Internet
Zuckerberg ammette di avere censurato tutti. Sarà punito lui o il sistema che ha dietro?

Il CEO di Meta Mark Zuckerberg ha ammesso che l’amministrazione Biden ha fatto pressione sulle sue aziende di social media «per censurare determinati contenuti sul COVID-19» e che era sbagliato censurare la storia del laptop di Hunter Biden.
In una lettera indirizzata al presidente della commissione giudiziaria della Camera, il deputato repubblicano Jim Jordan, lo Zuckerberg scrive che «nel 2021, alti funzionari dell’amministrazione Biden, inclusa la Casa Bianca, hanno ripetutamente fatto pressione sui nostri team per mesi affinché censurassero determinati contenuti sul COVID-19, tra cui umorismo e satira, e hanno espresso molta frustrazione nei confronti dei nostri team quando non eravamo d’accordo».
«Alla fine, la decisione se rimuovere o meno i contenuti è stata nostra, e siamo responsabili delle nostre decisioni, comprese le modifiche relative al COVID-19 che abbiamo apportato alla nostra applicazione in seguito a questa pressione», afferma il giovane ultramiliardario.
Mark Zuckerberg just admitted three things:
1. Biden-Harris Admin “pressured” Facebook to censor Americans.
2. Facebook censored Americans.
3. Facebook throttled the Hunter Biden laptop story.
Big win for free speech. pic.twitter.com/ALlbZd9l6K
— House Judiciary GOP 🇺🇸🇺🇸🇺🇸 (@JudiciaryGOP) August 26, 2024
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«Credo che la pressione del governo fosse sbagliata e mi dispiace che non ne siamo stati più espliciti», continua l’amministratore delegato, presidente e fondatore di Facebook. «Penso anche che abbiamo fatto delle scelte che, a posteriori e con nuove informazioni, oggi non faremmo».
«Come ho detto ai nostri team in quel momento, sono fermamente convinto che non dovremmo compromettere i nostri standard di contenuto a causa delle pressioni di qualsiasi amministrazione, in entrambe le direzioni, e siamo pronti a reagire se dovesse succedere di nuovo qualcosa del genere».
Lo Zuck non si è fermato al coronavirus. Ha anche ammesso che è stato un errore censurare l’articolo-bomba del New York Post sul laptop di Hunter Biden prima delle elezioni del 2020.
«In una situazione separata, l’FBI ci ha messo in guardia su una potenziale operazione di disinformazione russa sulla famiglia Biden e Burisma in vista delle elezioni del 2020», si legge nella lettera. «Quell’autunno, quando abbiamo letto un articolo del New York Post che riportava accuse di corruzione che coinvolgevano la famiglia dell’allora candidato democratico alla presidenza Joe Biden, abbiamo inviato la storia ai fact-checker per una revisione e l’abbiamo temporaneamente declassata in attesa di una risposta».
«Da allora è stato chiarito che il reportage non era disinformazione russa e, a posteriori, non avremmo dovuto sminuire la notizia», ha affermato Zuckerberg, che non si avventura in pensieri sul fatto che, a questo punto, possiamo definire le elezioni che si sarebbero tenute di lì a poche settimane come falsate, viziate in partenza.
Di più: ecco che vengono a galla gli «Zuck-bucks», cioè l’investimento da quasi mezzo miliardo di dollari fatto dal fondatore di Facebook per salvaguardare «l’integrità elettorale». In vista delle elezioni presidenziali del 2020, lo Zuckerberg aveva donato più di 400 milioni di dollari a un’organizzazione non-profit di sinistra, The Center for Technology and Civic Life, che ha poi distribuito il denaro agli uffici elettorali dei governi locali, in gran parte nelle contee a maggioranza democratica. Varie analisi hanno dimostrato che il finanziamento ha notevolmente aumentato i margini di voto di Joe Biden in stati chiave cruciali e potrebbe aver determinato l’esito delle elezioni.
«Alcune persone credono» che il suo enorme investimento finanziario nel sostegno alle «infrastrutture elettorali» durante le elezioni presidenziali del 2020 «abbia favorito un partito rispetto all’altro», ovvero i Democratici, dice lo Zuckerbergo nella missiva alla Commissione.
Tali contributi «sono stati concepiti per essere imparziali e distribuiti tra comunità urbane, rurali e suburbane».
«Il mio obiettivo è essere neutrale e non giocare un ruolo in un modo o nell’altro, o anche solo sembrare di giocare un ruolo. Quindi non ho intenzione di dare un contributo simile in questo ciclo», ha detto.
Queste improvvise multiple ammissioni stanno facendo discutere il mondo. È praticamente impossibile che il lettore non sappia quello che è successo: durante il biennio pandemico Facebook, il più popolato social della Terra, fece scattare la mannaia della censura su tutti i suoi utenti. Era proibito non solo mettere in discussione restrizioni COVID, vaccini ed origini del virus; in alcuni casi diveniva lampante che diveniva problematico anche solo parlarne, citare la questione, mentre milioni di persone, orwellianamente, si piegavano o restando in silenzio o tentando di esprimersi in quello che chiamano algospeak («v**cino, C*OVID, etc.).
In realtà, se il lettore è presente su una piattaforma Meta – cioè Facebook e Instagram, restando la finzione del Whatsapp libero (nonostante le spinte della Casa Bianca e di Bill Gates, che teniamo a mente è in qualche parte socio di Facebook) – è altamente improbabile che non ne sia stato toccato, anche solo con la forma dello shadow banning: pubblicate quello che volete, poi tanto la piattaforma non la mostra a nessuno.
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Come sa chi ci segue, Renovatio 21 fu ripetutamente sospesa, per poi arrivare alla soluzione finale: disintegrazione della pagina Facebook e pure degli account personali associati. Chi scrive si è trovato quindi d’improvviso non più senza lo strumento che portava il traffico a questo sito, ma a tre lustri di memorie, contatti, pensieri, immagini personali. Perché hanno colpito proprio il profilo, cancellandolo – e più avanti, in una sorta di capriccio non subito spiegabile, hanno cancellato pure altre pagine legate alla mia persona, «Civiltà del Tabarro» (gioviale paginetta dedicata all’imbattibile ed eterno soprabito, con migliaia di follower) e pure la paginetta di organizzazione della Messa antica nel mio territorio.
Come abbiamo già avuto modo di raccontare, portammo Meta in tribunale, dove il giudice emise l’ordinanza di ridarci la pagina e l’account. Tuttavia, abbiamo avuto subito l’impressione che la pagina fosse shadowbannata: le diecine, centinaia, migliaia di like e condivisioni (in un caso arrivammo a più di 12.000 per un singolo video: un record impressionante) di un tempo si erano ridotte a due, tre.
È bene ricordare che non si trattava di una paginetta piccola: eravamo arrivati quasi a 20 mila follower, e continuavamo a crescere. Fino a che ci sembra pure – ma stiamo scavando con la memoria – ci sia stato detto che sopra un certo tetto non potevamo andare. Ad ogni modo, la pagina attualmente è abbandonata, ed è facile capire perché.
Di fatto, ci è diventato chiaro che avevamo a che fare con un sistema malvagio. Con pervicacia, portavano avanti un’agenda politica (biopolitica) in spregio al rispetto per l’utente e per la legge italiana. Secondo il diritto commerciale italiano, non è possibile cambiare un contratto senza che una parte avvisi l’altra: e gli «Standard della Comunità», eternamente cangianti per inserirvi qualsiasi cosa (del tipo: l’impossibilità di dire, anche solo in via ipotetica, anche solo riportando il pensiero di esperti, che il COVID potrebbe essere una bioarma), possono costituire una violazione – così almeno pensava il mio avvocato Gianni Correggiari (pace all’anima sua).
Inoltre, c’è questa cosa che si chiama Costituzione, che in quei mesi mostrò di non contare nulla. La Carta, e non solo quella italiana, prevede la libertà di espressione, un tratto che ci hanno spiegato (e continuano pure a ripeterlo!) è fondamentale per la Democrazia. Pare invece che abbiano consentito tranquillamente ad una multinazionale straniera di calpestare i diritti costituzionali degli italiani. Perché può anche essere vero che si tratta di una piattaforma privata (normata, ripetiamo, da un rapporto commerciale, dove voi siete in realtà il prodotto: per questo Facebook non dice più che è gratis) ma non esiste che io possa imbavagliare qualcuno che viene a cena a casa mia, né che lo possa mettere alla porta (specie in presenza di un rapporto legale di qualche tipo) tenendomi pure delle cose sue, anche fossero dati intangibili.
Il motivo perché davanti a questo macello del diritto – che si innesta nel più grande quadro pandemico del massacro finale dello Stato del diritto, dell’inversione del rapporto tra cittadino e Stato – nessuno ci abbia difesi è semplice. I politici – tutti – sono sottomessi al software dello Zuckerberg, perché chissà mai, se gli diventi antipatico, magari tolgono (senza che tu nemmeno in realtà possa accorgertene, possa averne prova) audience ai tuoi post. E a quel punto, i voti, come li vai a prendere?
Salvini, come noto, fece di Facebook lo strumento principale della sua cavalcata politica – ricorderete «la Bestia» e la sua ingloriosa fine. La Meloni non fece, ci pare, che copiare quanto fece Salvini. È quindi improbabile che i vertici si arrischino di difendere i loro elettori contro il guardiano che di fatto permette di arrivare ad essi. Ecco il piccolo segreto di Pulcinella sull’impunità di Facebook: hanno tutti troppa paura. E se i leader lasciano stare, cosa pensate possa fare il deputatino che non sa nemmeno se racimolerà i voti necessari a farsi rieleggere?
Per questo ritengo che non ci sia davvero nulla da festeggiare rispetto all’ammissione dello Zuckerberg, che sta solo cercando di fare l’occhiolino al possibile ritorno alla Casa Bianca di Trump, il quale – ricordiamolo – ha definito Facebook come «nemico del popolo», invitando intere nazioni a portare la società in tribunale.
In rete circola qualche lettura della mossa: il ragazzo ebreo del New Jersey in realtà si sta solo portando avanti rispetto ad un possibile whistleblower, una gola profonda che potrebbe ora saltare fuori e spiattellare cose ancora più imbarazzanti – rammentando sempre che il connubio tra lo Stato e i privati per limitare la libertà di parola è severamente proibito dal Primo Emendamento della Costituzione americana, che come quella italiana è stata fatta a pezzettini dal coronavirus.
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Altri dicono che lo Zuckerberg, che a questo punto potrebbe essere accusato apertamente di interferenza elettorale nel 2020, stia cercando di proteggersi da qualcosa di più grande: processi massivi della nuova presidenza Trump, in cui potrebbe essere punito in tribunale con severità esemplare.
A questo punto è il caso che facciamo cascare anche un’ulteriore maschera: la censura su Facebook non è iniziata con il COVID. Chi scrive può testimoniare di essere stato testimone di uno strano fenomeno ancora una decina di anni fa: d’improvviso, credo fosse il 2014, Facebook mi tolse, senza alcune spiegazioni, l’accesso alla pagina. Mi venne detto che avrei dovuto caricare un documento per riavere accesso. Ebbene sì: sono stato, purtroppo, pioniere anche della cancel culture e della censura elettronica.
In nessun modo mi era chiaro cosa avessi fatto, né vi era modo di saperlo. Bada bene: la mia presenza sui social era piuttosto pacata, perché, per questioni anche professionali oltre che di gusto personale, vi tenevo un profilo piuttosto basso. Niente parolacce, insulti, opinioni al Napalm. Eppure, eccomi cancellato da un sito al quale avevo fornito pensieri, foto, immagini già da 7 anni: mi iscrissi un giorno a Londra nel 2007, vedendo che tutte le amiche mi invitavano a provare questa cosa nuova. «Sono su Facebook» sembrava aver rimpiazzato lo scambiarsi il numero di telefono…
Di primo acchito, rifiutai di piegarmi all’ingiunzione posta per riavere l’account sequestrato. Ma come si permettono? Ma cosa è questa roba? Ma è legale che mi chiedano un documento d’identità? Chiesi allora ad un mio collega di verificare dal suo profilo: ogni mia presenza sul social era sparita. «E scusa, i messaggi che ci siamo mandati sul messenger?» Erano spariti anche quelli, cioè risultava che aveva parlato con qualcuno senza faccia, l’iconcina anonima in chat invece della mia foto, e le mie parole sparite: vedeva quello che aveva detto lui, mai quello che rispondevo lui. Grottesco, allucinante, orwelliano. Un piccolo episodio di Black Mirror – o per chi se lo ricorda, Ai confini della realtà.
Cancellato dal sistema sociale principale dell’era informatica. Ed era solo il 2014.
Qualcuno ricorderà pure che ad un certo punto, qualche anno dopo ma sempre molto prima del COVID, decine se non centinaia di aderenti a due movimenti di destra vennero cancellati dal social. Cosa era accaduto? Cosa avevano fatto? Non è mai stato chiarito, partirono querele. Mi divenne chiaro che Facebook operava su input che non potevano essere solo interni all’azienda: qualcuno, anche in Italia, forse compilava questa sorta di «liste di proscrizione e gliele passava».
Di fatto, tempo dopo il sito di giornalismo d’inchiesta The Intercept pubblicò nel 2021 alcune di queste liste, che contenevano quantità incredibili di «individui e organizzazioni pericolose», da sigle terroriste ai gruppi musicali. Allora, eravamo finiti già finiti da almeno due anni in lista per Newsguard, lo strano ente presieduto da potenti della Terra (ex direttori CIA inclusi) e fiancheggiato da Gates che addita alcuni siti di essere fake news. Riteniamo che questa lista sia particolarmente delicata: perché riguarda non la politica, ma la biopolitica, ovvero l’interesse primario del potere del XXI secolo. Non sappiamo che cosa succeda poi agli elenchi stilati da Newsguard, ma qualcuno ci ha detto che un colosso informatico mondiale starebbe bloccando Renovatio 21 nella sua rete intranet, una cosa che ci ha un po’ scioccato.
E poi, facciamoci un giro in rete. Troviamo immagini di un evento di sei anni fa (sei) chiamato F8 Keynote in cui Zuckerberg parla al pubblico con dietro proiettate enormi le scritte «Combattere le Fake News» e «Integrità elettorale».
Era il 2018, in piena era Trump, e non crediamo che alcun membro dell’amministrazione del biondo del Queens possa aver fatto pressioni all’azienda perché se ne occupasse. Con evidenza, qualcuno, ben prima di Wuhan, con Mark stava già lavorando, magari con pressioni non diverse da quelle di cui ora lui accusa l’amministrazione Biden.
Ma allora, qual è davvero il lavoro di Facebook? Cosa vi è dietro?
The Onion, il sito di informazione satirica americana par excellence (un tempo divertentissimo, ora con la dittatura woke per niente) pubblicò nel 2011 un video davvero indicativo: «CIA’s “Facebook” Program Dramatically Cut Agency’s Costs», cioè «il programma “Facebook” della CIA riduce drasticamente i costi dell’agenzia».
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«Il Congresso oggi ha dato nuovi fondi a Facebook, il programma di sorveglianza di massa operato dalla CIA» dice la conduttrice del finto TG. «Secondo un rapporto della Homeland Security, Facebook ha sostituito qualsiasi altro programma di raccolta informazioni della CIA da quando è stato lanciato nel 2004».
«Molto del credito va all’agente CIA Mark Zuckerberg», che è premiato per «il più grande strumento di controllo della popolazione mai creato». Ha-ha.
All’epoca, quindi, si poteva discuterne: anzi, sulle origini militari di Facebook si poteva perfino scherzare.
Andiamo più a fondo: la giornalista d’inchiesta Whitney Webb non manca di far notare che, per pura casualità, Facebook nasce esattamente lo stesso giorno (4 febbraio 2004) in cui viene cestinato il programma governativo Total Information Awareness (TIA), un sistema di controllo capillare dei cittadini «onniveggente» portato avanti dopo l’11 settembre da personaggi legati allo scandalo Iran-Contra. Il TIA, una iniziativa pubblica, crollò sotto la pressione di giornali e politici che ne indicavano la follia totalitaria soggiacente. Tuttavia, dove il governo non poteva arrivare, sarebbe arrivata una società privata…
La Webb butta lì qualche dettaglio di storia aziendale interessante: «Sean Parker, che divenne il primo presidente di Facebook, aveva anche una relazione con la CIA, che lo reclutò all’età di sedici anni subito dopo essere stato arrestato dall’FBI per aver violato database aziendali e militari. Grazie a Parker, nel settembre 2004, [Peter] Thiel ha acquisito formalmente 500.000 di azioni Facebook ed è stato inserito nel suo consiglio di amministrazione».
Ora capite, si tratta di punire Zuckerberg o di affrontare qualcosa di più grande dell’ultramiliardario con i suoi bunker apocalittici alle Hawaii e i pedofili che scorrazzano sui suoi social? Che cosa abbiamo davvero davanti?
Facebook è solo un ortaggio che compare in superficie: la pianta da sradicare, sotto, è immensa, ha radici ovunque, radici tenaci, e oscure.
E quindi: a cosa avete dato i vostri dati, anche i più intimi, anche se nemmeno lo sapete? Fate pure quelli che «non posto mai niente»: bravi, tuttavia, grazie a voi, sanno cosa guardate, chi guardate, chi conoscete dove siete, cosa fate, più almeno una foto buona per il riconoscimento facciale.
Se ci mettiamo anche Whatsapp (che Elon Musk definisce «uno spyware»), possiamo dire che sanno pure cosa pensate, come è la vostra vita ad un livello sotto, più privato, di quello pubblico di Facebook. E realizzatelo pure: si dice che esistano profili nascosti, già pronti, anche per coloro che ai social non hanno mai aderito: i dati per crearli un tempo erano soggetti a compravendita, e quindi è facile che anche il nonno, che non sa usare nemmeno un telefonino Nokia, abbia suo malgrado un profilo da qualche parte.
E allora, cosa volete farci?
Sarebbe il caso di porsi tutti questa domanda. Sarebbe il caso che qualche politico coraggioso – qualcuno deve essere rimasto – affrontasse questo mostro nelle vite dei cittadini, anche a costo di trovarsi privato della piattaforma.
No, non è solo Zuckerberg ad essere rimasto impunito sinora. E un sistema immane, sul quale vogliono bassare tutto il XXI secolo: la sorveglianza assoluta dei cittadini, cioè la vostra sottomissione cioè il ritorno della schiavitù. Se la vostra esistenza diventa un insieme di dati su di una piattaforma – come avvenuto col green pass – questo destino è inevitabile. Specie se a breve sarete costretti all’euro digitale.
Credetemi, non si tratta di un problema che non vi riguarda. E vi state mettendo like.
Roberto Dal Bosco
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Immagine di Anthony Quintano via Flickr pubblicata su licenza CC BY 2.0
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Internet
Metriche pubblicitarie di e-commerce artificialmente gonfiate, afferma un ex dipendente Meta

Meta, la società madre di Facebook e Instagram, è stata accusata di aver gonfiato artificialmente le metriche delle prestazioni del suo prodotto pubblicitario per l’e-commerce, Shops Ads , secondo una denuncia presentata mercoledì da un informatore presso un tribunale del lavoro in Gran Bretagna. Lo riporta il sito ADWEEK.
La denuncia, presentata da Samujjal Purkayastha, ex product manager del team pubblicitario di Meta Shops, sostiene che l’azienda ha tratto in inganno gli inserzionisti sovrastimando il ritorno sulla spesa pubblicitaria (ROAS), facendo apparire la sua nuova offerta pubblicitaria più efficace rispetto ai prodotti della concorrenza, riporta ADWEEK.
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Secondo quanto depositato presso il London Central Employment Tribunal, Meta avrebbe incrementato i numeri delle performance degli annunci Shops: conteggio delle spese di spedizione e delle tasse come parte del fatturato totale; sovvenzionare le offerte nelle aste pubblicitarie per garantire un posizionamento più prominente; applicare sconti non dichiarati per dare l’impressione di risultati più forti; revisioni interne condotte all’inizio del 2024 hanno rivelato che il ROAS degli annunci di Shops era stato gonfiato tra il 17% e il 19%, secondo la denuncia.
Gli altri prodotti pubblicitari di Meta, così come quelli di concorrenti come Google, calcolano il ROAS utilizzando dati netti, escluse spese di spedizione e tasse. Senza le commissioni aggiuntive, sostiene la denuncia, gli annunci di Shops non hanno ottenuto risultati migliori rispetto ai prodotti pubblicitari tradizionali di Meta.
«Questo è stato significativo», si legge nel reclamo. «Oltre al fatto che la metrica di performance del ROAS era sovrastimata di quasi un quinto, significava che, anziché aver superato il nostro obiettivo primario, il team di Shops Ads lo aveva di fatto mancato una volta che il dato era stato ridotto per tenere conto dell’inflazione artificiale».
Il documento collega queste presunte pratiche a un più ampio sforzo interno a Meta per riprendersi dagli effetti della funzionalità App Tracking Transparency (ATT) di Apple, lanciata nel 2021.
La politica di Apple limitava l’accesso ai dati degli utenti iOS, un pilastro dell’attività pubblicitaria di Meta. L’ex CFO di Meta, David Wehner, ha avvertito durante una conference call sui risultati finanziari del 2021 che la modifica potrebbe costare all’azienda «nell’ordine dei 10 miliardi di dollari».
Incoraggiando gli inserzionisti a utilizzare gli annunci Shops, che mantengono le transazioni all’interno delle app di Meta, l’azienda potrebbe raccogliere più dati di acquisto proprietari e ridurre la sua dipendenza dalle autorizzazioni di tracciamento di Apple.
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Secondo il Purkayastha, Meta ha iniziato a sovvenzionare gli annunci di Shops nelle aste, a volte fino al 100%, garantendone la visualizzazione più frequente rispetto ad altri formati pubblicitari. Ciò ha aumentato la visibilità, incrementato artificialmente le conversioni e fatto apparire gli annunci di Shops come un investimento più solido.
Purkayastha è entrato a far parte di Meta nel 2020 come parte del team di ricerca applicata sull’intelligenza artificiale di Facebook, prima di essere riassegnato al team Shops Ads nel marzo 2022. È rimasto in azienda fino al 19 febbraio 2025.
Nella denuncia si afferma che Purkayastha ha ripetutamente sollevato preoccupazioni durante gli incontri con i dirigenti tra il 2022 e il 2024, mettendo in dubbio l’accuratezza dei risultati riportati dagli annunci di Shops. Afferma che l’azienda ha continuato a utilizzare la metodologia contestata nonostante le obiezioni interne.
Il reclamo sottolinea anche che gli strumenti di tracciamento di Meta fanno parte della sua strategia per mantenere le prestazioni pubblicitarie dopo le modifiche alla privacy di Apple.
Aggregated Event Measurement (AEM1), introdotto nell’aprile 2021, ha utilizzato l’apprendimento automatico per stimare le conversioni, rispettando al contempo gli utenti che avevano scelto di non essere monitorati.
AEM2, lanciato poco dopo, avrebbe collegato l’attività in-app alla navigazione e agli acquisti su siti di terze parti utilizzando identificatori personali come nomi, e-mail, numeri di telefono e indirizzi IP.
«Nella denuncia, Purkayastha ha affermato di credere che AEM2 abbia aggirato le restrizioni imposte dal framework sulla privacy di Apple, sebbene abbia mitigato gran parte della perdita di dati derivante dalle modifiche alla privacy» scrive ADWEEK.
Secondo la denuncia, il Purkayastha è stato licenziato da Meta nel febbraio 2025. La sua denuncia al tribunale del lavoro fa parte di una richiesta di provvedimento provvisorio, che chiede il ripristino della sua precedente posizione.
«Sebbene le conseguenze legali siano ancora da definire, queste rivelazioni mettono nuovamente in discussione l’affidabilità dei dati forniti da Meta ai suoi inserzionisti» commente Hdblog.
Non sono le prime accuse rivolte a Meta-Facebook da ex dipendenti.
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Quattro anni il Wall Street Journal cominciò a pubblicare sconvolgenti rivelazioni sulla piattaforma social. In sintesi, scriveva il WSJ «Facebook Inc. sa, nei minimi dettagli, che le sue piattaforme sono piene di difetti che causano danni, spesso in modi che solo l’azienda comprende appieno. Questa è la conclusione centrale (…), basata su una revisione dei documenti interni di Facebook, inclusi rapporti di ricerca, discussioni online dei dipendenti e bozze di presentazioni per il senior management».
Secondo il reportage, Facebook esentava gli utenti di alto profilo da alcune regole, ignorava una ricerca su Instagram (social del gruppo Meta) che mostrava i rischi per la salute mentale degli adolescenti, sapeva che il suo algoritmo premia l’indignazione, era stato lento nell’impedire ai cartelli della droga e ai trafficanti di esseri umani di utilizzare la sua piattaforma.
Due anni fa il WSJ tornò con un reportage in cui affermava che «Meta sta lottando per allontanare pedofili da Facebook e Instagram».
Nel 2023 un ex data-scientist di Facebook, in contenzioso legale con l’azienda, aveva sostenuto che Facebook può scaricare segretamente la batteria dello smartphono degli utenti.
Tre anni fa un ex dipendente aveva detto che il CEO Marco Zuckerberg aveva brandito una katana, cioè una spada samurai, perché irato con dei programmatori.
Come riportato da Renovatio 21, lo Zuckerbergo un mese fa ha dichiarato che Facebook non è più incentrato sulla connessione con gli amici.
Secondo alcuni il prossimo aggiornamento di Instagram eroderà ulteriormente la privacy degli utenti.
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Immagine di Yuri Samoilov via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic
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