Hong Kong. Con le prime notizie della pandemia, si era recata a Wuhan per documentare gli eventi, pubblicando circa cento video in tre mesi e rispondendo alle domande di media internazionali. Arrestata nel maggio 2020, è stata la prima blogger a essere condannata per le informazioni diffuse sulla pandemia.
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Immagine screenshot da YouTube
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