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Le mille e una guerra

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Renovatio 21 pubblica questo intervento di Elisabetta Frezza al convegno Sapiens³ di sabato 21 gennaio 2023.

 

 

Nell’ultimo capitolo del suo romanzo La casa in collina, che indaga le pieghe psicologiche e sociali del secondo conflitto mondiale e della resistenza, Cesare Pavese (siamo nel 1949) scrive:

 

«Non è che non veda come la guerra non è un gioco, quella guerra che è giunta fin qui, che prende alla gola anche il nostro passato». Continua: «Guardare certi morti è umiliante». «Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi». «Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi».

 

E conclude: «Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione».

 

Nel gioco di specchi che contraddistingue il nostro presente, dove la menzogna tenta di invadere ogni spazio pubblico e privato per adulterarne i connotati, la guerra si rifrange in mille volti diversi.

 

Sul terreno, i tanti caduti delle tante guerre, vicine e lontane. Ognuno dei quali, appunto, chiede ragione a chi resta

 

C’è la guerra agita e la guerra subìta. 

 

C’è la guerra telecomandata e la guerra vissuta; ovvero: la guerra a distanza e quella in presenza. 

 

C’è la guerra dei potenti e quella delle persone.

 

C’è la guerra cruenta e la guerra incruenta, ma non meno devastante.

 

C’è la guerra antica, col suo codice d’onore, e c’è la guerra moderna che non conosce né codici né onore. Nella prima la vita umana, persino quella del nemico, vale. La seconda è una guerra nichilista e disintegrante, senza alcun rispetto per la vita (semplicemente perché l’uomo non è più considerato uomo, ma una cifra, una macchina, e quindi entità sacrificabile).

 

C’è la guerra dei corpi e la guerra dello spirito. Ovvero: la guerra fisica, geopolitica, e la guerra biologica e spirituale.

 

Oggi insomma ci sono tanti fronti di guerra aperti, molti invisibili ai più. Ognuno di noi – spettatori non integrati nella finzione che pretende di sostituirsi a una realtà irriducibile – vive l’ora presente assestato su una propria personale linea del fronte, che è diversa da quella della guerra e delle guerre che si combattono altrove con le armi. Ma è pur sempre una linea che non va lasciata indifesa.

 

Vorrei partire da lontano, perché – a dispetto della frenesia di rottamazione del passato che affligge la società del cosiddetto progresso – ciò che dicono gli antichi spesso ci aiuta a vedere quali sono, ripulite dagli orpelli, le costanti della natura umana e delle sue manifestazioni nella storia. 

 

Nel 98 d.C. – a due anni dalla morte di Domiziano, ultimo imperatore della dinastia flavia, e dopo il breve principato di Nerva, quando sul trono di Roma sedeva Traiano – Cornelio Tacito, il grande storiografo latino, porta a compimento quella che verosimilmente è la sua opera prima, il De Agricola, dedicata al suocero, il valoroso generale Giulio Agricola, vissuto appunto sotto Domiziano e protagonista, con la vittoria sui Caledoni in rivolta, della campagna di conquista della Britannia

 

Perché è importante contestualizzare questa monografia di Tacito nella temperie della successione tra Domiziano e Nerva e poi – in continuità con Nerva – Traiano, suo figlio adottivo? Perché in questo snodo a Roma cambia il paradigma di gestione del potere, che da dispotico si fa più illuminato.

 

Non per nulla Tacito esordisce dicendo: «Nunc demum redit animus», cioè letteralmente «ora finalmente torna il respiro», ovvero «finalmente si torna a respirare»: nel nuovo clima politico, ci dice, è recuperata la libertà di scrivere e di parlare – ai giorni nostri, si direbbe: di manifestare il pensiero – perché Nerva prima, Traiano poi, riescono finalmente a far coesistere le due «res olim dissociabiles», le due cose (due entità) che prima erano tra loro incompatibili: il principato e la libertà. 

 

Tacito può dunque permettersi di trattare della dialettica tra principato (impero) e libertà nelle sue diverse estrinsecazioni.

 

Nel De Agricola, infatti, la biografia umana e politica del protagonista, che viene proposto quale modello per la nuova classe dirigente romana, si intreccia con un’ampia digressione in cui ci si sofferma sulle caratteristiche etniche e antropologiche dei Britanni e sulla loro romanizzazione; digressione in cui l’autore tocca il tema del rapporto di Roma con le popolazioni cosiddette barbariche e, quanto al presunto progresso portato dai Romani ai costumi di queste popolazioni, commenta lapidario: «per gli sprovveduti, tutto questo significava civiltà (humanitas), mentre in realtà era parte integrante della servitù».

 

Tacito insomma ci lascia delle riflessioni di penetrante attualità sui lineamenti dell’imperialismo romano (e universale) e lo può fare perché, appunto, in quel momento «finalmente si respira». E dell’imperialismo, egli mette in luce – si può dire: immortala – la vera essenza nel vibrante discorso di Calgaco al suo popolo. 

 

Calgaco era il capo dei Calèdoni della Britannia – «distinto per valore e nobiltà tra i molti capi» –  e, nell’imminenza dello scontro finale con i Romani, «di fronte a una marea di uomini accalcati che chiedevano guerra» dice loro: «Noi, al limite estremo del mondo e della libertà, siamo stati fino a oggi protetti dall’isolamento e dall’oscurità del nome…dopo di noi non ci sono più popoli, bensì solo scogli e onde e il flagello peggiore, i Romani, alla cui prepotenza non fanno difesa la sottomissione e l’umiltà». 

 

E, sempre per bocca di Calgaco, i Romani sono descritti così: «Raptores orbis», cioè: «Predoni del mondo, adesso che la loro sete di devastazione ha reso esausta la terra, vanno a frugare anche il mare: avidi se il nemico è ricco, arroganti se povero, gente che né l’oriente né l’occidente possono saziare. Loro bramano possedere con uguale smania ricchezze e miseria. Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero. Dove fanno il deserto, lo chiamano pace».

 

La fisionomia dell’impero come delineata da Tacito, nel primo secolo dopo Cristo, non può non colpire anche il lettore contemporaneo, per lo meno quello che non sia già risucchiato nel buco nero della fiction totalizzante costruita dalla propaganda. I medesimi tratti rappresentati da Tacito, con tanto vigore espressivo, non possono non riconoscersi in capo a un altro ingombrante protagonista della storia recente, che da decenni cerca di dominare il mondo intero con la stessa bulimia acquisitiva, la stessa pulsione espansionistica ossessiva e paranoide, la stessa furia annientatrice. Ma, in costanza di questi tratti antichi propri dell’impero, il nuovo protagonista va oltre, perché si spinge fino a promuovere il demenziale rovesciamento di ogni legge naturale per imporre urbi et orbi nuove, innaturali, coordinate assiologiche.  

 

Roma, anche tra innegabili soprusi, lasciò al mondo il monumento insuperabile della sua cultura giuridica, lasciò opere mirabili di ingegneria, urbanistica, arte; e fu pur sempre capace di tesaurizzare, e sapientemente valorizzare, molte delle ricchezze morali e materiali dei popoli assoggettati. Invece le élite occidentali perseguono oggi, senza remora alcuna, la standardizzazione forzata, l’appiattimento e l’imbarbarimento coatto, secondo un modello neocoloniale omogeneizzante e globalizzante. In un furibondo cupio dissolvi. Dietro il loro apparente complesso di superiorità si malcela un evidente complesso di inferiorità, in primo luogo culturale.

 

La chiave per esercitare un dominio incontrastato, senza peraltro nulla offrire ai dominati, sta nell’autocertificarsi e presentarsi come «campioni dei diritti dell’umanità» legittimati come tali sulla carta a esercitare erga omnes una supremazia anzitutto morale, funzionale alla conquista della egemonia politica, attraverso il marchio della democrazia di cui si sono fatti depositari esclusivi. 

 

La propensione a sottrarsi a qualsivoglia giudizio morale ha assunto una potenza simbolica definitiva con l’impunità acquisita, e universalmente avallata, a fronte del bombardamento atomico contro una popolazione inerme. Hiroshima e Nagasaki sono una enormità della storia che rimane ancor oggi insoluta e nella sostanza rimossa.

 

Davanti a un crimine gratuito di tanta magnitudine, si assiste infatti da un lato all’autoassoluzione del colpevole (che non ha mai manifestato pentimento, in tempi in cui le scuse vanno molto di moda), dall’altro alla rassegnazione delle stesse vittime che, in tanti anni di celebratissime giornate della memoria, mai si sono rappresentate la necessità di rompere il tabù e magari istituire una sede, tipo un tribunale internazionale che va anch’esso di moda, dove affrontarne l’analisi.

 

Il fatto è che lo stigma democratico, sacro e santificante, è ormai un involucro a contenuto variabile che viene esibito in vetrina come una sorta di reliquia. Capace di coprire ogni aberrazione e anche di generare forme parossistiche di servilismo. 

 

Se ci voltiamo indietro, possiamo accorgerci come questa democrazia da esportazione – nel caso, esportabile anche a mezzo bombe umanitarie – ci abbia regalato nel tempo tante cose spacciate come vittorie del progresso: ci ha regalato l’annientamento della famiglia, l’aborto libero e gratuito, le pratiche eutanasiche inaugurate con Terri Schiavo, la droga a volontà, il genderismo e le tentazioni pedofile, il diluvio di deviazioni pedagogiche in danno delle giovani generazioni; ci ha regalato l’ecologismo neomalthusiano, per il quale è l’uomo il cancro del pianeta; ci ha regalato la fabbrica tecnologica della vita e le manipolazioni eugenetiche. Ci ha regalato i deliri transumanisti. 

 

Ci ha regalato insomma tutto ciò che è servito a cambiare il volto di un una civiltà nel giro di una o due generazioni, spostando il concetto di libertà – inscindibilmente connesso a un canone di verità – sull’immagine della autodeterminazione illimitata, che è poi la hybris antica, creando l’esigenza idolatrica di un mondo appeso solo a se stesso e privato di ogni riferimento superiore, dove quindi comanda e vince il più forte. 

 

La libertà, così come l’uguaglianza, le pari opportunità, la solidarietà, l’inclusione, la sostenibilità, la promozione culturale, la scienza, i diritti e il diritto, in una parola la falsa morale di importazione è servita per sostituire alla realtà le parole, confondendo la percezione degli eventi nel gioco delle cause e degli effetti. E facendo evaporare, proprio nel fumo delle parole magiche, tutt’un orizzonte di senso e di verità.

 

Vengono chiamati «valori occidentali» e, in difesa di questi valori, tutti noi siamo arruolati, anzi precettati, a giocare nel grande videogioco a premi, dove si vincono brandelli di finta libertà. 

 

Lo strumentario bellico è oggi iperpotenziato dal dominio della rete e delle sue principali piattaforme, che costituiscono – in un contesto di cosiddetta guerra cognitiva, un’altra guerra parallela di sottofondo – l’armamentario decisivo per imporre, a tutti, questi pseudo-valori per definizione globali, sostitutivi dei valori comunitari che erano ancorati alla realtà e sedimentati nel tempo e nella storia. 

 

L’uomo a una sola dimensione, quello che vegeta inebetito sotto perenne ipnosi mediatica, lettore scrupoloso del copione che gli è stato messo in mano, è strutturalmente incapace di cogliere la complessità del reale, perché posto in balia dei soli meccanismi emotivi, e abituato a felicemente appaltare in conto terzi la gestione del proprio cervello, previamente disattivato. In tal modo, egli aderisce cadavericamente al repertorio di dogmi artificiali, prodotti in vitro insieme a tutta una nuova teologia di riferimento consultabile in apposite agende con tanto di data di scadenza in copertina (la prossima scade nel 2030, ed è quella che viene martellata in testa agli scolari, a partire dai tre anni di età, sotto l’etichetta seducente di nuova educazione civica). 

 

C’è dunque da riflettere sulla intestazione di questi cosiddetti «valori occidentali» inscritti nelle varie edizioni dell’agenda globalista e neoliberista. L’assimilazione di Europa e Nuovo Mondo in un unico orizzonte di valori è in sostanza una finzione, strumentale a sancire la subalternità dell’Europa ai monopolisti della democrazia, che si sono autoinvestiti del mandato di colonizzare il resto del mondo.

 

Non esiste in natura un’ecumene euroatlantica. Non esiste in rerum natura.

 

La verità, anzi, è che i valori profondi e antichi della civiltà e della cultura europea, più che due volte millenaria, vengono non solo calpestati ma persino perseguitati nella nuova Europa cosiddetta «occidentale». Lo dimostra la cancellazione della cultura classica, della storia, delle nostre radici culturali, filosofiche, artistiche e religiose, di tutta una identità individuale e collettiva: un patrimonio sterminato di bellezza e di senso inghiottito dall’icona dell’Occidente faustiano che ha venduto l’anima alla propria allucinazione di onnipotenza

 

Lo si vede dall’odio dissennato rovesciato addosso alla cultura, alla storia e alla spiritualità degli altri popoli per inseguire l’abolizione più o meno subdola, sempre violenta, di ogni diversità, e la neutralizzazione della ricchezza che si nutre di tale diversità: alla quale si sa opporre soltanto l’arroganza, la menzogna e la truffa mediaticamente costruita, dietro il paravento della missione civilizzatrice. Rivolta a beneficio di tutto il mondo e ora in particolare dell’Europa, che la subisce prona, in disposizione suicidaria, perché già colonizzata sia culturalmente sia moralmente.

 

I conquistatori infatti si sono presi avanti e hanno provveduto per tempo e nel tempo a organizzare fenomeni culturali e movimenti ideologici, ad apparecchiare le forme e le simmetrie del potere, le tecniche di ingegneria sociale e la teologia politica che, influendo sulla conoscenza e sulle visioni del mondo, alla fine sono stati capaci di dare ai fatti la colorazione programmata. E di connetterli tutti dentro un’unica mappa, disegnata nel dettaglio a tavolino, in cui tutto si tiene.

 

Simone Weil, studiosa che ha passato l’esistenza a vivisezionare il corpo dello Stato totalitario in ogni sua forma, non esclusa quella cosiddetta democratica, e ad analizzare il rapporto tra questo Stato e i suoi sudditi, nel saggio Riflessioni sulle origini dello hitlerismo, dice che la forza – che insieme alla propaganda regge le sorti dell’impero – «ha bisogno di ostentare pretesti plausibili»: anche se questi pretesti sono grossolani, intrisi di contraddizione e menzogna, non importa: «bastano – dice – per fornire una scusa alle adulazioni dei vili, al silenzio e alla sottomissione degli sventurati, all’inerzia degli spettatori, e per consentire al vincitore di dimenticare che commette dei crimini».

 

Infatti «l’arte di salvare le apparenze diminuisce negli altri lo slancio che l’indignazione potrebbe dare, e permette a se stessi di non venire indeboliti dall’esitazione». In tal modo, coloro che esercitano il potere possono godere di quella «soddisfazione collettiva di se stessi, opaca, impermeabile, impenetrabile, che consente di conservare in mezzo ai crimini una coscienza perfettamente tranquilla. Una coscienza tanto impenetrabile alla verità implica uno svilimento del cuore e della mente che ostacola il pensiero». 

 

Viene qui alla memoria un film di grande lucidità storica e metastorica, della tarda produzione felliniana. Si intitola Prova d’orchestra. Il direttore di un’orchestra composta di musicisti anarchici e strampalati (emblema di una società frammentata e sindacalizzata), che provano nello spazio fatiscente di un vecchio oratorio, viene intervistato da una troupe televisiva. Racconta della prima volta in cui è salito su un podio e di ciò che ha provato nel momento in cui ha alzata la bacchetta: «la musica dell’orchestra nasceva dalla mia mano»; e spiega come la percezione di questo fenomeno – come da un semplicissimo movimento della mano si generi magicamente la musica – porti con sé una eccitante, inebriante sensazione di onnipotenza. 

 

Il direttore del film di Fellini riesce a figurare con grande efficacia, dalla sua prospettiva, quella sindrome contagiosa che in questi ultimi anni ha colpito i molti che, in vari ordini di grandezza, o di bassezza, abbiano scoperto di poter cavalcare la propria rendita di posizione ai danni dei propri simili ritenuti gerarchicamente subordinati, e inermi.

 

E più questi ultimi hanno obbedito, ovvero suonato ciò che bacchetta comandava, più l’ego degli agitatori di bacchetta – nel nostro caso illegittimi, e usurpatori di un palco di cartapesta – si è gonfiato, e ha moltiplicato la loro tracotanza, il loro cinismo, fino ad arrivare al sadismo e alla disumanità. Tanti miserabili direttori d’orchestra si sono scoperti demiurghi per caso e hanno potuto sfogare frustrazioni represse: è accaduto nella scuola, nella sanità, nella pubblica amministrazione.

 

La bacchetta assomiglia all’anello di Sauron, che dà potere ma genera dipendenza, e corrompe l’animo di chi lo porta.

 

Ci dice dunque Simone Weil di «coscienze impenetrabili alla verità» e del conseguente «svilimento del cuore e della mente che ostacola il pensiero». 

 

Di fatto, alle fondamenta di tutta la messinscena di cui siamo comparse involontarie (e per quanto ci riguarda anche incolpevoli), sta la menzogna, che è il motivo centrale attorno al quale ruota tutta quella modernità della quale oggi vengono alla luce, in controluce, le tante facce e le mille contraddizioni, ricapitolate finalmente in un unico film. 

 

Masse confuse e impaurite sono state trasformate dalla regìa in un alleato ottuso e stordito, e dunque massimamente affidabile, attraverso un’arma decisiva: la fabbricazione e l’utilizzo spregiudicato del consenso, costruito per lo più attraverso la comunicazione, diventata scienza potentissima grazie ai potentissimi mezzi tecnici di cui si è dotata.

 

E a ben vedere è proprio questo, della reazione alla menzogna che ormai pervade ogni cosa, il denominatore comune delle tante e diverse linee del fronte che a ognuno di noi è chiesto oggi di presidiare.

 

«Non in mio nome», concludeva Aleksandr Solzenicyn il suo straordinario appello Vivere senza menzogna, datato 12 febbraio 1974, giorno del suo arresto e vigilia della sua espulsione dalla patria. 

 

C’è un mondo intorno a noi che è materialmente edificato sulla menzogna. La questione della menzogna è proprio una questione materiale. Si può dire che noi oggi siamo vittime dell’imperialismo della menzogna, nel senso letterale che devono invadere la nostra vita con la menzogna, e devono farlo possibilmente senza trovare resistenza: ostacolando il pensiero attraverso lo svilimento del cuore e della ragione (diceva Simone Weil).

 

È esattamente questo l’obiettivo della propaganda, ed è questo anche l’obiettivo della formazione scolastica, che – intervenendo in radice prima ancora della propaganda – punta sempre più a disarmare le giovani generazioni estirpando loro, sul nascere, ogni velleità di pensiero e ogni possibile autonomia di giudizio e di azione.

 

L’addestramento pandemico – hanno allestito in quattro e quattr’otto un immenso laboratorio in cui sono stati fatti esperimenti disumani – è servito a fiaccare, inselvaggire, disintegrare i più giovani: ha spianato la strada alla transumanza nell’universo onirico, confortevole e pacificato, del metaverso.

 

Ciò che preme togliere d’intorno, il più in fretta possibile, approfittando del momento favorevole (approfittando soprattutto della sofferenza e del disagio così spaventosamente e dolosamente diffusi tra le cavie dell’esperimento) è la realtà, e insieme ad essa gli strumenti logici, cognitivi, intellettivi, morali, che ne forniscano le chiavi di interpretazione. Affinché, scollati dalla realtà e affogati nella bolla asettica degli algoritmi, i più giovani interiorizzino le posture del potere fino a non essere più strutturalmente in grado di distinguere tra realtà e finzione, tra ciò che è bene e ciò che è male.  

 

Mentre dunque l’italiota teledipendente che batte bandiera gialloblù, col suo mono-occhio è intrattenuto dalle immagini pacchianamente false di una guerra combattuta per procura, e raccontata a rovescio – immagini di morte mischiate come niente fosse ai lustrini di Sanremo, un una oscena sovrapposizione di spettacoli – c’è un fronte sconfinato che è lasciato completamente indifeso. È quello che si affaccia sul nostro futuro.

 

Ed è quello che il nemico sta sfondando senza trovare resistenza alcuna, per demolire ogni identità a partire dai più piccini, per cancellare dall’orizzonte la realtà delle cose, per uccidere la memoria – nostro ponte tra passato, presente e futuro.

 

Noi oggi possiamo anche fare la nostra parte e combattere fino allo stremo delle energie. E lo faremo, anche perché non abbiamo altra scelta. Ma se non lasciamo qualcuno capace di raccogliere l’eredità dell’essere uomo, il nostro sarà un lavoro inutile.

 

Forse aveva davvero ragione Darja Platonova, che era giovane ma quella eredità aveva individuata e raccolta, quando diceva che in atto è una guerra tra il niente e la civiltà. Anche la sua, di morte, chiede ragione a chi resta. 

 

E a quanti, in una forma di ridicolo automatismo compulsivo, associano alla Russia il paradigma della tirannide e della efferatezza, vorrei consigliare la lettura integrale dei discorsi del suo presidente (a partire dal discorso di Valdai dell’ottobre scorso) e ne assegnerei per casa parafrasi e commento, e magari anche un confronto con i discorsi di qualche suo omologo occidentale. Giusto per capire dove stanno di casa l’estremismo e la prepotenza.

 

Ricordiamo per esempio, quale pietra di paragone scelta a caso ex multis, le parole del democraticissimo senatore americano Graham: «Mi piace il percorso che stiamo percorrendo. Con armi e denaro americani, l’Ucraina combatterà la Russia fino all’ultimo ucraino». Ecco, distillato in un rigo, il pornografico disprezzo per la vita (altrui) sbattuto in faccia al mondo da sciacalli attratti dall’odore della morte (altrui).

 

A campione, invece, leggo qualche breve passaggio del discorso di Valdai di Vladimir Putin.

 

«La stessa ideologia liberale è cambiata, è irriconoscibile…ha raggiunto il punto assurdo in cui qualsiasi opinione alternativa viene dichiarata propaganda sovversiva e minaccia alla democrazia. Credere nella propria infallibilità è molto pericoloso; è solo a un passo dal desiderio dell’infallibile di distruggere coloro che non ama, o come si suol dire oggi, di cancellarli. Un tempo i nazisti sono arrivati a bruciare libri, e ora i “guardiani del liberalismo e del progresso” occidentali sono arrivati ​​a bandire Dostoevskij e Ciajkovskij. La cosiddetta cultura della cancellazione sta sradicando tutto ciò che è vivo e creativo, e soffoca il libero pensiero in tutti i campi: economico, politico o culturale. La storia certamente metterà tutto al suo posto e saprà chi cancellare…Nessuno ricorderà i loro nomi tra qualche anno. Ma Dostoevskij vivrà, così come Čajkovskij, Pushkin, e non importa quanti avrebbero gradito il contrario».

 

Ecco. Nel nome ossimorico della cosiddetta «cultura della cancellazione», non solo si abbattono monumenti, si eliminano pezzi di letteratura e fette di storia, ma si gettano esistenze, lavori e carriere nella spirale del silenzio. La promuovono i padroni del discorso globale; la praticano con tracotanza beota branchi di gregari con la bocca piena di filastrocche – tolleranza, uguaglianza, inclusione e diritti. 

 

I due piani, quello reale e quello virtuale, non sono affatto separati. Discendono dalla stessa matrice di nichilismo assassino, e si compenetrano l’uno nell’altro. Chi non ha remore a distruggere i libri, la storia e le idee, non avrà remore a compiere stragi e sacrifici sull’altare del nulla. Se c’è un universo dove si uccidono corpi, c’è un metaverso dove si cancellano idee: da una parte la pulizia etnica, dall’altra la disinfestazione delle idee non conformi, e delle anime vive.

 

Pensano, costoro, di poter cancellare la realtà delle cose, di adulterarla a proprio capriccio (bambini in provetta, droghe sintetiche, cambi di sesso, terapie geniche di massa), di resettarla a mezzo imbrogli spettacolari e incantesimi diabolici, allestiti per violentare la natura, la sua logica intrinseca e il suo ordine sacro.  

 

Ma dice ancora Putin:

 

«I valori tradizionali non sono un rigido insieme di postulati a cui tutti devono attenersi, certo che no. La differenza dai cosiddetti valori neoliberisti, è che i valori tradizionali sono unici in ogni caso particolare, perché derivano dalle tradizioni di una particolare società, dalla sua cultura e dal suo sfondo storico. Per questo non possono essere imposti a nessuno. Devono semplicemente essere rispettati e tutto ciò che ogni Nazione ha scelto per sé nel corso dei secoli deve essere gestito con cura. Lo sviluppo dovrebbe basarsi su un dialogo tra le civiltà e i valori spirituali e morali. In effetti, capire di cosa trattano gli esseri umani e la loro natura varia tra le civiltà, ma questa differenza è spesso superficiale se tutti, alla fine, riconoscono la dignità ultima e l’essenza spirituale delle persone».

 

La dignità ultima e l’essenza spirituale delle persone: è esattamente questo il cuore della civiltà. Se si attenta a quel nucleo sacro e intoccabile non si può far altro che precipitare nel «nulla» di cui ha fatto in tempo a parlare Darja Platonova prima di essere uccisa. Quel nulla – di cui l’Europa è ora epicentro – dove la guerra si manifesta nel suo volto più feroce e disintegrante, dimentica dell’onore e della pietas, giocata tutta e solo sull’imbroglio e sul compiacimento della devastazione (al punto da contemplare il tradimento preordinato degli accordi internazionali, sottoscritti con riserva mentale: come è avvenuto a Minsk).

 

E allora, nel tempo minaccioso e oscuro in cui l’antiumanità (o transumanità) sta sferrando il suo attacco definitivo all’umanità e a ciò che la sostanzia, ovvero la facoltà di credere, di pensare, di vivere; in cui la menzogna sembra diventata il vero unico fattore globalizzante – almeno in questa parte di mondo in disfacimento che ama chiamarsi Occidente –, non resta che rischiarare la mente obnubilata da infinite bugie. Per liberarsi dai falsi profeti, dai falsi benefattori (detti anche filantropi), dai falsi sacerdoti, dai falsi miti, dalle false speranze.  

 

Toccherà affrontare i lupi, e anche le jene. Ma ne va della stessa sopravvivenza morale e materiale della nostra comunità umana, aggredita in profondità dalle metastasi delle idee e dall’ansia diabolica di sopprimere la realtà. Alla barbarie di ritorno, molto più violenta di quella di andata, deve in qualche modo sopravvivere la civiltà: ci sarà bisogno di nuovi monaci che, in mezzo alle macerie, mettano insieme i frammenti. 

 

Per questo bisogna combattere la propria personale guerra incruenta, entro i binari segnati dalla coscienza antica dei limiti insuperabili, oltre i quali tutto è perduto. Credo sia questo il senso della guerra che ognuno di noi, per onorare anzitutto la propria coscienza, si trova a combattere ogni giorno nel personale campo di battaglia. 

 

E torno, in conclusione, laddove ho cominciato. Torno da Tacito, che dà voce a Calgaco, valoroso resistente alla prepotenza di chi minacciava l’integrità e la libertà del suo popolo. Riprendo le sue parole millenarie perché, con quella brevitas divenuta proverbiale, arriva dritto all’osso, cioè alla struttura essenziale di quella guerra archetipica che oggi appare sfigurata e inafferrabile perché ridondante, rifratta e alterata nel gioco di specchi di cui si diceva. 

 

Calgaco termina così il discorso alla sua gente prima del combattimento finale contro i dominatori Romani, con queste parole:

 

«D’altra parte – dice – il valore e la fierezza dei sudditi spiace ai padroni… Grazia non possiamo sperarla; e allora mostrate finalmente coraggio, se tenete alla salvezza e avete cara la gloria… E ora, nell’andare in battaglia, abbiate alla mente due cose: i vostri avi e i vostri posteri».

 

L’esortazione di Calgaco vale ancora, vale anche per noi, in un tempo in cui, se è pur vero che la sproporzione tra le parti in campo rischia di far apparire inutile lo sforzo, sovrumano, di essere schierati in partibus infidelium, poiché «grazia non possiamo sperarla»; è ancor più vero che siamo chiamati a non risparmiarci, e a sperare contro ogni speranza avendo alla mente due cose: da una parte i nostri padri, dall’altra i nostri figli. 

 

I primi per trovare l’esempio, i secondi per trovare la forza e il coraggio.

 

Elisabetta Frezza

 

 

 

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Pensiero

Verso il liberalismo omotransumanista. Tucker Carlson intervista Dugin

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Il giornalista americano Tucker Carlson ha pubblicato una potente intervista con il filosofo russo Aleksandr Dugin. La conversazione è stata pubblicata lunedì sul sito Tucker Carlson Network e sul suo canale YouTube.

 

L’incontro è avvenuto durante in viaggio di Carlson a Mosca – città nella quale Dugin gli dà il benvenuto – per la notoria intervista che il californiano ha ottenuto con il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin.

 

Come riportato da Renovatio 21, Dugin in un editoriale aveva sottolineato l’intervista di Carlson a Putin come un evento epocale in grado di riunire due anime della società russa, sia quella tradizionalista che quella filo-occidentale. Durante il suo soggiorno a Mosca – dove secondo alcuni sarebbe pure scampato ad un attentato, cosa di cui non vuole parlare – Tucker ha voluto incontrare Dugin, perché, racconta, curioso delle sue idee.

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Nella sua introduzione, il giornalista statunitense – dopo aver detto di credere ai servizi segreti americani quando dicono che la figlia di Dugin, Darja Dugina, è stata uccisa dagli ucraini – racconta di essere interessato a sentire qualcuno i cui libri sono stati proibiti dall’amministrazione Biden: quando lavorava ancora a Fox, Carlson fece un servizio sull’improvvisa sparizione dei libri di Dugin da Amazon, fenomeno notato da Renovatio 21 due mesi prima.

 

Parlando con il filosofo, ha quindi deciso di filmare i discorsi. Secondo Alex Jones, Carlson avrebbe filmato molto materiale, di cui è uscito questo segmento editato.

 

La conversazione pubblicata, della durata di 20 minuti, è stata particolarmente ricca di spunti di pensiero.

 

 

Carlson chiede a Dugin cosa sta succedendo nei paesi di lingua inglese: «gli Stati Uniti, il Canada, la Gran Bretagna, la Nuova Zelanda, l’Australia hanno deciso all’improvviso di rivoltarsi contro se stessi con questo grande tumulto. E alcuni comportamenti sembrano molto autodistruttivi. Da dove pensa, come osservatore, che provenga questo?»

 

«Credo che tutto sia iniziato con l’individualismo» risponde Dugin. «L’individualismo era una comprensione sbagliata della natura umana, della natura dell’uomo. Quando si identifica l’individualismo con l’uomo, con la natura umana, si tagliano tutti i suoi rapporti con tutto il resto. Quindi si ha un’idea molto particolare del soggetto, del soggetto filosofico come individuo».

 

Qui Dugin offre una visione in linea con quella del tradizionalismo cattolico: «tutto è iniziato nel mondo anglosassone con la riforma protestante e prima ancora con il nominalismo: l’atteggiamento nominalista secondo cui non esistono idee, ma solo cose, solo cose individuali» spiega il filosofo.

 

«Quindi l’individuo, era la chiave ed è tuttora il concetto chiave che è stato posto al centro di un’ideologia liberale e del liberalismo poiché, nella mia lettura, è una sorta di processo storico e culturale, politico e filosofico di liberazione, dell’individuo, di qualsiasi tipo di identità collettiva, collettiva o che trascenda quella individuale».

 

«Tutto è iniziato con il rifiuto della Chiesa cattolica come identità collettiva, dell’impero, dell’impero occidentale come identità collettiva. Successivamente si è trattato di una rivolta contro uno Stato nazionalista come identità collettiva a favore di una società puramente civile. Dopo quella guerra, nel XX secolo ci fu la grande battaglia tra liberalismo, comunismo e fascismo. E il liberalismo ha vinto ancora una volta. E dopo la caduta dell’Unione Sovietica è rimasto solo il liberalismo».

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«Francis Fukuyama ha giustamente sottolineato che non esistono più ideologie all’infuori del liberalismo… il liberalismo, cioè la liberazione degli individui da ogni tipo di identità collettiva» spiega Dugin, citando il politologo noto negli anni Novanta per la nozione di «fine della Storia» a seguito del crollo del blocco sovietico.

 

«Erano rimaste solo due identità collettive da cui liberarsi: l’identità di genere perché è identità collettiva. Sei un uomo o una donna collettivamente (…) Quindi una liberazione dal genere. E questo ha portato ai transgender, alla comunità LGBT e a una nuova forma di individualismo sessuale. Quindi il sesso è qualcosa di facoltativo».

 

«Questa non era solo una deviazione del liberalismo. Erano elementi necessari per l’attuazione e il vincitore di questa ideologia liberale. E l’ultimo passo non ancora compiuto è la liberazione dall’identità umana. L’umanità è facoltativa. E ora stiamo scegliendo te in Occidente. Stai scegliendo il sesso che vuoi, come vuoi».

 

«L’ultimo passo in questo processo di liberalismo, nell’attuazione del liberalismo, significherà proprio l’umano come opzionale. Quindi puoi scegliere la tua identità individuale per essere umano, e per essere non umano. Questo ha un nome. Transumanesimo. Postumanesimo. Singolarità. Intelligenza artificiale».

 

«Klaus Schwab, Harari, dichiarano apertamente che il futuro dell’umanità è inevitabile. Arriviamo così alla storica stazione terminale: cinque secoli fa, siamo saliti su questo treno ed ora stiamo finalmente arrivando all’ultima stazione. Quindi questa è la mia lettura».

 

«Tutti gli elementi, tutte le fasi di questo, tagliano la tradizione con il passato. Quindi non sei più protestante. Sei un materialista ateo laico. Non hai più lo Stato nazionale che servì ai liberali per liberarsi dall’impero. Ora lo Stato nazionale diventa a sua volta un ostacolo. Ti stai liberando dallo Stato nazionale. Infine, la famiglia viene distrutta a favore di questo individualismo».

 

«E poi l’ultima cosa, il sesso, che è già quasi superato. Sesso facoltativo. E nella politica di genere c’è solo un passo per arrivare agli estremi di questo processo di liberazione, di liberalismo, cioè l’abbandono dell’identità umana come qualcosa di prescritto. Quindi essere liberi dall’essere umani, avere la possibilità di scegliere tra essere e non essere umani».

 

«Questa è l’agenda politica, l’agenda ideologica di domani. Ecco perché, come vedo il mondo anglosassone che mi ha chiesto» dice Dugin a Carlson. «Penso che sia solo avanguardia, perché è iniziato con gli anglosassoni, l’empirismo, il nominalismo, il protestantesimo. E ora siete in vantaggio con gli anglosassoni che sono più prosciugati dal liberalismo rispetto agli altri europei».

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Carlson procede con una domanda di approfondimento: «quindi le opzioni – per come le concepivo crescendo – erano l’individuo che può seguire la propria coscienza, dire quello che pensa, difendersi dallo Stato contro lo statalismo, il totalitarismo incarnato nel governo contro cui si lottava: il governo sovietico. E penso che la maggior parte degli americani la pensi in questo modo. Qual è la differenza?»

 

«Penso che il problema risieda in due definizioni di liberalismo» puntualizza Dugin. «C’è il vecchio liberalismo, il liberalismo classico. E nuovo liberalismo. Quindi il liberalismo classico era a favore della democrazia. Democrazia intesa come potere della maggioranza, del consenso, della libertà individuale. Ciò dovrebbe essere combinato in qualche modo con la libertà dell’altro».

 

«Ora siamo già completamente nella prossima stazione, nella fase successiva: il nuovo liberalismo. Ora non si tratta del governo della maggioranza, ma del governo delle minoranze. Non si tratta di libertà individuale, ma di wokismo. Quindi puoi essere così individualista da criticare non solo lo Stato, ma anche l’individuo, la vecchia concezione dell’individuo. Quindi ora hai bisogno di essere invitato a liberarti dall’individualità per andare oltre in quella direzione».

 

Dugin ricorda di averne parlato con Fukuyama in TV, «Come ha già detto in precedenza, la democrazia significa il governo della maggioranza. E ora si tratta del dominio delle minoranze contro la maggioranza, perché la maggioranza potrebbe scegliere Hitler o Putin. Quindi dobbiamo stare molto attenti con la maggioranza, e la maggioranza dovrebbe essere tenuta sotto controllo e le minoranze dovrebbero governare sulla maggioranza. Non è democrazia, è già totalitarismo».

 

«Ora non si tratta della difesa della libertà individuale, ma della prescrizione di essere woke, di essere moderni, di essere progressisti. Non è un tuo diritto essere o non essere progressista. È tuo dovere essere progressisti e seguire questo programma. Quindi sei libero di essere un liberale di sinistra. Non sei più abbastanza libero per essere un liberale di destra. Devi essere un liberale di sinistra. E questo è una sorta di dovere. È una prescrizione. Il liberalismo ha lottato nel corso della sua storia contro ogni tipo di prescrizione. E ora è diventato a sua volta totalitario, prescrittivo e non più libero com’era».

 

«E le crede che questo processo sia stato inevitabile? Sarebbe comunque successo?» domanda il Tucker.

 

«Percepisco qui una sorta di logica. Quindi un tipo di logica che non è solo un ritorno o una deviazione. Inizi con uno scopo: vuoi liberare l’individuo. Quando arrivi al punto in cui è possibile, viene realizzato. Quindi è necessario andare oltre. Da questo momento inizia la liberazione dalla vecchia comprensione dell’individuo in favore di concetti più progressisti. Non ci si poteva fermare qui. Questa è la mia visione».

 

«Quindi se dici “Oh, preferisco il vecchio liberalismo”, direbbero, i progressisti, direbbero, non si tratta del vecchio liberalismo, ma di fascismo: divieni il difensore del tradizionalismo, del conservatorismo, del fascismo. Quindi fermati qui. O divieni progressista liberale o sei finito, o ti cancelleremo. Questo è ciò che osserviamo».

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«E vedere i sedicenti liberali bandire il suo libro, che non è un manuale per fabbricare bombe o invadere l’Ucraina» dice Carlson. «Sai, queste sono opere filosofiche. Ti dice che non è, ovviamente, non è liberale in alcun senso. Mi chiedo però, quando si arriva al punto in cui l’individuo non riesce più a liberarsi da nulla, quando non è nemmeno più umano. Qual è il prossimo passo?»

 

«Ciò è descritto nei film, nei film americani, nei film, in molti modi. Quindi penso che, sai, tutta la fantascienza, quasi tutta quella del XIX secolo, è stata realizzata nella realtà negli anni Venti. Quindi non c’è niente di più realistico della fantascienza. E se consideriamo Matrix o Terminator, abbiamo tantissime versioni del futuro più o meno coincidenti, il futuro con la situazione post-umana o umana opzionale o con l’Intelligenza Artificiale», replica Dugin.

 

«Hollywood ha realizzato molti, molti, molti film. Penso che rappresentino correttamente la realtà del prossimo futuro. Ad esempio, se consideriamo l’uomo, la natura umana, come una specie di animale razionale, allora con la nostra tecnologia si può produrli, così da poter creare animali razionali o combinarli o costruirli con l’Intelligenza Artificiale».

 

«È una specie di re del mondo. Direi che non solo può manipolare, ma creare realtà perché le realtà sono solo immagini, solo sensazioni, solo sentimenti. Quindi penso che il futurismo post-umanista sia non solo una sorta di descrizione realistica di un futuro molto possibile e probabile, ma anche una sorta di manifesto politico. Questo è un pio desiderio».

 

«Il fatto che i film non descrivono un brillante futuro tradizionale. Non conosco nessun film sul futuro e sull’Occidente che dipinga un ritorno alla vita tradizionale, alla prosperità, alle famiglie con molti figli… e tutto è abbastanza nell’ombra, abbastanza oscuro. Quindi, se sei abituato a dipingere tutto di nero soprattutto nel futuro, quindi questo futuro nero una volta arriva e penso che sia il fatto che non abbiamo altra scelta. O Matrix o Intelligenza Artificiale o qualcosa del genere o Terminator. Quindi la scelta è già fuori dai limiti dell’umanità. E questa non è solo fantasia, credo. Questo è una sorta di progetto politico. Ed è facile immaginarlo, poiché abbiamo visto i film, seguono più o meno da vicino questa agenda progressista, direi».

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Carlson procede con un’ultima domanda, chiedendo del fenomeno per cui «per oltre 70 anni un gruppo di persone in Occidente e negli Stati Uniti, liberali, hanno difeso efficacemente il sistema sovietico e lo stalinismo, e molti vi hanno partecipato personalmente spiando per Stalin, lo ha sostenuto nei nostri media» dice il giornalista. «Amavano Boris Eltsin perché era ubriaco. Ma nel 2000, la leadership di questo Paese è cambiata e la Russia è diventata il loro principale nemico. Quindi, dopo 80 anni e passa di difesa della Russia, si sono messi ad odiare la Russia. Che cosa è tutto questo? Perché il cambiamento?»

 

«Penso che, prima di tutto, Putin sia un leader tradizionale. Quando Putin salì al potere, fin dall’inizio, ha cominciato a sottrarre il nostro Paese, la Russia, all’influenza globale. Così ha iniziato a contraddire l’agenda progressista globale. E queste persone che sostenevano l’Unione Sovietica erano progressisti, che hanno avuto la sensazione di avere a che fare con qualcuno che non condivide l’agenda progressista e che ha tentato con successo di restaurare i valori tradizionali, la sovranità dello Stato, il cristianesimo, la famiglia tradizionale».

 

«Questo non era evidente fin dall’inizio, da fuori. Ma quando Putin ha insistito sempre di più su questa agenda tradizionale, direi, sulla particolarità e spiritualità della civiltà russa come un tipo speciale di regione del mondo che aveva e ha ora, pochissime somiglianze con i progressisti, gli ideali progressisti. Quindi penso che abbiano scoperto, abbiano identificato cosa esattamente è Putin. È una sorta di leader, un leader politico che difende i valori tradizionali».

 

Solo di recente, un anno fa, Putin ha emanato un decreto di difesa politica dei valori tradizionali. É stato un punto di svolta, direi. Ma gli osservatori del campo progressista in Occidente, penso che lo abbiano capito correttamente fin dall’inizio del suo governo. Quindi, questo odio non è solo casuale, qualcosa di casuale o uno stato d’animo. Non lo è… È metafisico».

 

«Quindi, se il tuo compito principale e il tuo obiettivo principale è distruggere i valori tradizionali, la famiglia tradizionale, gli stati tradizionali, le relazioni tradizionali, le credenze tradizionali e qualcuno con l’arma nucleare – questo non è l’argomento più piccolo, ma nemmeno il meno importante – può resistere e difendere i valori tradizionali che stai per abolire… Ecco, penso che ci sia qualche fondamento per questa russofobia e per l’odio per Putin. Quindi non è solo un caso. Non si tratta di un cambiamento irrazionale dal filosovietismo alla russofobia. È qualcosa di più profondo direi. Questa è la mia ipotesi».

 

Tanto, tanto materiale su cui riflettere.

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Immagine screenshot da Tucker Carlson Network

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Vi augurano buona festa del lavoro, ma ve lo vogliono togliere. Ed eliminare voi e la vostra discendenza

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Buona festa dei lavoratori! Ve lo ripetono da tutte le parti, del resto è una festa importantissima per la Repubblica: il Venerdì Santo, il giorno in cui Dio muore per l’umanità secondo quella che in teoria è la religione maggioritaria del Paese, si lavora. Il giorno dei morti, pure. Il Primo maggio, invece, no: vacanza.   Questo basterebbe a far comprendere qual è la vera religione che lo Stato italico vuole imporre alla sua popolazione – del resto, il suo libro sacro, la Costituzione, scrive al suo primo articolo che la Repubblica stessa è fondata sul lavoro – espressione incomprensibile, se non comprendendo la smania sovietica che avevano i comunisti e la sciocca acquiescenza dei democristiani che glielo hanno lasciato scrivere, accettando pure di lasciare fuori dalla Carta la parola «Dio».   Il dio della Costituzione, il dio della Repubblica è il lavoro?

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La divinizzazione politica di un concetto astratto, di un’attività umana, non solo l’indice della volontà di laicizzazione dello Stato. Poggia, essenzialmente, nel rigetto di avere per la cosa pubblica il fondamento del Cristianesimo.   Non è un caso che la festa del dio-lavoro avvenga l’indomani della notte di Valpurga, ritenuta nei secoli un momento di vertice dell’ attività del male sulla Terra – in genere, su Renovatio 21, facciamo ogni anno un articolo sull’argomento, annotando gli eventi concomitanti. La realtà è che la festa del Primo maggio è un tentativo di inculturazione, o meglio, di reintroduzione di usanze pagane – in particolare la festa celtica chiamata Beltane, di cui parla anche J.G. Frazer nel suo studio su magia e religione dell’antichità europea Il ramo d’oro.   La prima menzione di Beltane è nella letteratura irlandese antica dell’Irlanda gaelica. Secondo i testi altomedievali Sanas Cormaic (scritto da Cormac mac Cuilennáin) e Tochmarc Emire, Beltane si teneva il 1° maggio e segnava l’inizio dell’estate. I testi dicono che, per proteggere il bestiame dalle malattie, i druidi accendevano due fuochi «con grandi incantesimi» e guidavano il bestiame in mezzo a loro.   La vulgata progressista del Primo maggio, nata nel secondo Ottocento, si attacca quindi a questo sostrato antico, non cristiano, alla guisa di come ha fatto la Chiesa con alcune festività nel corso dell’anno.   Quindi: un nuovo dio, una nuova religione. Ma il problema è che neanche i suoi stessi sacerdoti ci credono. I loro discorsi – i loro incantesimi – sono inganni, sempre più infami, sempre più ridicoli.   Abbiamo sentito ieri il segretario generale CGIL Maurizio Landini dichiarare che «il governo Meloni difende il fossile e nega il cambiamento climatico, come si può pensare di cambiare modello di produzione?». Lo ha detto ad un evento dell’«Alleanza Clima Lavoro», di cui apprendiamo l’esistenza. Stendiamo un velo pietoso sull’attacco ai combustibili fossili, che fossili non sono (no, il petrolio non è succo di dinosauro!), che dimostra un allineamento con i gruppi ecofascisti più estremi e grotteschi visti negli ultimi anni – e pagati da chi, possiamo intuirlo.   Quindi: prima il «clima», poi i lavoratori. L’intero sistema industriale va cambiato per favorire l’ambiente, non l’uomo che lavora: conosciamo questa solfa, ora condita automaticamente dal terrorismo climatico. Si tratta di un’idea che avanza da tanto tempo, e si chiama deindustrializzazione.   Come abbiamo ripetuto tante volte su questo sito, la deindustrializzazione altro non è che deumanizzazione. Cioè, riduzione non dei lavoratori, ma della quantità stessa di esseri umani che camminano sul pianeta. Ciò era chiaramente esposto nelle opere di Aurelio Peccei e compagni oligarchi, quando l’élite – la stessa che stava dietro al Club di Roma, Club Bilderberg, WWF, etc. – cominciò a lavorare decisamente alla riduzione della popolazione.   Non è possibile diminuire il numero di esseri umani sul pianeta se si continua a produrre. Perché l’industria – il lavoro – dà cibo, e il cibo dà la vita, e la vita si moltiplica. La filiera dell’essere deve essere interrotta, molto prima. Niente industria, niente lavoro, niente vita. Niente persone. Niente umanità. Ora potete capire da dove vengono la povertà e la fame, che sembrano di ritorno anche nel Primo Mondo.   In alcuni testi risalenti a più di mezzo secolo fa, la cosa era messa nera su bianco: avrebbero creato deliberatamente un concetto prima sconosciuto, quello di inquinamento, per avere uno strumento di controllo del comportamento di popoli e Nazioni. Se ci pensate, anche questa è una scopiazzatura del cattolicesimo: non il peccato, ma l’impronta carbonica. Non il peccato originale, ma l’essere umano in sé, alla cui nascita c’è già un debito ecologico personale importante. Non la Santa Trinità, non l’Incarnazione, ma Gaia, dea terrifica che si fa pianeta.   Non ci sorprende, ma nondimeno continua a riempirci di orrore, vedere che chi è pagato per difendere i lavoratori è in realtà alleato delle forze che ne vogliono l’eliminazione. Lo aveva capito, con decenni di anticipo, il filosofo marxista Gianni Collu, che nel libro Apocalisse e rivoluzione notava che il paradigma non era più quello rivoluzionario della crescita operaia, cioè industriale, ma quello di una contrazione dell’intera società produttiva.   In pratica, Collu aveva compreso che stava venendo innestato, specie presso partiti, sindacati, intellettuali di sinistra, l’odio per l’uomo – in una parola, era stata avviata la Necrocultura. Non per niente il filosofo cominciò a scoprire, e rivelare, l’interesse crescente che molti circoli goscisti cominciavano a sentire verso un tema divenuto tabù nei millenni cristiani, cioè il sacrificio umano.

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Ora, guardate celebrare il vostro lavoro da chi è inserito, con stipendio, nel disegno per togliervelo – ed eliminare la vostra esistenza e la vostra discendenza. Non dobbiamo ricordare qui gli sforzi, fatti anche in sede europea, che i sindacati hanno fatto per il feticidio.   Nessuno dei vostri lavori è al riparo dal disegno mortale che avanza: se vi hanno detto che imparando a programmare avreste avuto sempre lavoro, provatelo a ripetere alle migliaia di licenziati alla IBM, come in tantissimi altri colossi tecnologici, sostituiti dall’Intelligenza Artificiale.   Nessuno è al sicuro: i grafici, cosa pensano di fare davanti alla presenza di incredibili programmi text-to-image, dove digiti cosa vuoi vedere e ti viene servito in un’immagine perfetta?   Attori, registi, produttori cinetelevisivi, cosa potranno di fronte ai software come Sora di ChatGPT, che promette di generare sequenze video a partire da semplici richieste? Sappiamo che l’ultimo sciopero ad Hollywood verteva su questo, e che già operano società di computer grafica talmente ultrarealista da aver disintermediato regioni immense della filiera.   Domani, cioè già oggi, tocca agli insegnanti. Ai bancari. Ai lavoratori dei fast food. A qualsiasi lavoratore. Alla realtà stessa.   Tuttavia, notatelo, nessun sindacato parla di fermare l’Intelligenza Artificiale. Vi parlano di cambiamento climatico, combustibili fossili, etc.   Lo fanno dopo aver assistito all’assassinio, con il green pass e l’obbligo al vaccino genico, dell’articolo 1 del loro libro sacro, il dogma primigenio della loro religione: ve lo abbiamo detto, non ci credono nemmeno loro.   E quindi, se anche quest’anno un boss sindacale, dinanzi al milione di ebeti ammassati per il concertone del Primo maggio, dovesse d’improvviso farsi scappare di nuovo l’espressione «Nuovo Ordine Mondiale», beh, sappiamo bene di cosa si tratta.   Non c’entrano le ricorrenze druidiche primaverili, qui siamo altrove nel calendario, in un’altra festa importante: sotto sotto, negli auguri ai bravi lavoratori, vi stanno dicendo che arriva il Natale. E che voi siete i tacchini.   Buon lavoro.   Roberto Dal Bosco

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Pensiero

I biofascisti contro il fascismo 1.0: ecco la patetica commedia dell’antifascismo

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Ho sempre provato un certo disagio di fronte agli eroi di cartapesta creati dalla filiera economica della «cultura» nazionale. È l’apparato industrial-intellettuale che passa dai grandi editori (una volta soprattutto Feltrinelli, ma in realtà un po’ tutti, specie in era marinaberlusconiana), si innerva sui giornali (Repubblica, a seguire, come sempre il Corriere, e giù gli altri), corre per le librerie di tutta Italia (con incontri dove vanno, magari, trenta persone pensionate in tutto) e si riversa, oltre che nei teatri, nella TV pubblica a tutte le ore, soprattutto quelle notturne.

 

Avete presente: gli «intellettuali», gli «scrittori», quelli che hanno pubblicato un libro, a volte, tragicamente, un «romanzo». I giornalisti, i librai, gli enti teatrali, i dirigenti televisivi ve li indicano come persone da ascoltare, da seguire. Sono dei contenuti importanti, cui dovete dare la vostra attenzione.

 

Basta leggere qualche pagina delle loro opere per capire di trovarsi davanti al vuoto pneumatico, e quindi tornare con la mente all’ineludibile legge di Marshall McLuhan: il medium è il messaggio.

 

Cioè, qualsiasi «scrittore» vi propongano – in libreria, in televisione, al teatro comunale, sul giornale – non è che vogliano davvero portarvi un suo messaggio, una sua riflessione, un suo pensiero (di solito, anzi, non ce n’è traccia), ma vogliono semplicemente tenervi incollati al medium, cioè al sistema. Consuma questo importante autore di libri, ti dicono, ma in verità quello che stanno davvero chiedendo è che non cambi canale: resta con noi, non staccarti dal continuum dell’industria culturale nazionale.

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È una questione di rinforzo della dipendenza sistemica, camuffata da nobile impulso illuminista all’educazione: leggi qui, sarai migliore. O con più sincerità: fatti intrattenere da noi, è l’unica via.

 

Una questione di identità, di classe sociale. Ecco perché ci ritroviamo, tra i tanti scrittori che ci infliggono, un discreto numero di professori. Essi divengono la proiezione del famigerato «ceto medio riflessivo», cioè di quantità di insegnanti di elementari, medie e superiori (e università: vertice della sottocasta dell’istruzione statale) che si sentono migliori perché leggono i libri, e che sperano che, un giorno, leggendo Repubblica e collane Feltrinelli magari anche a loro un giorno daranno 15 minuti di gloria letteraria.

 

La cultura di sinistra – cioè la cultura italiana – vive di fatto su un grande ricatto identitario: se non consumi il prodotto culturale nazionale, se quindi non credi a tutti gli assiomi che vi sono inseriti (civili, storici, politici, religiosi, «laici»), se fuori dalla storia. Impresentabile, invisibile. Questa cesura, come in ogni altro campo della vita, si è rivelata in tutta la sua oscenità durante il COVID.

 

Ricordate, infatti, dove stavano gli intellettuali, durante il biennio di lockdown e sieri genici? Ricordate gli editoriali sui giornali? Gli inni al generale vaccinaro, e magari pure l’occhiolino fatto ad un possibile «golpe» pro-siero? Ricordate gli articoli in cui lo scrittore diceva, sconsolato, di aver trovato tra i suoi amici dei no-vax? Ricordate le preghiere dei saggi affinché nel Paese fosse realizzata l’apartheid biotica, che poi di fatto è stata concretata?

 

Per questo sul «caso Scurati», che tiene banco sui giornali ancora adesso, ho delle idee un po’ diverse da quelle che avrete letto in giro.

 

Diciamo intanto, che la figura dello Scurati ce la ho in qualche modo presente, perché rammento quando fu inserita nel circuito culturale ancora anni fa. Nel 2005, ad un premio letterario – il gateway per far entrare nel sistema-Paese nuovi personaggi cartonati con le loro idee sincero-democratiche – attaccò Bruno Vespa: di suo una cosa per cui, visti gli ultimi anni di mRNA e Zelens’kyj, sarebbe da stringergli la mano, ma il tono sarebbe stato un po’ pesante: «se dovessi uccidere qualcuno, questo sarebbe lei», avrebbe detto criticando il conduttore di Porta a Porta.

 

Il personaggio del resto pare essere focoso: nei giorni scorsi ha accusato, in un’intervista su un giornale straniero, il TG1, per poi scusarsi, e dare la colpa a tutta questa situazione che lo turba molto.

 

La simpatia a pelle che mi sale subito: le foto che lo ritraggono, alto e severo, mostrano questo sguardo duro e non centratissimo, e profili dove pare mancare il mento – cosa che potrebbe essere, in realtà, un preciso messaggio politico, ma è un pensiero che butto lì, come altro, per satira.

 

Perché l’uomo ha pubblicato una serie di libri sul mento più pronunciato del secolo – quello del Duce Benito Mussolini. Migliaia e migliaia di libri intitolati tutti grottescamente M., come se fosse M il Mostro di Duesseldorf, in realtà è uno dei babau assiomatici che servono al sistema culturale italiano per tenersi in piedi.

 

Eccerto: Roberto Saviano, uno dei principi del sistema culturale nazionale, scrive libri contro la Camorra, anche se gli effetti – visibili soprattutto in TV – hanno fatto esclamare a qualcuno che alla fine, eterogenesi dei fini, quello che si ottiene è la sua apologia.

 

Quindi: addosso – ancora – al cadavere appeso a Piazzale Loreto (che Renovatio 21 un anno fa ha modestamente chiesto di ribattezzare come «Piazzale Angleton»). Scriviamoci sopra un romanzo, anzi dei romanzi, una saga che Il Trono di Spade deve spostarsi. Ma quale banalità del male: fatecelo scrivere, fatecelo vendere, ‘sto male!

 

Mi viene in mente l’articolo di ferocia assoluta che gli riservò, sul Corriere, Ernesto Galli della Loggia, che descrisse il suo senso di sgomento di fronte ad errori storici incredibili – perché provenienti da uno scrittore, un intellettuale, un editore, e la ridda di correttori di bozze, consulenti, editor del caso – contenuti nel testo.

 

Il Gallo della Loggia non fu tenero: «Voglio sperare che ancora oggi se a un esame di licenza liceale uno studente attribuisse a Carducci l’espressione «la grande proletaria» (invece che a Giovanni Pascoli, che la coniò per l’Italia che si accingeva a occupare la Libia ), e definisse Benedetto Croce un «professore» (lui che per tutta la vita gratificò di tutto il disprezzo immaginabile l’Università e i suoi professori, che fu l’antiaccademismo vivente), voglio sperare, dicevo, che lo sciagurato correrebbe seri rischi di essere bocciato».

 

Giù duro: «Non si tratta di due errori qualunque, infatti. Sommati significano in pratica non essere in grado di orientarsi nella storia culturale italiana della prima metà del Novecento. Non possedere alcuni punti di riferimento essenziali. Se poi il medesimo studente avesse pure sbagliato la data di Caporetto, avesse detto che Antonio Salandra, presidente del Consiglio che decise l’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, “porta sulla coscienza sei milioni di morti” (un antesignano pugliese di Hitler insomma), avesse poi definito Antonio Gramsci “un politologo”, avesse scritto che alla Scala nel 1846 lavoravano degli «elettricisti» e che nel 1922 al Viminale ticchettavano «le telescriventi», e poi ancora, come se non bastasse, a commento della marcia su Roma avesse riportato alcune righe attribuendole a “Monsignor Borgongini Duca, ambasciatore inglese presso la Santa Sede” (!!) , e a commento della seduta della Camera sulla fiducia al governo Mussolini avesse citato una lettera di Francesco De Sanctis datandola 17 novembre 1922 (quando l’autore avrebbe avuto 105 anni!), beh: spero proprio che a questo punto il suddetto studente sarebbe sicuro di prendersi una solenne bocciatura».

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Tanta roba. Tuttavia soprattutto uno di questi inguardabili errori ci sembra interessante: nel suo romanzone mussoliniano, lo Scurati scrive che gli italiani morti durante la Prima Guerra Mondiale erano sei milioni. Secondo i calcoli storici, i morti sono stati – compresi quelli della pandemia della Spagnola (chiamata così anche se può darsi che venga, come tante altre epidemie, dai vaccini) – un milione. Tuttavia, come resistere alla coazione a ripetere la cifra fatale dei sei milioni? Difficile: l’industria culturale, i sei milioni te li ripete ogni cinque minuti.

 

Ma che importa, alla fine. Rileva – ribadiamolo bene – solo che il canale resti saldo. Qualche refrain, qualche tormentone piazzato magari anche in modo errato, fa giuoco alla tenuta dell’impianto di trasmissione. Tenetelo sempre a mente: il medium è il messaggio.

 

Ecco perché quando è scoppiato lo scandalo della RAI melonica che «censura» il tizio, non è che ci siamo scomposti più di tanto.

 

In primis, perché sappiamo da dove arriva, che cosa rappresenta, qual è il messaggio – cioè il medium. Il mezzo dell’industria cultura italiana deve ripetere i suoi triti dogmi (perché agli intellettuali non è richiesta la fantasia, né l’estro, né il genio: anzi) con cui è stata imbastita da quando, durante il famoso patto racconto da Ettore Bernabei nel libro L’uomo di fiducia, De Gasperi cedette la cultura a Togliatti e al PCI – e le banche a Mattioli e alla massoneria.

 

Che ci volete fare: mica la mela può cadere lontano dall’albero. Piante cresciute con decadi di letame «laico» e sincero-democratico, che frutti possono dare?

 

Il problema, quindi, è più profondo di un’eventuale museruola ad un intellettuale sistemico: è l’esistenza del sistema, e la sua persistenza nonostante qualsiasi governo di destra sperimentato dal 1994 ad oggi.

 

Non è questo, il punto che ci interessa sviluppare qui, purtuttavia.

 

La cosa che ci sconvolge, e vedere, a quattro anni dalla catastrofe di Wuhan, quanti anni luce il sistema politico-culturale sia distante dalla nostra visione – cioè dalla realtà. La politica, la storia, la letteratura dei normaloidi è a tal punto divorziata dalla sostanza dalle cose, che lo spettacolino delle sue beghe interne ci crea imbarazzo, malessere, se non ci fa vomitare punto e basta.

 

È stato ricordato che Scurati, quello della lettera «antifascista» da leggere alla TV pubblica, aveva scritto sul Corriere un editoriale in cui osannava il premier Draghi, lo implorava di tornare al suo posto: massì, il tecnocrate che nessuno aveva votato, calato per motivi imperscrutabili in luoghi fondamentali – il panfilo Britannia, dove salutò con affetto gli «Invisibili Britannici»; l’Eurotorre di Francoforte, luogo dove i tedeschi mai dovrebbero volere un italiano, e invece – piace tanto all’intellettuale antifascista.

 

Scommettiamo che, se lo sapesse, godrebbe anche al pensiero del ruolo primario del Draghi nel primo vero atto di guerra economica della storia umana, ovvero il congelamento dei beni della Banca di Russia detenuti all’Estero. Contro ogni legge internazionale, contro ogni decoro diplomatico (nemmeno durante la Seconda Guerra Mondiale…), contro ogni prospettiva a medio termine (l’effetto subitaneo: l’accelerazione della de-dollarizzazione): ma che importa, al cervello antifascistico? Bisogna applaudire i Draghi della palude, sempre, e spellarsi le mani.

 

Non solo. In una clip del novembre 2020 proveniente da La7 – lo sfogo televisivo del gruppo di via Solferino – lo Scurati affrontava di petto l’altra grande questione democratica degli ultimi anni. «Il 25% degli italiani, che secondo un sondaggio SVG sono complottisti o negazionisti» incalzava Lili Gruber. «Un dato assolutamente inquietante» replicava Scurati (mentre, a lato, l’idolo grillino Andrea Scanzi scuoteva la testa con vigore). Dice che il dato deve far riflettere «su cosa è stata l’Italia negli ultimo 10, 20 anni (…) su quale piccolo e significativo arretramento di civiltà abbiamo patito in questi decenni».

 

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L’esitazione davanti al siero genico sperimentale è un segno della decadenza della civiltà italiana – quella, di cui parlava imperialmente Mussolini, o quella della Costituzione, calpestata in ogni sua parte dall’obbligo vaccinale? Un attimo, questi ultimi sono pensieri nostri.

 

«Il discorso ha a che fare con l’educazione, con l’istruzione, con la cultura», dice ancora lo scrittore. Insomma, sei no-vax, perché sei ignorante – non hai studiato a scuola, né letto i libri propostiti dalla libreria, compresi magari quelli fondamentali dello stesso Scurati.

 

«Il fatto che un italiano su quattro stia arretrando su posizioni oscurantiste premoderne di ignoranza arrogante e professa, non nascosta, nella diffidenza dei riguardi dei vaccini, che sono una delle grandi invenzioni dell’umanità, nella diffidenza nei riguardi della scienza, ci deve far ricordare che la scuola, l’istruzione e l’educazione sono fondamentali per il Paese, non solo durante l’emergenza» continua lo Scurato.

 

Sì davvero: sta parlando della scuola, dove abbiamo visto ogni sorta di discriminazione biologica (il green pass anche per entrare nel sito dell’Università!), dove è penetrato il proselitismo omotransessualista più agghiacciante, dove ai bambini di otto anni vengono lette lettere anti-femminicidio sull’onda di casi di cronaca ancora tecnicamente irrisolti, dove sono in corso programmi rivoltanti di digitalizzazione tecnocratica della vita dei ragazzi?

 

Sta parlando sul serio di arretramento della civiltà, per poi tirare fuori, come esempio, la scuola, distruttrice della civiltà?

 

È così. Parlano per ritornelli sempreverdi («vaccini grande conquista»… «la scuola è importante»… «sei milioni di morti»), discorsi che non aggiungono nulla, non hanno un pensiero alcuno da offrire. Non dati, non riflessioni, né profondità di alcun tipo – niente.

 

È chiaro, soprattutto, che la nostra idea di civiltà è oramai incompatibile con quella che loro chiamano «civiltà», che per noi è invece dissoluzione, è anti-civiltà, è Cultura della Morte. E non è questione solo di idee – si tratta della nostra stessa esistenza quotidiana, della vita nostra, e di quella dei nostri figli.

 

Perché quelli che si dicono «democratici», quelli che ci vendono i loro discorsi «antifascisti», sono gli stessi che hanno inflitto alle nostre vite gli orrori più atroci, perfino a livello biomolecolare.

 

Gli «antifascisti», hanno spinto affinché la nostra esistenza personale e famigliare fosse devastata. Vi ritorna in mente? C’è chi ha perso il lavoro, c’è chi ha perso i parenti, c’è chi ha perso tutto – mentre tutti quanti perdevamo la libertà.

 

Però scusate: ma se la parola «fascista» è semanticamente riferibile a ciò che è autoritario, soverchiante, incapace di discutere, irriguardoso della dignità della persona, altamente discriminante (fino al razzismo), violento… allora, che cos’è, quella che abbiamo vissuto in pandemia, se non una piccola era fascista?

 

È meglio chiamarli con un termine più appropriato: essendo alla base dell’immane processo di sottomissione subìto un fattore biologico – la malattia, il siero genico sperimentale – è il caso di definirli, più che fascisti, «biofascisti». Gli antifascisti – come esattamente i fascisti ipoteticamente ancora in circolazione ed i postfascisti al governo – sono, esattamente, biofascisti.

 

Dal ventennio fascista, al biennio biofascista: che non è finito, perché nessuno, né al governo né all’opposizione, ha accettato di rivedere lo stupro della supposta democrazia popolare visto col COVID. Anzi: rilanciano, la Meloni firma a Bali per i passaporti vaccinali elettronici transnazionali, mentre masnade di operatori sanitari e trafficanti politici lavorano alacremente – pagati da voi – per l’approvazione sottotraccia del Trattato Pandemico OMS, che sarà un bel capitolo della fine certificata delle democrazie costituzionali.

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E già, la Costituzione. Gli intellettuali credono sia un testo importantissimo, ce lo hanno ripetuto ad nauseam, e il motivo è semplicissimo: avendo cacciato per ordine massonico il sacro dalla politica, non resta che basare lo Stato su un libro.

 

Abbiamo visto quanto ci credono: la Costituzione è stata tradita perfino nel suo primo, ridicolmente sovietico, articolo, quello della Repubblica fondata sul lavoro – se hai il green pass, ovvio, e i sindacati sono d’accordo con Draghi, gli scrivono lettere d’amore in concerto con i padroni di Confindustria, mentre dal palco, circondati da mascherine, i lider maximos sindacalisti parlano veramente di Nuovo Ordine Mondiale.

 

Diventa a questo punto definitivamente insopportabile guardare la pantomima «democratica» dei personaggi TV.

 

Palano di popolo, e sono quelli che una parte consistente del popolo italiano – qualcuno dice, dal 1978, sei milioni, sul serio – lo ha sterminato per legge, con l’aborto di Stato.

 

Parlano di democrazia, ma il popolo lo hanno chiuso in casa, sottomesso, capovolgendo lo Stato di Diritto: non più il cittadino latore di diritti, ma obbligato a coercizioni che riguardano la sua stessa biologia.

 

Parlano di Costituzione, e hanno tradito l’articolo 1, l’articolo 16, l’articolo 21, l’articolo 32 e tutti gli altri che il lettore vorrà aggiungere.

 

Parlano di antifascismo, dopo aver inflitto alla popolazione anni di terrore biofascista, dove se non accettavi di modificare la tua genetica cellulare non potevi entrare nei negozi – sì, come gli ebrei dopo le leggi razziali, come mostrano tutti quei filmetti strappalacrime come La vita è bella, che certamente in parte avete pagato sempre voi.

 

Parlano di antifascismo, e sono gli stessi che finanziano ed armano un regime dove i collaborazionisti del Terzo Reich sono celebrati pubblicamente come eroi (anche fuori dai confini: ricorderete il caso di Trudeau che porta l’ex SS al Parlamento canadese per farlo applaudire) e dove armi e danari finiscono a Reggimenti provenienti da gruppi dove la svastica e le lettere runiche sono la norma, come simbolo, come tatuaggio, come ideologia.

 

Gli antifascisti, oggi, sostengono i neonazisti. Lo spettacolo lugubre degli ultimi cortei 25 aprile con tripudi di bandiere ucraine e della NATO rimarrà negli annali per i posteri che giustamente si gratteranno la testa cercando di capire.

 

I biofascisti, del resto, non è che si tirano indietro nei confronti dei paradossi. Prendiamo, ad esempio, il grande tema «antifascista» della provetta. Un idolo, per la sinistra: libertà riproduttiva, che vuol dire che anche gli LGBT si possono produrre la prole che la natura non consentirebbe loro di avere – si chiama progresso, bellezza.

 

Arrivano, tuttavia, tante storie aneddotiche interessanti. Per esempio: coppie lesbiche che spesse volte si rivolgono a banche del seme… in Danimarca. Essì: il bimbo lo vogliono biondo dolicocefalo occhioceruleo, esattamente come prescritto da Zio Adolf, che, poverino, lui la biotecnologia per farlo non ce l’aveva, limitandosi nel fallito programma Lebensborn a fare montare ragazzotte di paese ben disposte a giovinotti dai chiari capelli scelti tra le SS, per poi ucciderli subito dopo gettandoli nella fornace della guerra. È così: infatti quello si chiamava, appunto, «nazismo», e non «bionazismo», come invece dobbiamo chiamarlo oggi.

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E chiedetevi pure anche, cari antifascisti biofascisti: quanti dei politici gay, magari con figlio prodotto via utero in affitto all’estero fatto entrare in Italia in spregio alla legge 40/2004 (i giudici, dove sono?), secondo voi hanno sfogliato un bel catalogo delle «donatrici» di ovulo, scegliendo magari una bella ragazza bionda e atletica, come ad esempio l’Ucraina – capitale mondiale della surrogata anche sotto le bombe – offre a bizzeffe?

 

È difficile rendersi conto di cosa si tratta? La parola è conosciuta, in verità: eugenetica.

 

È più arduo capire che l’eugenetica biofascista opera ogni giorno anche al di fuori dei casi arcobalenati: la selezione degli embrioni, compiuta dagli «esperti della fertilità» che ora sono pagati dal contribuente (la FIVET è nei LEA) è, molto semplicemente un’altra forma di eugenetica, solo che invece dei cataloghi delle «biobanche» qui si usa il microscopio.

 

La sostanza non cambia, ed è quello che andiamo da sempre ripetendo su Renovatio 21. La continuità tra il nazismo e la moderna società riprogenetica è assoluta. Hitler ha perso la guerra cinetica, ha vinto quella bioetica. O meglio: i padroni di Hitler – quelli che ne hanno finanziato l’ascesa – sono esattamente gli stessi che hanno, da più di un secolo, elargito danari affinché si instaurasse l’eugenetica in America, in Europa, perfino in Cina.

 

E sono gli stessi – un nome lo vogliamo fare: la famiglia Rockefeller – che hanno suscitato e foraggiato quantità di movimenti fondamentali per la sinistra antifascista, cioè biofascista: il femminismo, ad esempio, o il movimento globale per l’aborto.

 

Capite, cari lettori, che questa è una visione della Storia abissalmente distante da quella che possono avere Scurati o la Meloni e chiunque altro vi propongano TV e giornali.

 

Perché quello che possono fare, loro, è farvi rimasticare quello che è stato dato loro da masticare, ricordando che a nessuno di loro è stata chiesta originalità e profondità di pensiero. La Storia, vi dicono, è fatta così… i fascisti, gli antifascisti, etc.

 

Qui abbiamo una visione radicalmente diversa. L’unico modo possibile per vedere il mondo, l’universo stesso, è quello che ha al suo centro il fenomeno più fondamentale del cosmo tutto: la vita.

 

Non comprendere che la Storia si sta rivelando semplicemente come una danza, fisica e metafisica, tra la Vita e la Morte – con lo Stato moderno e le sue schiere a combattere per quest’ultima – significa non aver compreso nulla. E quindi, accettare ogni possibile angheria che l’Impero della Morte prepara: l’aborto, la provetta, il vaccino… tutte realtà che qui abbiamo dimostrato essere intimamente interrelate, tutte questioni che toccano direttamente, carnalmente, le vostre esistenze, e soprattutto quelle dei vostri figli.

 

Così, in questa ignoranza invincibile, quella per lo stesso dono più alto che si è ricevuti dal creatore, l’antifascismo può trasformarsi tranquillamente in biofascismo, e continuare la sua patetica sceneggiata di lamento contro il fascismo 1.0.

 

In un articolo per il 25 aprile di diversi anni fa («Quello che Mussolini non ha capito: il dominio della Cultura della Morte»), scrivevamo parole che ci va qui di ripetere.

 

«Non è il capitale, non è il danaro ad essere in gioco. Non è nemmeno la terra, lo spazio, la geopolitica che interessa ai potenti dell’universo, oggi come allora. Ai principi di questo mondo interessa la distruzione dell’uomo. La sua umiliazione, il suo controllo, la sua riduzione».

 

«Non è visibile, per chi pensa ancora con le categorie ideologiche pubbliche dell’Ottocento o del Novecento, il cambio del paradigma già avvenuto. Non siamo più in una fase espansiva dell’essere (la produzione dell’acciaio dei sovietici, il Lebensraum dei nazisti, il natalismo dei fascismi, il consumismo delle democrazie liberali) ma in una fase di contrazione programmata, forzata. Meno figli, meno lavoro, meno esseri umani: decrescita».

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«Mussolini non poteva capire che è l’ascesa del biopotere il vero verso della Storia; i suoi oppositori nemmeno: anzi, ora sono divenuti kapò di qualcosa di molto peggiore del fascismo, il biofascismo: tutti i tuoi diritti sono sospesi, perfino il lavoro, la censura è operata su tutti i livelli, ogni libertà, perfino quella di spostamento, perfino quella di vedere i famigliari, è distrutta».

 

Già, Mussolini non aveva capito che il fascismo non serviva più al programma: il signore del mondo non voleva controllare più solo gli imperi e le nazioni, ma il corpo umano stesso, perfino nel codice più sacro contenuto dentro le sue cellule. Il Duce non poteva capire che il fascismo andava sostituito con il biofascismo. Lo hanno fatto, tra bandiere arcobaleno e ghigni pannelliani, facendo pure continuare l’oscena commedia dell’antifascismo militante, televisivo, autistico – perché altre sceneggiature, con evidenza, non ne hanno, né ne saprebbero scrivere.

 

Il programma è più vasto, ad ogni modo, di quello visibile tra Mussolini e gli intellettuali prodotti dal sistema culturale nazionale. Il programma è contenuto in un grande bestseller, nell’ultimo testo che lo compone. Si chiama Sacra Bibbia, da leggersi soprattutto quello che è definito Il libro della Rivelazione. Ci rendiamo conto che pochi scrittori e professori lo hanno fatto, ancora meno ci hanno creduto, o anche lo hanno preso sul serio per un secondo.

 

Qui noi lo facciamo, eccome. Il programma finale non riguarda la politica partigiana, riguarda l’umanità, la vita e la morte, il mistero dell’iniquità, la catastrofe globale, la fine dei tempi – insomma la vostra anima, e il vostro corpo.

 

Non è che chiediamo a chicchessia di accettarne i segni – i nostri lettori già lo fanno, a giudicare dalle lettere che ci arrivano.

 

Quello che domandiamo, è: non prestate attenzione a nessuna polemica, né alla voce degli intellettuali di cartapesta, né a quella dei politici.

 

Pensate, piuttosto, quanto è lontana da loro, oramai, la vostra concezione del mondo, la vostra visione della Storia, la vostra percezione della realtà, la vostra fede nella Verità.

 

È così: scrittori, deputati, giornalisti, professori, ministri, editori, fascisti, antifascisti, non hanno capito un cazzo.

 

Evitate, cari lettori, di perderci tempo, e concentratevi su ciò che è importante: onorate il Vero, e, soprattutto, cercate la pace interiore – perché a breve, quando sarà la tribolazione, servirà davvero.

 

Roberto Dal Bosco

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