Geopolitica
Fondatore del Battaglione Azov va al Congresso USA
Il co-fondatore del famigerato Battaglione Azov, Giorgi Kuparashvili, ha visitato il Congresso degli Stati Uniti la scorsa settimana, primo incontro con il rappresentante repubblicano del Texas Pete Sessions, il senatore repubblicano dell’Indiana Todd Young e il senatore repubblicano della Florida Rick Scott. Lo riporta EIRN.
Kuparashvili era accompagnato da altri due soldati Azov – Vladyslav Zhaivoronok e Artur Lypka– e dalla moglie del suo protetto, Denys Prokopenko, il quale è stato appena liberato durante lo scambio di prigionieri la scorsa settimana ed è uno dei cinque leader Azov confinati in Turchia per tutta la durata dei combattimenti.
Altri incontri sono stati segnalati ieri dal capo del «Centro d’azione anticorruzione» di Kiev, Daria Kaleniuk, che ha affermato che i soldati Azov hanno avuto incontri con i senatori Joni Ernst, Dan Sullivan, Shelley Moore, Jeanne Shaheen e altri legislatori per discutere di più armi per l’Ucraina.
Kaleniuk ha anche riferito di aver incontrato il capo dell’Ufficio di coordinamento delle sanzioni del Dipartimento di Stato Jim O’Brien, per fare pressioni per designare la Russia come uno stato sponsor del terrorismo e per sequestrare 300 miliardi di dollari in fondi sovrani russi situati all’estero, da consegnare all’Ucraina per comprarsi armi moderne.
Anche il rappresentante democratico della California Adam Schiff è stato fotografato con i soldati Azov.
Kuparashvili combatte «per la sua nativa Georgia» e contro la Russia da oltre due decenni, anche in Kosovo e Iraq. Ha anche combattuto nell’invasione georgiana dell’Abkhazia nel 2008 e ha servito come guardia del corpo per l’allora presidente della Georgia Mikheil Saakashvili, riporta EIRN.
Si è trasferito con Saakashvili in Ucraina nel 2014, dove ha co-fondato il Battaglione Azov. Nel 2016 ha fondato la Scuola Militare Yevhen Konovalets, dal nome del fondatore dell’Organizzazione filonazista dei nazionalisti ucraini. Secondo il giornalista Leonid Ragozin, «la scuola funzionava al di fuori del sistema di istruzione militare ucraino, uno dei tanti motivi per sospettare che Azov fosse altamente autonomo e mai veramente integrato nelle forze armate».
Quando si è trasferito in Ucraina, sua moglie ei suoi figli furono trasferiti in Gran Bretagna, dove ora vivono. Il suo capo e al contempo il suo allievo, Denys Prokopenko, è stato a lungo un combattente di punta per il Battaglione Azov.
È stato il Prokopenko a realizzare il video del 12 aprile da Mariupol, sostenendo che i russi stavano usando armi chimiche contro di loro.
Non furono date prove delle affermazioni, perché «attualmente è impossibile scoprire quale sostanza abbia avvelenato le persone … il luogo dell’attacco è sotto tiro dai russi per nascondere le prove del loro crimine» disse prima di essere catturato dalle forze russe.
Il membro del Congresso Sessions ha negato di aver incontrato soldati Azov, anche se è circolata una foto dell’incontro. In seguito ha spiegato di aver incontrato «un gruppo di persone», ma non sapeva se qualcuno fosse Azov, poiché nessuno «era in uniforme».
Come noto alle cronache italiane, prima che Azovstal fosse espugnata, la moglie di Prokopenko ha fatto un tour mediatico in Italia culminato con un’incontro con papa Bergoglio lo scorso maggio.
Cori a favore del Battaglione Azov si erano sentiti, incredibilmente, per le strade di Nuova York durante manifestazioni ucrainiste.
Come riportato da Renovatio 21, almeno un veterano di Azov ha partecipato ad una sorta di paralimpiade militare tenutasi di recente, con grottesca premiazione a Disney World, tra pupazzi giganti e tatuaggi con il Sonnenrad, il sole nero SS, talvolta coperti, talvolta no.
Le atrocità commesse dal Battaglione Azov sono state sminuite con fastidio da Zelens’kyj durante interviste con TV americane.
Le origini ideologiche naziste (o meglio, ucronaziste) di Azov sono state apertamente e ripetutamente insabbiate sia dagli algoritmi dei social che dall’operato indefinibile dei giornalisti d’Italia e di tutto il mondo, arrivando persino a togliere dal web vecchi articoli che raccontavano la pura verità su svastiche e violenze.
Immagine da Twitter
Geopolitica
Hamas deporrà le armi se uno Stato di Palestina verrà riconosciuto in una soluzione a due Stati
Il funzionario di Hamas Khalil al-Hayya ha dichiarato il 24 aprile che Hamas deporrà le armi se ci fosse uno Stato palestinese in una soluzione a due Stati al conflitto.
In un’intervista di ieri con l’agenzia Associated Press, al-Hayya ha detto che sono disposti ad accettare una tregua di cinque anni o più con Israele e che Hamas si convertirebbe in un partito politico, se si creasse uno Stato palestinese indipendente «in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e vi fosse un ritorno dei profughi palestinesi in conformità con le risoluzioni internazionali».
Al-Hayya è considerato un funzionario di alto rango di Hamas e ha rappresentato Hamas nei negoziati per il cessate il fuoco e lo scambio di ostaggi.
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Nonostante l’importanza di una simile concessione da parte di Hamas, si ritiene improbabile che Israele prenda in considerazione uno scenario del genere, almeno sotto l’attuale governo del primo ministro Benajmin Netanyahu.
Al-Hayya ha dichiarato ad AP che Hamas vuole unirsi all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, guidata dalla fazione rivale di Fatah, per formare un governo unificato per Gaza e la Cisgiordania, spiegando che Hamas accetterebbe «uno Stato palestinese pienamente sovrano in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e il ritorno dei profughi palestinesi in conformità con le risoluzioni internazionali», lungo i confini di Israele pre-1967.
L’ala militare del gruppo, quindi si scioglierebbe.
«Tutte le esperienze delle persone che hanno combattuto contro gli occupanti, quando sono diventate indipendenti e hanno ottenuto i loro diritti e il loro Stato, cosa hanno fatto queste forze? Si sono trasformati in partiti politici e le loro forze combattenti in difesa si sono trasformate nell’esercito nazionale».
Il funzionario di Hamas ha anche detto che un’offensiva a Rafah non riuscirebbe a distruggere Hamas, sottolineando che le forze israeliane «non hanno distrutto più del 20% delle capacità [di Hamas], né umane né sul campo. Se non riescono a sconfiggere [Hamas], qual è la soluzione? La soluzione è andare al consenso».
Per il resto ha confermato che Hamas non si tirerà indietro rispetto alle sue richieste di cessate il fuoco permanente e di ritiro completo delle truppe israeliane.
«Se non abbiamo la certezza che la guerra finirà, perché dovrei consegnare i prigionieri?» ha detto il leader di Hamas riguardo ai restanti ostaggi nelle mani degli islamisti palestinesi.
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«Rifiutiamo categoricamente qualsiasi presenza non palestinese a Gaza, sia in mare che via terra, e tratteremo qualsiasi forza militare presente in questi luoghi, israeliana o meno… come una potenza occupante», ha continuato
Hamas e l’OLP hanno discusso in varie capitali, tra cui Mosca, nel tentativo di raggiungere l’unità, scrive EIRN. Non è noto quale sia lo stato di questi colloqui.
L’intervista di AP è stata registrata a Istanbul, dove Al-Hayya e altri leader di Hamas si sono uniti al leader politico di Hamas Ismail Haniyeh, che ha incontrato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan il 20 aprile. Non c’è stata alcuna reazione immediata da parte di Israele o dell’autore palestinese.
Nel mondo alcune voci filo-israeliane hanno detto che le parole del funzionario di Hamas sarebbero un bluff.
Come riportato da Renovatio 21, in molti negli ultimi mesi hanno ricordato che ai suoi inizi Hamas è stata protetta e nutrita da Israele e in particolare da Netanyahu proprio come antidoto alla prospettiva della soluzione a due Stati.
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Immagine di Al Jazeera English via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic
Geopolitica
Birmania, ancora scontri al confine, il ministro degli Esteri tailandese annulla la visita al confine
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Geopolitica
L’Iran minaccia ancora una volta di spazzare via Israele
Il presidente iraniano Ebrahim Raisi ha minacciato Israele di annientamento se tentasse di attaccare nuovamente l’Iran.
Raisi è arrivato in Pakistan lunedì per una visita di tre giorni. Martedì ha parlato delle recenti tensioni tra Teheran e Gerusalemme Ovest in un evento nel Punjab.
«Se il regime sionista commette ancora una volta un errore e attacca la terra sacra dell’Iran, la situazione sarà diversa, e non è chiaro se rimarrà qualcosa di questo regime», ha detto Raisi all’agenzia di stampa statale IRNA.
Israele non ha mai riconosciuto ufficialmente un attacco aereo del 1° aprile sul consolato iraniano a Damasco, in Siria, che ha ucciso sette alti ufficiali della Forza Quds del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC). Teheran ha tuttavia reagito il 13 aprile, lanciando decine di droni e missili contro diversi obiettivi in Israele.
L’Iran si è scrollato di dosso una serie di esplosioni segnalate vicino alla città di Isfahan lo scorso venerdì, che si diceva fossero una risposta da parte di Israele. Lo Stato degli ebrei non ha riconosciuto l’attacco denunciato, pur criticando un ministro del governo che ne ha parlato a sproposito. Teheran ha scelto di ignorarlo piuttosto che attuare la rapida e severa rappresaglia promessa.
La Repubblica Islamica ha promesso in più occasioni di spazzare via, distruggere o annientare il «regime sionista», espressione con cui spesso chiama Israele.
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Martedì, parlando a Lahore, il Raisi ha promesso di continuare a «sostenere onorevolmente la resistenza palestinese», denunciando gli Stati Uniti e l’Occidente collettivo come «i più grandi violatori dei diritti umani», sottolineando il loro sostegno al «genocidio» israeliano a Gaza.
Nel suo viaggio diplomatico il Raisi ha promesso di incrementare il commercio iraniano con il Pakistan portandolo a 10 miliardi di dollari all’anno. Le relazioni tra i due vicini sono difficili da gennaio, quando Iran e Pakistan hanno scambiato attacchi aerei e droni mirati a “campi terroristici” nei rispettivi territori.
Come riportato da Renovatio 21, negli scorsi giorni Teheran ha dichiarato pubblicamente di sapere dove sono nascoste le atomiche israeliane. Nelle scorse settimane lo Stato Ebraico aveva dichiarato di essere pronto ad attaccare i siti nucleari iraniani.
Negli ultimi mesi l’Iran ha accusato Israele di aver fatto saltare i suoi gasdotti. Hacker legati ad Israele avrebbero rivendicato un ulteriore attacco informatico al sistema di distribuzione delle benzine in Iran.
Sei mesi fa l’Iran ha arrestato e giustiziato tre sospetti agenti del Mossad. All’ONU il ministro degli Esteri iraniano aveva dichiaato che gli USA «non saranno risparmiati» in caso di escalation.
Come riportato da Renovatio 21, anche da Israele a novembre 2023 erano partite minacce secondo le quali l’Iran potrebbe essere «cancellato dalla faccia della terra».
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Immagine di duma.gov.ru via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International
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