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Tucker Carlson, due mesi dopo Renovatio 21, scopre che i libri di Dugin son spariti da Amazon

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Nel suo show TV serale su Fox News, Tucker Carlson – la personalità giornalistica televisiva più influente degli USA – fa una scoperta di cui Renovatio 21 aveva informato i suoi lettori due mesi fa: i libri del filosofo russo Alexander Dugin sono spariti.

 

Non è che non si trovano, non è che risultano fuori catalogo, non disponibili, etc.: manca proprio la voce che li riguarda, e che fino a qualche mese fa c’era.

 

Come riportato da Renovatio 21 ciò è vero per vari siti Amazon di molteplici nazioni europee che abbiamo testato, compreso il sito italiano.

 

«Quindi, se andate su Amazon per leggere libri scritti da un uomo che ora è sui giornali, e le cui idee sono direttamente connesse ad eventi presenti, cercate un tizio che si chiama Aleksandr Dugin» dice Tucker. «Dugin è uno dei più famosi scrittori russi ed è un filosofo politico che non lavorare per il governo, non lavora per Vladimir Putin, è solo un filosofo».

 

«Quindi se foste interessati a sapere cosa stanno pensando laggiù, cerchereste la pagina dell’autore Dugin su Amazon, ma non trovereste alcun risultato. Sul serio? Un autore importante per essere lasciato fuori da Amazon…»

 

Carlson dice quindi di aver domandato ad Amazon il perché di questa strana mancanza. «Poi abbiamo realizzato che è perché è stato bannato. Allora abbiamo chiesto ad Amazon una lista di tutti i libri degli scrittori bannati dalla loro piattaforma».

 

«E non ce l’hanno data». Il giornalista racconta che dopo alcuni scambi, Amazon avrebbe fornito «una risposta in se parole»:

 

«Amazon complies with all applicable laws». Amazon rispetta tutte le leggi applicabili.

 

 

Carlson comincia quindi a parlare del Primo Emendamento della Costituzione americana, grazie al quale non vi sono leggi per la pubblicazione dei libri. «Il governo non può, in nessuna circostanza, censurare qualsiasi libro. Punto».

 

«Poi abbiamo appreso che Amazon e il Dipartimento di Giustizia starebbero ignorando la nostra Carta dei diritti. Amazon, apparentemente, avrebbe basato la sua decisione su una designazione del Dipartimento del Tesoro riguardo la “disinformazione”» dice Carlson, non rivelando la sua fonte, né il modo in cui ha ottenuto tale informazione.

 

«Tale designazione non si applica solo a Dugin ma anche alla sua famiglia, anche se non a sua figlia, che è stata recentemente assassinata dal governo ucraino … non ci è permesso dirlo… cos’aveva fatto di sbagliato? Beh, immagino che abbia detto una cosa sbagliata, ma va bene, perché stanno lottando per la libertà» dice Carlson con pesante ironia. Per il lettore che non lo ha capito, sta parlando proprio di Darja Platonova, al secolo Darja Dugina, la figlia del filosofo, brutalmente ammazzata con un’autobomba poche settimane fa.

 

«Il punto è che nel nostro Paese, che è molto diverso dall’Ucraina, ci è permesso di leggere qualsiasi cosa vogliamo… ma non possiamo ora, perché l’amministrazione Biden sta domandando che il più grande rivenditore di libri del mondo censuri libri con i quali non essa non è d’accordo» prosegue il conduttore statunitense.

 

«Questa è la più chiara violazione del Primo Emendamento che puoi inventare ad una lezione di giurisprudenza».

 

Quindi, la trasmissione ha sentito il Dipartimento del Tesoro per vedere se confermavano questa storia.

 

La risposta ottenuta fa ritenere a Carlson di aver ottenuto una conferma: «non commentiamo riguardo a questioni di possibile esecuzione, ma il Dipartimento del Tesoro continua a applicare vigorosamente sanzioni relative alla Russia» ha dichiarato un portavoce del Treasury Department.

 

Tucker diviene furioso: «non c’è nessuna base legale per censurare alcun libro se sei il governo americano. Non è permesso. È la cosa principale non-permessa in questo Paese. Punto. Non ci interessa chi ha scritto il libro: ti è permesso leggerlo, puoi leggere qualsiasi libro tu voglia, sei un americano».

 

«E se smetti di essere in grado di leggere qualsiasi libro tu voglia, non ha importanza se sei americano, perché sei solo un servo».

 

La sintesi finale è amara ma realistica.

 

Infine, il conduttore californiano dice che Amazon ha rifiutato di fornirgli una lista di altri libri che stanno bannando, e che gli piacerebbe sapere quali siano.

 

Su questo può  aiutare Renovatio 21.

 

Come già riportato quando ci accorgemmo del caso Dugin su Amazon, mancano all’appello, da anni, il libri dello psicologo Joseph Nicolosi, psicanalista pioniere della cosiddetta «teoria riparativa dell’omosessualità», considerata controversa dall’era Obama e fonte di acceso dibattito tra istituzioni psicologiche anche in Italia.

 

Un altro caso che conosciamo bene, da vari anni, è quello dello studioso cattolico dell’Indiana E. Michael Jones, che conosciamo di persona. Su Amazon aveva 40 o 50 testi in forma sia di brevi ebook che di tomi da più di mille pagine. Di colpo poi è sparito tutto.

 

«La censura su Amazon è arrivata senza preavviso o spiegazione» ci disse nel 2020 fa lo stesso Jones, riflettendo sulla gravità della situazione. «Amazon e Google sono ora più potenti dei governi nazionali di Paesi come l’Irlanda e certamente più potenti dei governi statali degli Stati Uniti».

 

«Questo deve cambiare perché hanno il potere di governo ma nessuna responsabilità. Non possiamo mandare a casa Jeff Bezos con il voto anche se gestisce l’equivalente in Internet di un servizio pubblico».

 

Possiamo solo fare illazioni su chi compila le liste di prescrizioni, che poi potrebbero essere fatte arrivare alle grandi piattaforme. Ci sono enti specifici che lo fanno: c’è n’è una, ad esempio, che difende gli interessi di una data etnia, che da sempre segnala il lavoro di E. Michael Jones, e ultimamente è emerso che ce l’ha anche con Tucker Carlson.

 

Anche Renovatio 21, come sapete, è finita da molto prima della pandemia, da prima che divenisse un giornale online da migliaia di articoli all’anno – in un lista nera internazionale, nel cui board ci sono un po’ di direttori della CIA e NSA, e i cui rapporti con Bill Gates non solo facili da comprendere. Ban, shadow ban, disintegrazione degli account sul social sono venuti dopo.

 

Le conseguenze di essere entrati in una di queste liste, spessissimo senza nemmeno saperlo, vi espone a conseguenze future che ora non potete immaginare. Vi potranno cancellare dalle librerie, dai social, anche dalla banca – PayPal dice di aver cambiato idea, ma era uscita la storia per cui avrebbe prelevato 2500 dollari dai conti di utenti accusati di fake news, e vi sono casi in USA di banche vere e proprie che chiudono il conto corrente a persone considerate inopportune (come il generale Flynn e la sua famiglia).

 

«La lista è vita», diceva Schindler’s list. Ora essere in una lista può invece cagionare la vostra morte civile, e magari, un domani, la vostra morte biologica vera e propria.

 

Ribadiamo un concetto che ci è chiaro: la damnatio memoriae dell’antica Roma almeno veniva comminata dal Senato, non da un’azienda, e per crimini noti. Non ti privava del sostentamento, non ti impediva di vivere.

 

Ora è diverso: siamo lontani dalla Roma dei latini, siamo nel mondo del post-diritto, dove comanda un potere opaco che realizza al 100% l’incubo che Kafka descrisse ne Il processo – non sai di cosa sei accusato, non sai perché, non capisci nemmeno cosa ti sta succedendo.

 

Nel frattempo, vi bruciano i libri. Aspetta un attimo, chi è che faceva queste cose qualche tempo fa?

 

 

 

 

Immagine di Gage Skidmore via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 2.0 Generic (CC BY-SA 2.0)

 

 

 

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Il vicepresidente eletto JD Vance: gli USA potrebbero ritirare il sostegno alla NATO se l’Unione Europea censurasse i social media

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JD Vance, il vicepresidente eletto del partito repubblicano, ha avanzato l’audace suggerimento che gli Stati Uniti potrebbero riconsiderare il loro sostegno alla NATO se l’Unione Europea tentasse di regolamentare le piattaforme di social media statunitensi.

 

Questa affermazione è stata fatta durante la campagna elettorale, in un’intervista con il podcaster Shawn Ryan, in cui Vance ha raccontato un incidente che ha coinvolto un alto funzionario dell’UE che ha minacciato Elon Musk per aver permesso all’ex presidente Donald Trump di salire sulla piattaforma.

 

Vance ha evidenziato il netto contrasto tra i valori europei e americani, in particolare sulla questione della libertà di parola. «Il leader, non ricordo esattamente quale funzionario fosse all’interno dell’Unione Europea, ma ha inviato a Elon questa lettera minacciosa che sostanzialmente diceva, “Ti arresteremo se metti in evidenza Donald Trump” che, tra l’altro, è il probabile prossimo presidente degli Stati Uniti», ha riferito.

 

Vance si riferisce con probabilità a Thierry Breton, noto per le sue posizioni sul controllo di internet, che all’epoca era Commissario Europeo per il mercato interno prima che fosse allontanato dalla Commissione Ursula 2. Il Breton si era particolarmente infervorato per l’intervista che Musk fece a Trump tre mesi fa, al punto che la Commissione stessa prese le distanze dal francese.

 

In risposta al Breton, il Musk aveva promesso una «battaglia molto pubblica in tribunale», rivelando: «La Commissione Europea ha offerto a X un accordo segreto illegale: se avessimo censurato silenziosamente il discorso senza dirlo a nessuno, non ci avrebbero multato. Le altre piattaforme hanno accettato quell’accordo. X no».

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Il vicepresidente eletto Vance sostiene che la partecipazione dell’America alla NATO dovrebbe essere subordinata al rispetto della libertà di parola da parte dell’alleanza, un valore fondamentale americano.

 

«Quindi, ciò che l’America dovrebbe dire è: se la NATO vuole che continuiamo a sostenerla e la NATO vuole che continuiamo a essere un buon partecipante a questa alleanza militare, perché non rispetti i valori americani e la libertà di parola?», ha chiesto Vance, criticando l’idea di sostenere un’alleanza militare che non rispetta la libertà di parola come «folle», insistendo sul fatto che il sostegno americano è subordinato a dei prerequisiti, come il rispetto della libertà di parola, in particolare tra gli alleati europei.

 

Vance forse non è a conoscenza (o finge di non esserlo) del fatto che proprio la NATO potrebbe essere dietro la grande ondata di censura sui social. Si tratta della tesi portata avanti dall’ex funzionario della prima amministrazione Trump Mike Benz, che ha scrupolosamente ricostruito le origini dell’impeto censorio abbattutosi sul mondo occidentale, indicando come possa essere una reazione della NATO dinanzi agli smacchi concatenati dell’annessione russa della Crimea, della Brexit e, infine, dell’elezione 2016 di Donald Trump.

 

Benz suggerisce quindi che ogni democrazia occidentale si trova sotto il military rule, la legge marziale, con un bavaglio imposto alla popolazione dai militari.

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Immagine di Gage Skidmore via Flickr pubblicata su licenza CC BY-SA 2.0

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Google ammette che la funzione di voto ha favorito Harris rispetto a Trump

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Google ha ammesso che il suo motore di ricerca ha fornito agli elettori statunitensi dati su dove avrebbero potuto votare per la candidata democratica alla presidenza Kamala Harris, ma non li ha informati su dove avrebbero potuto esprimere il loro voto per il repubblicano Donald Trump.   Gli utenti dei social media hanno notato che quando la frase «Dove posso votare per Harris?» veniva inserita in Google, era consentito loro di inserire il proprio indirizzo per determinare il luogo di voto più vicino e fare riferimento a una mappa interattiva dei seggi elettorali.     Tuttavia, se digitavano «Dove posso votare per Trump?» non venivano fornite tali informazioni e all’utente venivano offerti solo articoli di cronaca sulle elezioni.     La discrepanza ha scatenato una raffica di critiche, tra cui quella del proprietario di X e sostenitore di Trump, Elon Musk, che ha pubblicato sulla sua piattaforma: «Anche altri stanno vedendo questo?».   Alcuni utenti si sono subito affrettati ad accusare Google di diffondere «propaganda spazzatura di sinistra» e di essere colpevole di «interferenza elettorale».   Google ha riconosciuto il problema e ha attribuito la discrepanza a un problema tecnico. L’azienda ha affermato che «il problema del pannello “dove votare” si è verificato perché Harris è anche il nome di una contea del Texas». L’azienda ha aggiunto che lo stesso vale per le ricerche contenenti il ​​nome del compagno di corsa di Trump, JD Vance, perché è anche il nome di una contea.

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Google ha osservato che «pochissime persone cercano effettivamente i seggi elettorali in questo modo», sottolineando in seguito che il problema era stato risolto.   Google è stato ripetutamente criticato per presunta faziosità politica. Quest’estate, Donald Trump Jr. e altri repubblicani hanno accusato il gruppo di aver minimizzato il fallito tentativo di assassinare l’ex presidente, sottolineando che il motore di ricerca non è riuscito a compilare automaticamente i risultati per termini come «tentativo di assassinio di Trump».   Una «gola profonda» tre anni fa dichiarò che Google News aveva alterato il suo algoritmo contro il presidente Trump. Poco dopo, Trump aveva ventilato l’ipotesi di una class action contro Facebook, Twitter e Google.   Due settimane fa il procuratore generale dello Stato del Missouri Andrew Bailey aveva annunziato che Google sarà indagata per presunta manipolazione del suo motore di ricerca allo scopo di compromettere il processo democratico in America.   Come riportato da Renovatio 21, un mese fa Trump ha minacciato di perseguire in tribunale Google una volta eletto.   Riguardo al CEO di Facebook – piattaforma definita dal presidente eletto come «nemico del popolo» –  Mark  Zuckerberg, The Donald ha parlato di ergastolo.

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La Russia multa Google per 20 decilioni di dollari

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Mosca ha comminato una multa da 20 decimilioni di dollari a Google per le emittenti russe bandite da YouTube, piattaforma di condivisione video che è di proprietà del colosso informatico californiano.

 

Un decimilione, parola sconosciuta sinora a moltissimi, è un numero costituito da un 1 seguito da 60 zeri. Per cui la mora inflitta dalla Federazione Russa alla società americana ammonta a 20. 000.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000. dollari.

 

La stratosferica multa è «simbolica» e mira a spingere l’azienda a correggere i problemi che ha con loro, ha affermato il portavoce del Cremlino Demetrio Peskov.

 

La cifra da capogiro dovrebbe spingere l’azienda a «prestare attenzione» al problema e a risolverlo, ha suggerito Peskov giovedì.

 

«Si tratta di una cifra formulata in modo specifico, in realtà non riesco nemmeno a pronunciarla, ma è piuttosto carica di simbolismo», ha affermato, spiegando che Google «non dovrebbe limitare le azioni dei nostri emittenti a capriccio».

 

La cifra indicibile è stata segnalata per la prima volta dall’agenzia di stampa RBK martedì e deriva da una serie di cause legali intentate contro Google da 17 emittenti russe che hanno accusato il gigante della tecnologia di aver bloccato illegalmente i contenuti e di aver rimosso i loro canali YouTube.

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Nell’ottobre 2022, la Corte arbitrale di Mosca ha ordinato a Google di ripristinare l’accesso di YouTube ai canali russi bloccati, imponendo all’azienda una sanzione composta di 100.000 rubli al giorno per inadempienza. La sanzione raddoppia ogni settimana, secondo la sentenza della corte. Senza alcun limite imposto alla multa, ha ora raggiunto il traguardo di 20,6 decimilioni di $ ed è destinata a crescere ulteriormente.

 

La disputa tra il colosso della tecnologia e le emittenti televisive russe risale al 2020, quando l’azienda ha chiuso i canali YouTube di Tsargrad TV e dell’agenzia di stampa RIA, citando le sanzioni statunitensi contro i loro proprietari.

 

Le cose sono peggiorate per le emittenti russe dopo che il conflitto tra Mosca e Kiev si è intensificato nel febbraio 2022, con decine di altri canali di notizie bloccati sulla piattaforma. Successivamente, diverse emittenti hanno fatto causa al gigante della tecnologia, vincendo la causa presso la Corte arbitrale di Mosca.

 

Come riportato da Renovatio 21, tra le risposte di Mosca a YouTube (che era particolarmente invisa al defunto capo del Gruppo Wagner Evgenij Prigozhin) tre mesi fa la Russia aveva lanciato un rallentamento nel caricamento dei contenuti della piattaforma video sino al 70%.

 

Due mesi fa la Bielorussia ha dichiarato che creerà una propria versione di piattaforma di condivisione video in stile YouTube.

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Immagine di Rafael Rigues via Flickr pubblicata su licenza CC BY 2.0

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