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Politica

Valanga elettorale per Putin

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Si prevede che il presidente in carica Vladimir Putin vincerà le elezioni presidenziali di quest’anno, con oltre l’87% dei voti, ha riferito la Commissione elettorale centrale russa (CEC).

 

Secondo la CEC, alle 3 di notte, ora di Mosca, è stato conteggiato più del 94% dei voti e Putin è in testa alla corsa con circa l’87,3%.

 

Al secondo posto dovrebbe arrivare il suo avversario del Partito Comunista russo, Nikolaj Kharitonov, con il 4,3%, seguito da Vladislav Davankov del partito Nuovo Popolo (3,9%) e Leonid Slutsky dei Liberal Democratici (3,2%).

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Gli exit poll precedenti avevano mostrato tendenze simili, con il capo dello Stato che avrebbe vinto le elezioni con l’87,8%. Il sondaggio di uscita è stato condotto tra 466.324 elettori nei seggi elettorali di tutto il Paese.

 

Secondo i dati della CEC, le elezioni di quest’anno hanno registrato un’affluenza alle urne storicamente elevata, che ha superato il 74%.

 

In diverse regioni russe il trattamento delle schede elettorali è già terminato. Putin ha ottenuto il 94,12% dei voti nella Repubblica popolare di Lugansk (LPR) e oltre il 95% nella Repubblica popolare di Donetsk (DPR), due delle nuove regioni della Russia dove i cittadini votano per la prima volta, riporta RT.

 

Anche i risultati delle Repubbliche di Tyva, Khakassia e Yakutia, delle regioni di Zaporiggia, Kherson e Khabarovsk e della Regione autonoma di Chukotka mostrano che il presidente in carica guida i quattro candidati, con circa il 90% dei voti.

 

Le elezioni si sono svolte nel clima di tensione della guerra in corso.

 

Le commissioni elettorali russe nella regione di Kherson e nella regione di Zaporiggia hanno segnalato diversi attacchi ucraini ai seggi elettorali aperti per il voto presidenziale in corso.

 

Sabato mattina, le forze ucraine hanno lanciato un ordigno esplosivo da un drone, prendendo di mira un seggio elettorale a Blagoveshchenka, un villaggio nella regione di Zaporiggia, ha detto all’agenzia stampa russa TASS una funzionaria elettorale locale, Natalja Rjabenkaja, la quale ha affermato che si trattava di «qualche ordigno al fosforo», citando il personale militare russo arrivato sulla scena. L’attacco non ha causato vittime né danni materiali.

 

Venerdì la commissione elettorale della regione di Kherson ha dichiarato che le forze ucraine hanno bombardato gli edifici nella città di Kakhovka e nel villaggio di Brilevka, dove un numero imprecisato di persone è rimasto ferito.

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Pochi minuti dopo, i funzionari hanno riferito che un ordigno esplosivo improvvisato era stato fatto esplodere in un bidone della spazzatura fuori da un seggio elettorale nella città di Skadovsk, senza che l’incidente avesse provocato vittime. Secondo le autorità locali, sabato, secondo giorno delle votazioni, l’affluenza alle urne nella regione di Kherson ha raggiunto il 77%. Oltre il 72% degli aventi diritto ha votato nella regione di Zaporozhye. Le due regioni ex ucraine si sono unite alla Russia alla fine del 2022 a seguito di referendum, insieme alle Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk.

 

Secondo quanto riportato dai media locali che cita il Ministero della Sicurezza Territoriale della regione, un’esplosione sarebbe stata prodotta in un seggio elettorale nella città di Perm, nella Russia centrale.

 

L’esplosione sarebbe avvenuta nella tarda domenica di domenica, l’ultimo giorno dei tre giorni di votazioni presidenziali nazionali in Russia. A provocarlo sarebbe stato un grosso petardo fatto esplodere da una donna di 64 anni nel bagno del seggio elettorale.

 

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)

 

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Politica

«Volevo evitare che ci picchiassero, ma lo hanno già fatto». Renovatio 21 intervista il senatore Claudio Borghi su euro e pandemia

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Renovatio 21 ha incontrato il senatore Claudio Borghi Aquilini la sera di domenica 19 maggio a Perugia, dove l’onorevole della Lega Nord ci ha concesso un’intervista.   Vorremmo partire da qualche anno fa. Lei si espresse fortemente dubbioso sin dall’inizio del periodo pandemico. Si ricordano  dei suoi interventi già nel marzo 2020 dove lei metteva in evidenza dubbi su quello che poi sarebbe successo da lì a pochi giorni con la chiusura totale dell’Italia e tutto quello che ne è conseguito. Io partivo dai dati, perché non sono un matto, nel senso che se ci fosse stata una pandemia mortale tale per cui effettivamente stando in casa si guariva e ci si proteggeva, sarei stato il primo a dire «sì, facciamo così». Non sono un medico, però sono uno che sa leggere i dati, ed era abbastanza evidente che la maggior parte delle cose che ci facevano fare non avevano nessun effetto.   Bastava vedere gli altri Paesi che non le facevano e stavano meglio: primo fra tutti la Svezia, ma anche la Svizzera stessa. Sapete, io sono di Como, e mentre noi stavamo in casa a cantare e dall’altra parte [in Svizzera, ndr] erano in piazza a bere il caffè e stavano meglio.   Per cui, leggendo i dati, mi son detto: «ragazzi, una cosa così grave come togliere le libertà alle persone di poter uscire di casa o addirittura di non farle lavorare, tutto ciò fatto senza nessun dato che dimostri in modo incontrovertibile che fosse una cosa utile per salvare vite, è una follia».

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Anche oggi continua ad esprimersi in maniera critica riguardo quello che abbiamo subìto in questi anni tra restrizioni, divieti di ogni tipo e via dicendo. Oggi sembra che qualcosa si stia muovendo, ma ancora rimane una questione spinosa e diradare la coltre che copre tutto la vicenda COVID non è semplice. Cercare la verità sarà un percorso lungo… Io credo che ci siano molti interessi che hanno paura di essere disvelati, mettiamola così, e molte paure di chi probabilmente, rendendosi conto di aver sbagliato tutto, ha paura di dover pagare le conseguenze delle sue azioni. Motivo per cui c’è tanta difficoltà nel far partire la Commissione d’inchiesta sul COVID.   I partiti dell’allora governo vogliono evitare, non danno i nomi e così via, perché pensano di rallentarla il più possibile. Noi lo dobbiamo ai cittadini un po’ di verità su questa cosa.    Che futuro vede per la Commissione d’inchiesta sul COVID? Dipenderà molto da che presidente verrà scelto. Se il nome, come sembra, è quello di una persona motivata, che conosco, sarà un buon inizio.   Nella scorsa legislatura ho visto che le commissioni d’inchiesta di solito non portano a niente, ma se vengono gestite bene – come è stata per esempio la commissione per la morte di David Rossi [capo della comunicazione della banca Monte dei Paschi di Siena,  trovato  il 6 marzo 2013 morto sulla strada su cui si affacciava il suo ufficio presso Rocca Salimbeni, ndr]– fanno scoprire verità che magari non si pensava.   Da lì a dire che ci sarà tutta la verità o come molta gente spera, che ci siano persone che vadano in prigione, dico no, perché la Commissione non è la magistratura, però un po’ più di verità potrebbe esserci.    La Lega entrò nel governo Draghi il 13 febbraio 2021. Molti vostri elettori, e non solo, furono spiazzati da questa scelta. Alcuni sostennero che l’entrata in quel governo fosse un boccone amaro da ingoiare, però stando all’interno di quella compagine il vostro partito poteva essere un argine ad una deriva di leggi liberticide in nome della pandemia. Di fatto poi, non è stato proprio così, perché è stato un argine estremamente debole. Avete subìto critiche dure per quella vostra scelta. Come ricorda quel periodo? È stato un periodo pessimo. Chi mi ha seguito sa che ho cercato di combattere, per quanto possibile, prima la deriva dei lockdown, poi la deriva dell’obbligo vaccinale. Perché se il lockdown è da attribuire tutto a Conte, l’obbligo vaccinale è da attribuire tutto a Draghi.   Qualche cosa siamo riusciti a ottenere, però è stato molto complicato. Entrare in quel governo è stato un male necessario, perché all’epoca molti sostenevano che Mario Draghi fosse il migliore, e forse vederlo all’opera ci ha salvato da mali peggiori. Uno di questi mali poteva essere eleggerlo Presidente della Repubblica.

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Cambiando argomento, anni fa ricordo le sue posizioni molto ragionate, ma allo stesso tempo critiche, riguardo l’euro. Oggi sembra che la moneta unica sia un dogma inscalfibile e oltretutto pare si vada verso quell’euro digitale che in molti a Bruxelles auspicano. Lei cosa ne pensa e l’attuale governo cosa potrebbe fare? Le critiche all’euro sono ancora tutte lì. Io ho scritto un libretto che s’intitola Basta Euro e consiglio a tutti di rileggerlo, perché secondo me buona parte delle cose dette lì sono ancora corrette. Non è di immediata urgenza come in passato, perché oramai le sofferenze che volevo evitare all’Italia ce le siamo prese, come la mancata crescita, la recessione e similari. Le abbiamo subìte, e allora, come dire, non ho più quell’urgenza, perché oramai ci hanno picchiato. Volevo evitare che ci picchiassero, ma lo hanno già fatto.   Però i problemi si riproporranno e sono ancora tutti lì. Diciamo che qualche correzione è stata messa, anche perché si son resi conto che le cose non funzionavano e sono convinto che ci sarà tempo per andare avanti. La mia idea del «meno Europa» passa anche da questo. L’euro digitale è un altro passo avanti potenzialmente pericoloso, ma non credo che verrà fatto, perché significherebbe espropriare le banche. E la banca è una lobby più forte, nel far sentire i propri interessi, rispetto ai cittadini.   Chiudendo con un’altra potenziale insidia per il nostro Paese, l’Organizzazione Mondiale della Sanità vorrebbe imporre agli stati sovrani le «sue leggi», con l’approvazione del cosiddetto «Trattato Pandemico». Arginare i diktat dell’OMS si può? Secondo me si può, se il nostro governo non fa scherzi. Io sono lì, molto severo, a ricordare al ministro Schillaci che sta arrivando la scadenza e spero proprio che diremo di no!   Una domanda: senatore, conosce il nostro sito? Si, ci sono stato a visitarlo.   La ringraziamo. Grazie a voi.   Francesco Rondolini

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Botte, caos e leggi «rubate» nel Parlamento di Taiwano

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Venerdì una sessione del parlamento monocamerale taiwanese, il cosiddetto Yuan legislativo, è scoppiata una poderosa rissa, con membri che hanno subito traumi cerebrali, fratture e altre ferite.

 

I legislatori si sono riuniti per discutere una controversa proposta dell’opposizione di criminalizzare i funzionari che rilasciano false dichiarazioni in Parlamento e di dare al parlamento maggiori poteri per controllare il governo.

 

La tensione era alta già prima della sessione, con i Parlamentari che urlavano e si spingevano a vicenda fuori dall’edificio di Taipei.

 

Le cose si sono intensificate ulteriormente quando, dentro la Camera dei deputati, alcuni membri eletti hanno iniziato a sferrare pugni ed eseguire mosse di arti marziali l’uno contro l’altro, picchiandosi come fabbri.

 

Filmati girati nello Yuan legislativo hanno mostrato che in diversi casi i legislatori uomini hanno attaccato le loro colleghe donne.

 

La rissa era sembrata placarsi più volte, prima di riaccendersi con rinnovata forza, e proseguire fino a tarda sera.

 

 

 


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Gli scontri hanno coinvolto membri di tutti e tre i partiti: il Partito Democratico Progressista (DPP) del presidente eletto Lai Ching-te, che sarà inaugurato lunedì; il Kuomintang (KMT), all’opposizione, che ha tre seggi in più in parlamento rispetto al DPP ma non riesce a formare una maggioranza; e il Partito popolare di Taiwan (TPP), che detiene solo otto seggi.

 

Durante i tafferugli, un deputato del DPP è finito in ospedale dopo essere stato lanciato su un tavolo dai suoi avversari ed essere caduto con la testa.

 

Ad un certo punto, un politico ha afferrato il progetto di legge ed è scappato dall’aula in modo che i suoi colleghi non potessero votarlo. La vittoriosa corsa verso il ladrocinio di disegno di legge pare essere improntata su tecniche del giuoco del rugby e del football americano.

 

 

Ieri il DPP ha detto che almeno otto dei suoi membri sono rimasti feriti negli scontri, tra cui il segretario generale Rosalia Wu, che ha subito «gravi contusioni alla gabbia toracica».

 

Altri legislatori hanno riportato lesioni tra cui una commozione cerebrale, una frattura del coccige e una mano lussata. Il partito ha promesso di andare in tribunale per quelle che definisce «atrocità» commesse dai suoi rivali politici.

 

Il DPP ha accusato il Kuomintang e il TPP di «un abuso incostituzionale» della loro posizione nel tentativo di far passare proposte senza un consueto processo di consultazione. L’opposizione, tuttavia, insiste sul fatto che il partito di Lai sta cercando di «monopolizzare il potere» sull’isola resistendo ai cambiamenti.

 

Proteste spontanee degli elettori sono scoppiate fuori dal Parlamento.

 

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L’isola di Formosa è stata colpita da un nuovo sisma di magnitudine 7.2 solo due mesi fa.

 

Oggi come allora, il Paese è un punto di tensione internazionale, tra le aperte minacce di invasione da parte della Repubblica Popolare Cinese e le manovre della flotta militare americana nell’area.

 

Come riportato da Renovatio 21, la tensione nella regione era salita quando a inizio anno il cacciatorpediniere lanciamissili USS John Finn della 7ª flotta USA ha annunciato il transito da sud a nord dello Stretto di Taiwano.

 

Due mesi fa il presidente cinese Xi Jinping ha dichiarato che la riunificazione di Taiwan e della Cina continentale è una «inevitabilità storica», mentre a novembre il Chen Binhua, appena nominato nuovo portavoce dell’Ufficio per gli affari di Taiwan del Consiglio di Stato cinese, aveva avvertito che «l’indipendenza di Taiwan significa guerra».

 

Come riportato da Renovatio 21, durante il suo discorso per la celebrazione del centenario del Partito Comunista Cinese nel 2021 lo Xi, mostrandosi in un’inconfondibile camicia à la Mao, parlò della riunificazione con Taipei come fase di un «rinnovamento nazionale» e della prontezza della Cina a «schiacciare la testa» di chi proverà ad intimidirla.

 

Sinora, lo status quo nella questione tra Pechino e Taipei è stato assicurato dal cosiddetto «scudo dei microchip» di cui gode Taiwan, ossia la deterrenza di questa produzione industriale rispetto agli appetiti cinesi, che ancora non hanno capito come replicare le capacità tecnologiche di Taipei.

 

La Cina, tuttavia, sta da tempo accelerando per arrivare all’autonomia tecnologica sui semiconduttori, così da dissolvere una volta per tutte lo scudo dei microchip taiwanese. La collaborazione tra Taiwan e UE riguardo ai microchip, nonostante la volontà espressa da Bruxelles, non è mai davvero decollata.

 

Come riportato da Renovatio 21, il colosso del microchip TSMC ha dichiarato l’anno scorso che la produzione dei microchip si arresterebbe in caso di invasione cinese di Formosa.

 

I microchip taiwanesi sono un argomento centrale nella attuale tensione tra Washington e Pechino, che qualcuno sta definendo come una vera guerra economica mossa dall’amministrazione Biden contro il Dragone, che riprendono politiche della precedente amministrazione Trump.

 

Taipei aveva vissuto una enigmatica falsa emergenza invasione, propalato dai media, pochi mesi fa.

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Politica

Il ministro del gabinetto di guerra Gantz minaccia di far crollare il governo israeliano

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Benny Gantz, il membro centrista del gabinetto di guerra israeliano formato da tre persone, ha promesso di dimettersi dal governo se questo non si impegnerà in un nuovo piano d’azione per Gaza, che include la fine del dominio di Hamas, entro l’8 giugno. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha respinto l’ultimatum, descrivendolo come «parole infondate».   Parlando in un discorso televisivo sabato, Gantz – rivale politico di lunga data di Netanyahu e generale in pensione il cui partito si è unito alla coalizione di Unità Nazionale del Primo Ministro dopo l’attacco di Hamas – ha chiesto che il governo approvi un piano in sei punti per raggiungere «obiettivi strategici».   Tra questi ci sono il riportare a casa gli ostaggi, il rovesciamento del governo di Hamas, la smilitarizzazione dell’enclave palestinese e l’istituzione di «un meccanismo internazionale di governo civile per Gaza, che includa elementi americani, europei, arabi e palestinesi» che non includa Hamas e non sia sotto l’autorità del presidente palestinese Mahmoud Abbas.   Il piano prevede anche la normalizzazione delle relazioni con l’Arabia Saudita.   «Se tu [Netanyahu] metti la questione nazionale al di sopra del personale… troverai in noi dei partner nella lotta», ha dichiarato il Gantz. «Ma se scegliamo la strada dei fanatici e portiamo l’intera nazione nell’abisso, saremo costretti a lasciare il governo».

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Netanyahu ha risposto dicendo che il Gantz ha scelto di «lanciare un ultimatum al primo ministro invece di lanciare un ultimatum a Hamas».   Le condizioni che ha posto «sono parole inutili il cui significato è chiaro: la fine della guerra e la sconfitta di Israele, l’abbandono della maggior parte degli ostaggi, il mantenimento di Hamas intatto e la creazione di uno Stato palestinese», ha affermato l’ufficio del Primo Ministro, in una dichiarazione citata dai media.   Gantz ha fatto i suoi commenti pochi giorni dopo che il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant – il terzo membro del gabinetto di guerra istituito nei primi giorni dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre – ha criticato il fallimento del governo Netanyahu nell’affrontare la questione di una strategia postbellica per Gaza.   Domenica, i deputati di Unità Nazionale Matan Kahana e Pnina Tamano-Shata hanno dichiarato alla testata online Ynet che l’ultimatum dell’8 giugno dato dal leader del partito Gantz «non è una data scolpita nella pietra».   «Se capiamo già prima che il primo ministro Benjamin Netanyahu è determinato, come al solito, a non prendere decisioni su questioni critiche, non aspetteremo fino ad allora», ha detto Kahana. «Il primo ministro si è astenuto dal prendere decisioni per ragioni di sopravvivenza politica. Tutto questo deve finire».   Come riportato da Renovatio 21, il ministro israeliano Itamar Ben Gvir aveva minacciato di far cascare il governo Netanyahu, di cui è membro con il suo partito ultrasionista Otzma Yehudit («Potere ebraico») qualora l’esercito israeliano non fosse entrato a Rafah.

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Immagine di IDF Spokesperson’s Unit via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported
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