Geopolitica
Zelen’skyj in esilio in Italia?
Il reporter premio Pulitzer Seymour Hersh da qualche giorno è entrato sulla questione delle pressioni che alcuni Paesi limitrofi starebbero mettendo su Zelens’kyj affinché questi arrivasse ad un accordo di pace.
Polonia, Ungheria, Lituania, Estonia, Cecoslovacchia e Lettonia starebbero «esortando silenziosamente Zelens’kyj a trovare un modo per porre fine alla guerra – anche dimettendosi, se necessario – e a consentire l’avvio del processo di ricostruzione della sua nazione» scrive il giornalista noto per il recente scoop sulla responsabilità della Casa Bianca dietro alla distruzione del gasdotto Nord Stream 2.
«Zelenskyj non si sta muovendo, secondo intercettazioni e altri dati noti all’interno della Central Intelligence Agency, ma sta cominciando a perdere il sostegno privato dei suoi vicini».
Vi sarebbe alla base la questione dei rifugiati ucraini nei Paesi vicini, che sarebbero cinque milioni, che hanno de facto contribuito a distruggere le frontiere di quegli Stati: «L’Ucraina, pur non essendo nell’UE, ora gode di tutti i vantaggi del patto di Schengen», nota Hersh. «Alcune nazioni, stremate dalla guerra dei 15 mesi, hanno reintrodotto alcune forme di controllo delle frontiere, ma la crisi regionale dei rifugiati non si risolverà fino a quando non ci sarà un formale accordo di pace».
Il giornalista prosegue dicendo di aver appreso settimane fa da fonti dell’Intelligence USA (quelle che gli hanno fornito scoop in più di cinquanta anni di carriera) che alcuni funzionari dell’Europa occidentale e dei Baltici sarebbero determinati a far finire la guerra, realizzando che è tempo per Zelens’kyj di trovare un accordo.
«Un esperto funzionario americano mi ha detto che alcuni dirigenti in Ungheria e Polonia erano tra quelli che lavoravano insieme per coinvolgere l’Ucraina in colloqui seri con Mosca. “L’Ungheria è un grande attore in questo, così come la Polonia e la Germania, e stanno lavorando per convincere Zelensky a cambiare idea”, ha detto il funzionario americano».
Ci sarebbe un’opzione precisa nella mente di queste persone: Zelens’kyj «esiliato» in Italia.
I leader europei hanno chiarito che «”Zelens’kyj può tenersi quello che ha” — una villa in Italia e interessi in conti bancari offshore — “se riesce a concludere un accordo di pace, anche se dovesse essere pagato, qualora fosse l’unico modo per ottenere un accordo”».
Il riferimento è alla villa da 4 milioni di euro che lo Zelens’kyj possiede a forte dei marmi. Come riportato da Renovatio 21, vi sono parecchie trame dietro, che portano per lo più al suo mentore, l’oligarca ebreo ucraino (ma con cittadinanza israeliana e cipriota) Igor Kolomojskij, che lo ha lanciato prima nella sua TV (con la famosa serie Servo del popolo, anche nome del partito con cui vinse le elezioni promettendo la pace) e poi in politica.
Come noto, il rapporto deve essersi incrinato: ora che vi sono pupari più grandi e munifici, Zelens’kyj pare non aver più bisogno del suo inventore e Kolomojskyj si è ritrovato con la casa soggetta ad un raid dei servizi interni ucraini dello SBU.
La storia della villa in Toscana era stata ampiamente contestata in patria da varie inchieste giornalistiche prima della guerra, ora però finite nel nulla.
Tuttavia, dice Hersh, il presidente-comico non sta considerando l’ipotesi: «finora, ha detto il funzionario, Zelens’kyj ha rifiutato tale consiglio e ignorato le offerte di ingenti somme di denaro per facilitare il suo ritiro in una tenuta che possiede in Italia».
Al contrario, come visto nel caso dell’intervista al Washington Post che ha dovuto censurare dei passaggi, lo Zelens’kyj sembra paranoicamente immerso nella guerra, al punto di dubitare dei suoi stessi uomini.
Non abbiamo idea se il governo Meloni, che lo ha baciato a Kiev, a Roma e pure ad Hiroshima, se lo vorrebbe tenere in casa: come sarebbe poi possibile di far ripartire le relazioni con la Russia, nostro grande partner economico ed energetico, proprio non sappiamo.
Immagine di pubblico dominio CCO via Flickr
Economia
USA e Giappone firmano un accordo sui minerali essenziali
Martedì, Stati Uniti e Giappone hanno siglato un accordo di cooperazione per la produzione e la fornitura di minerali essenziali e terre rare. La mossa arriva dopo la decisione della Cina di rafforzare i controlli sulle esportazioni di terre rare e attrezzature per la produzione di chip, in risposta ai dazi imposti dal presidente statunitense Donald Trump.
L’intesa è stata conclusa durante la visita di Trump a Tokyo, dove ha incontrato per la prima volta il nuovo primo ministro giapponese, Sanae Takaichi.
Secondo la Casa Bianca, le due nazioni hanno convenuto di promuovere iniziative congiunte «necessarie a sostenere le industrie nazionali, incluse le tecnologie avanzate e le rispettive basi industriali», e di impiegare «strumenti di politica economica e investimenti coordinati per accelerare lo sviluppo di mercati diversificati, liquidi ed equi per minerali essenziali e terre rare».
I leader hanno inoltre sottoscritto un documento che impegna i rispettivi governi a «intraprendere ulteriori passi verso una nuova era d’oro per l’alleanza in continua crescita tra Stati Uniti e Giappone».
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Trump ha definito il Giappone un «alleato al livello più alto», elogiando Takaichi, insediatosi la settimana scorsa, come «uno dei più grandi primi ministri». Takaichi, dal canto suo, ha promesso di rafforzare i legami bilaterali, che ha descritto come «la più grande alleanza al mondo».
Trump ha da tempo manifestato interesse a garantire l’accesso ai minerali di terre rare in diverse regioni del mondo, perseguendo sia opportunità economiche vantaggiose sia una maggiore influenza geopolitica.
All’inizio di quest’anno, gli Stati Uniti hanno firmato un accordo sui minerali con l’Ucraina, considerato da diplomatici e politici americani una forma di garanzia di sicurezza per Kiev. Trump ha inoltre concluso un’intesa di investimento con l’Australia all’inizio di questo mese, mirata a contrastare il dominio cinese nel mercato delle terre rare e dei minerali essenziali.
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Immagine da Twitter
Economia
I mercati argentini salgono dopo la vittoria elettorale di Milei, che ringrazia il presidente Trump
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«Grazie, Presidente Trump, per la fiducia accordata al popolo argentino. Lei è un grande amico della Repubblica Argentina. Le nostre nazioni non avrebbero mai dovuto smettere di essere alleate. I nostri popoli vogliono vivere in libertà. Contate su di me per lottare per la civiltà occidentale, che è riuscita a far uscire dalla povertà oltre il 90% della popolazione mondiale».Gracias Presidente @realDonaldTrump por confiar en el pueblo argentino. Usted es un gran amigo de la República Argentina. Nuestras Naciones nunca debieron dejar de ser aliadas. Nuestros pueblos quieren vivir en libertad. Cuente conmigo para dar la batalla por la civilización… pic.twitter.com/G4APcYIA2i
— Javier Milei (@JMilei) October 27, 2025
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Geopolitica
Sudan, le Forze di Supporto Rapido rivendicano la cattura del quartier generale dell’esercito
Le Forze di Supporto Rapido (RSF), milizia paramilitare sudanese, hanno annunciato di aver assunto il controllo del quartier generale dell’esercito nella città di Al-Fashir, devastata dal conflitto.
La capitale del Darfur settentrionale è sotto assedio da parte delle milizie da oltre un anno, con le Nazioni Unite che denunciano attacchi sistematici contro i civili, inclusi l’uccisione e la mutilazione di oltre 1.000 bambini.
Domenica, un portavoce delle RSF ha dichiarato in un comunicato che il gruppo ha conquistato completamente il comando della Sesta Divisione di Fanteria delle Forze Armate Sudanesi (SAF) dopo «battaglie eroiche caratterizzate da operazioni mirate e assedi strategici».
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«La liberazione… segna una svolta cruciale nelle battaglie condotte dalle nostre valorose forze. Traccia le basi per un nuovo Stato a cui tutti i sudanesi contribuiranno», ha affermato il rappresentante delle RSF.
Si ritiene che il quartier generale della Sesta Divisione di fanteria fosse l’ultima roccaforte dell’esercito nel Darfur, dove i combattimenti tra SAF e RSF infuriano da oltre due anni.
Da quando ha assediato Al-Fashir nell’aprile 2024, le RSF sono state accusate di attacchi indiscriminati contro i civili, con droni e artiglieria. Secondo le Nazioni Unite, circa 260.000 civili, di cui 130.000 bambini, sono intrappolati in condizioni disperate, isolati dagli aiuti umanitari nella città.
Secondo organizzazioni per i diritti umani, all’inizio di questo mese almeno 20 persone sono state uccise in attacchi contro una moschea e l’ospedale saudita, l’ultima struttura medica operativa di Al-Fashir, dopo l’uccisione di circa 100 civili a settembre.
Domenica, Tom Fletcher, coordinatore degli aiuti d’emergenza delle Nazioni Unite, si è detto «profondamente allarmato» dalla situazione ad Al-Fashir, chiedendo un cessate il fuoco immediato in tutto il Sudan. Il Fletcher sottolineato che i combattenti continuano ad avanzare in città, bloccando le vie di fuga e lasciando i civili intrappolati, affamati e terrorizzati.
Il conflitto tra l’esercito e le RSF, scoppiato a Khartoum nell’aprile 2023, ha generato quella che l’ONU considera una delle peggiori crisi umanitarie al mondo.
L’esercito non ha ancora commentato la presunta perdita del quartier generale di Al-Fashir, ma il suo comandante, Abdel Fattah Al-Burhan, ha discusso con l’ambasciatore turco Fatih Yildiz di questioni come gli sforzi per revocare l’assedio alla capitale della regione, secondo una nota ufficiale.
Come riportato da Renovatio 21, il comandante delle Forze di supporto rapido (RSF) paramilitari sudanesi, Mohamed Hamdan Dagalo, ha prestato giuramento come capo di un governo rivale del Sudan.
Come riportato da Renovatio 21, la RSF aveva annunciato un «governo di pace e unità» parallelo ancora lo scorso febbraio.
Le stragi nel Paese non si contano. Due mesi fa si era consumato un orribile massacro a seguito di un attacco aereo ad un mercato. Settimane fa c’era stato un attacco ad un ospedale.
Come riportato da Renovatio 21, a fine 2024 le fazioni rivali sudanesi avevano interrotto i negoziati.
Il conflitto ha casato già 15 mila morti e 33 mila feriti. Le Nazioni Unite hanno descritto la situazione umanitaria in Sudan come una delle crisi più gravi al mondo. Mesi fa la direttrice esecutiva del Programma Alimentare Mondiale (WFP), Cindy McCain, aveva avvertito che la guerra di 11 mesi «rischia di innescare la più grande crisi alimentare del mondo».
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Gli USA sono stati accusati l’estate scorsa di aver sabotato gli sforzi dell’Egitto per portare la pace in Sudan.
Le tensioni in Sudan hanno portato perfino all’attacco all’ambasciata saudita a Karthoum, mentre l’OMS ha parlato di «enorme rischio biologico» riguardo ad un attacco ad un biolaboratorio sudanese.
Come riportato da Renovatio 21, il generale Abdel Fattah al-Burhan, leader de facto e capo dell’esercito della nazione africana dilaniata dalla guerra, due mesi fa è stato oggetto di un tentato assassinio via drone.
Il Paese è stato svuotato dei suoi seminaristi.
La Russia nel frattempo fa ha annunziato l’apertura di una base navale in Sudan.
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Immagine di Coordenação-Geral de Observação da Terra/INPE via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic
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