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Persecuzioni

Sudan, un anno di guerra ha lasciato il Paese senza seminaristi

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Dal 15 aprile 2023, violenti combattimenti hanno contrapposto l’esercito sudanese comandato dall’attuale presidente di transizione, il generale Abdel Fattah al-Burhan, e le Rapid Support Forces (RSF), un gruppo paramilitare guidato dal vicepresidente, il generale Mohammed Hamdan Dagalo, conosciuto anche con lo pseudonimo di Hemedti.

 

Dopo la destituzione di Omar al-Bashir – insediato al potere con un colpo di stato nel 1989 – i due uomini hanno rovesciato il governo instaurato l’11 aprile 2019. Ma hanno litigato sull’integrazione delle forze di sicurezza nell’esercito regolare e nella distribuzione della ricchezza: il Sudan è il terzo produttore di oro in Africa e Hemedti possiede miniere d’oro nel Nord del paese.

 

Nell’aprile 2023 la situazione è cambiata: in un Paese già indebolito è scoppiata la «guerra dei generali». La popolazione è in agonia e la piccola comunità cristiana si sta riducendo al nulla. Senza che nessuno dei belligeranti si tiri indietro, il futuro appare cupo. I dati ufficiali mostrano più di 13.900 morti e 8,1 milioni di sfollati, di cui circa 1,8 milioni fuori dal Paese.

 

«Data l’intensità della guerra, molti residenti si chiedono come entrambe le parti possano avere così tante armi dopo un anno di combattimenti e, quindi, chi le finanzia», ​​afferma la coordinatrice del progetto Kinga Schierstaedt per l’organizzazione benefica cattolica internazionale Aiuto alla Chiesa che soffre (ACN) nel Sudan.

 

La popolazione muore di fame a causa di un conflitto dimenticato. Quanto alla Chiesa locale, «prima della guerra rappresentava il 5% della popolazione, ma era tollerata e poteva gestire alcuni ospedali e scuole, anche se non era autorizzata a proclamare apertamente la fede», spiega Kinga Schierstaedt.

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La caduta di Omar al-Bashir ha portato alcuni miglioramenti in termini di libertà religiosa e sono state abolite le pene previste dal codice penale della sharia. È stato allora che ACS ha potuto finanziare e contribuire all’importazione di un computer per la diocesi di El Obeid, cosa che negli anni precedenti sarebbe stata impossibile, continua Kinga Schierstaedt. Ma questa nuova libertà fu di breve durata.

 

Pur essendo minoritaria, la Chiesa è sempre stata un «porto di pace» per la popolazione e molte persone si sono rifugiate nelle chiese all’inizio della guerra. Oggi, questo rifugio è esso stesso indebolito. Molti missionari e comunità religiose hanno dovuto lasciare il Paese, parrocchie, ospedali e scuole cessarono le loro attività.

 

Il seminario di Khartum ha dovuto chiudere i battenti. Fortunatamente alcuni seminaristi riusciti a fuggire hanno potuto continuare la loro formazione nella diocesi di Malakal, nel vicino Paese del Sud Sudan. Mons. Michael Didi, arcivescovo di Khartoum, si trovava a Port Sudan, sulla costa del Mar Rosso, quando è scoppiata la guerra e non ha potuto tornare nella sua città.

 

Mons. Tombe Trile, vescovo della diocesi di El Obeid, ha dovuto trasferirsi nella cattedrale perché la sua casa era parzialmente distrutta. Molti cristiani sono fuggiti a piedi o attraverso il Nilo e si sono stabiliti in campi profughi dove la sopravvivenza è una lotta quotidiana. Oggi l’esistenza stessa della Chiesa in Sudan è messa in discussione.

 

Tuttavia, ci sono alcune luci in mezzo all’oscurità. «Se è vero che la guerra continua, non può soffocare la vita. Sedici nuovi cristiani sono stati battezzati a Port Sudan durante la Veglia Pasquale e 34 adulti sono stati cresimati a Kosti!» confida un testimone.

 

La Chiesa rimane molto attiva anche in Sud Sudan, assistendo i rifugiati provenienti dal vicino nord e aiutando i seminaristi sudanesi a continuare la loro formazione, grazie, tra gli altri, al sostegno di ACS. «La Chiesa del Sud Sudan si sta preparando per il futuro aiutando i cristiani sudanesi a prepararsi per la pace di domani», conclude Kinga Schierstaedt.

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Persecuzioni

Pakistan: evade un detenuto, rappresaglia contro i cristiani

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   La denuncia dell’attivista per i diritti umani Xavier William ad AsiaNews: nel penitenziario di Rawalpindi, dove è detenuto anche Imran Khan, dopo la fuga di un carcerato viene impedito ai 200 cristiani reclusi di recarsi nella chiesa, l’unica aperta dal 2009 in un carcere pachistano. «Occorre garantire un equilibrio tra sicurezza e libertà religiosa: la direzione riveda la decisione».   «Abusi, discriminazioni e aggressioni». È la sorte subita da circa 200 detenuti cristiani nel carcere di Adyala a Rawalpindi, nella provincia del Punjab, in Pakistan. A denunciarlo ad AsiaNews è Xavier William, 37 anni, attivista per i diritti i umani, che racconta di una restrizione della libertà religiosa introdotta proprio durante la Quaresima: da giorni nel penitenziario – dove è detenuto anche l’ex primo ministro Imran Khan con il suo team, insieme a terroristi di alto profilo – vige il divieto di partecipare alle attività della chiesa, la prima aperta in un carcere pakistano nel 2009 e per questo salutata allora come un passo significativo per il Paese.

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Il motivo della misura è una falla emersa nella sicurezza del penitenziario di massima sicurezza, che ha permesso il mese scorso a un carcerato di evadere. Per questa vicenda 6 funzionari sono stati sospesi per 90 giorni per negligenza. Ma il giro di vite generale sulle misure detentive seguito a questo episodio ha colpito in maniera particolarmente dura la minoranza cristiana: ai detenuti è ora permesso frequentare la chiesa solo per due ore alla domenica.   «Faccio loro visita in prigione e in tribunale. Stanno già affrontando molte difficoltà, sia all’interno del carcere sia nel sistema giudiziario. Sono costretti a pulire le celle e subiscono ripetuti abusi» spiega Xavier William. «Ora sono privati anche della possibilità di andare in chiesa, pregare o compiere qualsiasi attività per la loro crescita spiritualeÐ.   L’attivista da oltre un decennio collabora con organizzazioni per la tutela dei diritti delle persone emarginate. «In questi anni ho lottato per il caso di Asia Bibi, di Rimsha Masih e di altre persone accusate ingiustamente», racconta. Le condizioni di vita durante la detenzione riflettono le ostilità affrontate quotidianamente dalla comunità cristiana anche fuori da quelle mura». Nelle aree più svantaggiate vive un vero e proprio incubo», dice.   Le misure adottate dalla direzione del carcere di Adyala sollevano serie preoccupazioni per la libertà religiosa e i diritti delle comunità minoritarie in Pakistan. «La chiusura della chiesa, in seguito all’evasione di un detenuto, è una risposta esagerata, che colpisce in modo sproporzionato i detenuti cristiani in un Paese dove questa comunità rappresenta l’1,8 per cento della popolazione». «La misura» aggiunge «mina anche la loro possibilità di osservare importanti tradizioni religiose, come quella di trascorrere un tempo prolungato in preghiera e riflessione in vista della Pasqua».   La richiesta è quindi di un intervento immediato da parte del ministro degli Interni, dell’Ispettorato generale delle carceri e di tutte le autorità competenti. «È urgente che la direzione riveda questa decisione, assicuri la riapertura della chiesa e permetta ai detenuti cristiani di praticare la loro fede senza indebite restrizioni» afferma Xavier Willam. «Bilanciare le misure di sicurezza con la protezione delle libertà religiose è essenziale per sostenere i principi di giustizia e uguaglianza in Pakistan».

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«Invece di vietare l’accesso alla chiesa, andrebbero migliorati i protocolli di sicurezza durante le attività religiose», propone l’attivista. Aumentando, ad esempio, di numero di sorveglianti durante le ore di culto, implementando controlli più rigorosi all’entrata e all’uscita, anche con l’ausilio della tecnologia di videosorveglianza, «per monitorare le attività senza interrompere la preghiera». «Prevedere un accesso scaglionato alla chiesa», aggiunge. E ancora: «Nominare consulenti spirituali o cappellani fidati per sovrintendere alle attività religiose, che lavorino a stretto contatto con le autorità carcerarie».   Andrebbero adottate disposizioni speciali per le festività religiose – come la Quaresima, il Ramadan, il Natale e la Pasqua» per «facilitare l’osservanza spirituale». E nel caso di inevitabili interventi motivati da preoccupazioni in materia di sicurezza – continua Xavier William – occorrerebbe sempre «coinvolgere rappresentanti religiosi e leader dei detenuti per sviluppare soluzioni congiunte, in modo che le misure siano percepite come giuste e necessarie, piuttosto che discriminatorie».   Infine, sarebbe opportuno anche Ëistituire un comitato composto da autorità carcerarie, rappresentanti religiosi e difensori dei diritti umani per rivedere periodicamente le politiche. Per garantire un equilibrio costante tra sicurezza e libertà religiosa».   Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne. Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Persecuzioni

La nuova Costituzione della Siria post-Assad sancisce la legge islamica della sharia

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La scorsa settimana il capo del movimenti islamista Hayat Tahrir al-Sham (HTS) e autoproclamato presidente Ahmed al-Sharaa (già noto, e ricercato dagli USA, come il terrorista di Al Qaeda e ISIS Abu Mohammad al-Jolani) ha firmato una nuova dichiarazione di una Costituzione provvisoria per la nuova Siria.

 

Un comitato di nominati dall’HTS l’ha elaborato (o almeno una bozza parziale) in una commissione, e rende chiaramente la legge islamica o sharia la nuova legge del Paese.

 

Per la prima volta nella storia della Siria, la costituzione riconosce la legge islamica come fonte principale della giurisprudenza. In precedenza, il governo di Assad riconosceva la legge islamica solo come fonte, o una delle tante fonti.

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La famiglia Assad apparteneva risaputamente alla fede islamica alawita, e quindi ha operato in modo tale da garantire protezione a tutte le minoranze religiose non sunnite. Tuttavia queste protezioni sono state chiaramente ora rimosse, nel mezzo di un massacro in corso che ha preso di mira principalmente gli alawiti nelle regioni costiere della Siria, dove migliaia di persone sono morte.

 

Sotto Assad, i cristiani in particolare vivevano la loro fede in modo molto pubblico, il che includeva parate nelle strade delle principali città durante festività come Natale e Pasqua. La festa di San Giorgio era spesso accompagnata anche da celebrazioni pubbliche in varie città cristiane. Aveva fatto scalpore il caso degli alberi di Natale dati alle fiamme negli scorsi mesi.

 

Sappiamo che ora i cristiani vivono nella paura, e tutte le feste della chiesa sono state cancellate del tutto o almeno notevolmente attenuate. Di recente ci sono state segnalazioni secondo cui a Damasco i militanti di HTS hanno invaso ristoranti e bar, rimproverando e insultando i cristiani per aver mangiato e bevuto durante il digiuno musulmano del Ramadan.

 

I cristiani sono tra le vittime dei massacri della nuova Siria in mano ai takfiri, definiti ridicolmente da Israele come «jihadisti educati». Cristiani e alawati sono oggi oggetto di stragi che qualcuno ha chiamato «neo-ottomane», perpetrate da forze armate nelle cui posizioni di rilievo sono stati nominati jihadisti da tutto il mondo. – basti pensare che il nuovo capo dell’Intelligence damascena è un uomo designato come terrorista dall’ONU.

 

Tra le poche voci levatesi in loro difesa, quella di monsignor Viganò.

 

«Questo genocidio si compie oggi sotto i nostri occhi, nel silenzio dei parlamenti delle Nazioni «democratiche» e di una Gerarchia «cattolica» asservita agli interessi del globalismo» ha detto il vescovo in una dichiarazione.

 

«I nostri fratelli Cristiani sono barbaramente uccisi nelle città e nei villaggi. Anziani, donne e bambini vengono crocifissi e massacrati solo a causa della loro Fede: una Fede che decenni di compromessi e cedimenti hanno quasi completamente cancellato nei Paesi occidentali e specialmente nei loro governanti».

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«Non possiamo rimanere in silenzio né inerti dinanzi al martirio dei nostri fratelli Cristiani» esclama l’arcivescovo. «Quelle scene di violenza disumana e crudeltà che vediamo accadere in terre remote potrebbero domani replicarsi nelle nostre Nazioni, che il tradimento di governanti corrotti ha fatto invadere da orde di fanatici maomettani in età militare, per imporre all’Europa la sostituzione etnica e la cancellazione definitiva della Civiltà cristiana».

 

Esorto i Cattolici, in questi giorni della Santa Quaresima, a pregare, a digiunare e a fare penitenza per impetrare al Cielo protezione sui fedeli perseguitati e martirizzati in Siria, a Gaza e in molte altre parti del mondo» dice monsignore. «Possa il loro esempio di eroica fermezza nella professione della vera Fede animare, prima che sia troppo tardi, un risveglio delle coscienze dei Cristiani e un ritorno a Dio, dal quale dipende la pace, la concordia e prosperità dei popoli».

 

Viganò terminava il messaggio con delle parole latine di grande significato: «Deus vult!».

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Cina

I cattolici di Shanghai e le restrizioni del vescovo Ma Daqin

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   Una voce cattolica da Shanghai ricorda ad AsiaNews il caso del vescovo ausiliare che si dimise dall’Associazione Patriottica all’atto dell’ordinazione e da allora vive recluso. Si sperava che la tormentata nomina di mons. Shen Bin come ordinario sbloccasse questa situazione, ma a ormai due anni di distanza nulla è successo. E Ma Daqin resta l’icona del «giusto sofferente».   Abbiamo ricevuto la seguente riflessione da un membro della comunità cattolica di Shanghai. Riteniamo importante far conoscere al pubblico le opinioni dei cattolici in Cina, anche quando hanno toni sommessamente critici, espressi nel rispetto della decisione delle autorità ecclesiastiche.   Molti cattolici di Shanghai desideravano due anni fa e tuttora desiderano che la decisione della Santa Sede di nominare mons. Joseph Shen Bin come vescovo della diocesi di Shanghai potesse portare presto sollievo anche per il vescovo Taddeo Ma Daqin, che ha dovuto affrontare «restrizioni» per oltre un decennio.   Nell’autunno 2024, l’arcivescovo Claudio Maria Celli, capo del team negoziale della Santa Sede, ha visitato Shanghai. Più recentemente, nel febbraio 2025, anche una delegazione della diocesi di Hong Kong, guidata dal card. Stephen Chow Sau-yan, si è recata a Shanghai. Sebbene la partecipazione alla loro Messa nella basilica di Sheshan e ad altre attività diocesane sia stata limitata, anche con questo basso profilo le visite di queste figure di spicco hanno acceso la speranza tra i cattolici di Shanghai, che ora intravedono una rinnovata possibilità per il vescovo Ma.

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L’argomento principale contro la ripresa delle funzioni del vescovo Ma è che un vescovo ausiliare può svolgere il suo compito solo con il mandato dell’ordinario della diocesi. Con il vescovo Shen ora a Shanghai, se fosse disposto a rinominare il vescovo Ma, quest’ultimo potrebbe tornare immediatamente al suo lavoro. Da quasi due anni ormai il vescovo Shen presta servizio nella diocesi di Shanghai e ha ricopre la carica di presidente della Conferenza episcopale della Chiesa cattolica in Cina (BCCCC, organismo non riconosciuto dalla Santa Sede ndr) e sono stati compiuti sforzi significativi per mettere in luce il suo lavoro.   La diocesi di Shanghai, il binomio One-Association-One-Conference cinese (Associazione patriottica e BCCCC, ndr) e persino Vatican News hanno ampiamente raccontato sia le attività della diocesi sia quelle del nuovo vescovo, contribuendo a rafforzare la sua reputazione. Nonostante questi sforzi, però, la questione del vescovo Ma rimane tuttora irrisolta.   Per quanto tempo ancora le restrizioni continueranno? Molti lettori probabilmente ricordano il suo caso. Il 7 luglio 2012, durante il suo discorso di ringraziamento al termine della Messa di consacrazione episcopale, dichiarò: «D’ora in poi dovrò dedicare tutta la mia mente e il mio corpo all’evangelizzazione pastorale. Certi incarichi non mi si addicono, per cui da questo momento della consacrazione non è più conveniente che io sia membro dell’Associazione patriottica».   Quel pomeriggio stesso fu sospeso e interrogato, poi rimosso dal suo incarico e posto sotto sorveglianza residenziale, dove rimane tuttora. Quello che molti forse non sanno è che il governo cinese aveva da tempo intenzione di nominare il vescovo Ma come successore del vescovo Aloysius Jin Luxian, in sostituzione del vescovo Joseph Xing Wenzhi.   Questo piano era stato messo in moto già prima del graduale ritiro del vescovo Xing dalle funzioni pubbliche. E quando il vescovo Xing era andato in pensione, la Santa Sede aveva accettato di approvare la nomina del vescovo Ma.   In seguito all’«incidente del 7 luglio» (l’ordinazione episcopale del vescovo Ma al mattino e al successivo isolamento iniziato da quel pomeriggio ndr), la Santa Sede ha ripetutamente comunicato attraverso vari canali che, per rispetto dei due vescovi allora viventi, il vescovo Aloysius Jin Luxian (vescovo coadiutore, deceduto poi nel giugno 2013) e il vescovo Joseph Fan Zhongliang (ordinario «sotterraneo», deceduto nel marzo 2014), il vescovo Ma avrebbe potuto servire solo come vescovo ausiliare. Tuttavia, la Santa Sede aveva chiarito le sue intenzioni durante la sua nomina: Ma è stato designato come successore dei vescovi anziani, per assumere infine il ruolo di ordinario (vescovo diocesano) della diocesi di Shanghai.   Data la relazione unica tra Cina e Vaticano, il governo cinese non riconosce i vescovi della Chiesa clandestina. Nella lettera di nomina emessa dalla BCCCC, Ma è stato designato come vescovo coadiutore della diocesi di Shanghai, mentre la lettera di nomina della Santa Sede lo nominava vescovo ausiliare. Dopo l’incidente del 7 luglio, sebbene l’insediamento del vescovo Ma fosse valido e legittimo ai sensi del diritto canonico, egli non era in grado di soddisfare tutti i requisiti previsti dagli articoli 6(6) e 7 delle «Misure sulla registrazione dei vescovi nella Chiesa cattolica in Cina (processo e attuazione)» emanate dall’Amministrazione statale cinese per gli Affari religiosi.   In particolare, non ha potuto presentare la domanda di registrazione alle autorità governative cinesi attraverso il sistema «una Associazione-una Conferenza». Di conseguenza, il vescovo Ma non ha potuto completare la sua registrazione presso le autorità religiose statali, esercitare i suoi doveri o condurre attività religiose come vescovo.   Il 12 dicembre 2012, la BCCCC ha revocato ufficialmente la lettera di nomina a vescovo coadiutore. Tuttavia, la nomina della Santa Sede a «vescovo ausiliare, con l’intenzione esplicita di farlo succedere al vescovo diocesano ordinario» è rimasta invariata fino ad oggi. Nel frattempo, l’affermazione che il vescovo Ma è ancora sotto «restrizione» è stata ripetutamente respinta e ignorata dai suoi oppositori all’interno della diocesi, così come dalle autorità governative cinesi.   La situazione si è sviluppata in modo paradossale. Inizialmente, Ma era un candidato fortemente favorito e promosso dal governo cinese. Eppure, una sola dichiarazione di opportunità che esprimeva la sua indisponibilità a ricoprire una posizione nell’Associazione patriottica, è stata interpretata come un rifiuto del patriottismo e dell’amore per la Chiesa, superando una linea rossa politica.   Con la nuova leadership in carica, l’«affidabilità politica» è diventata il criterio principale per la selezione dei quadri e dei leader religiosi. Il principio secondo cui «la lealtà che non è assoluta non è assolutamente lealtà» sembra aver lasciato il vescovo Ma in un vicolo cieco. Ed è chiaro che un ambiente politico del genere è eccezionalmente duro.   In secondo luogo, esperti anonimi hanno sottolineato che la revoca della nomina di Ma a vescovo ausiliare da parte della BCCCC si basava su una norma giuridica superiore intitolata «Misure sulla registrazione dei vescovi nella Chiesa cattolica in Cina (processo e attuazione)». Questo documento, indicato come Documento n. 25 [2012] emesso dall’Amministrazione statale per gli affari religiosi, è stato pubblicato sul sito web del governo centrale il 12 novembre 2012.   Solo il 12 dicembre 2012, lo stesso giorno in cui è stata revocata la lettera di nomina del vescovo Ma, è stata adottata la corrispondente norma giuridica subordinata, intitolata «Misure per l’elezione e la consacrazione dei vescovi da parte della Conferenza episcopale della Chiesa cattolica in Cina».   Questo documento è stato poi pubblicato l’8 aprile 2013, «con la data di pubblicazione che segna la sua attuazione». In precedenza, l’Associazione patriottica e la BCCCC avevano pubblicato un documento con lo stesso titolo nel 1993. Tuttavia, quel documento precedente conteneva solo sei semplici articoli e non includeva norme che avrebbero riguardato la consacrazione episcopale.   Pertanto, la gestione dell’incidente del 7 luglio costituisce un chiaro caso di «legislazione retroattiva». L’atto della BCCCC di revocare la nomina del vescovo Ma a vescovo ausiliare è quindi discutibile e illegale. Inoltre, alcuni vescovi che hanno partecipato alla liturgia hanno scelto di tradire il loro fratello non difendendo la validità della consacrazione di Ma nella liturgia, il che ha indubbiamente aggiunto insulto al danno.   L’esperto anonimo fa anche osservare che questa forma di legislazione retroattiva è controproducente per gli sforzi di rafforzare lo stato di diritto negli affari religiosi. La promozione dello Stato di diritto nella governance religiosa richiede un’attenta considerazione di fattori quali la stabilità giuridica, la legittimità procedurale, la conformità costituzionale e la fiducia del pubblico. È fondamentale garantire che la creazione e l’attuazione delle leggi non solo aderiscano ai principi dello Stato di diritto, ma salvaguardino anche l’equità sociale e la giustizia in modo efficace.   Il vescovo Ma è molto apprezzato per la sua predicazione e gode di una forte reputazione tra i cattolici locali di Shanghai. I suoi diversi talenti, uniti alle pressioni politiche e al trattamento freddo che ha subito negli ultimi 13 anni, lo hanno trasformato in «un uomo giusto che soffre», che ricorda Giobbe seduto nella cenere, evocando una profonda compassione. È diventato l’esempio per eccellenza dell’«uomo giusto che soffre» nella Cina contemporanea.   Questa situazione rappresenta una sfida significativa anche per il vescovo Shen, portando persino a valutazioni ingiuste nei suoi confronti. Le persone considerano inconsciamente il vescovo Shen come qualcuno che ha preso il posto di un altro, spesso confrontando i punti di forza del vescovo Ma con le debolezze percepite dal vescovo Shen.   Il Vescovo Ma è celebrato per la sua profonda spiritualità e l’eccezionale eloquenza, e le sue omelie sono molto apprezzate. Al contrario, la gente critica le omelie del nuovo vescovo giudicandole meno spirituali.

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Il vescovo Ma è ampiamente rispettato per la sua frugalità, semplicità di vita e capacità di mantenere misure appropriate nei rapporti interpersonali. Al contrario, il nuovo vescovo è stato criticato per aver adottato uno stile di lavoro più secolarizzato e per aver nominato collaboratori fidati della sua città natale in posizioni chiave a Shanghai. Sono accuse che possono mescolare elementi di verità e falsità, rendendo difficile discernere la realtà completa.   Molti dei religiosi e delle suore della diocesi di Shanghai rifiutano di rispondere a domande su questo argomento. Tuttavia, alcuni hanno condiviso i loro pensieri, sottolineando che la diocesi non può funzionare senza un vescovo. Riflettendo sull’ultimo decennio, hanno riconosciuto di essersi affidati esclusivamente alla fede e alla coscienza personale nei loro sforzi di evangelizzazione, spesso non riuscendo a cogliere il quadro generale.   Da quando il vescovo Shen è entrato in carica, la situazione è migliorata. Ha riorganizzato il clero diocesano, ha adeguato gli stipendi, ha rafforzato la gestione finanziaria e ha implementato molti regolamenti. Il Seminario di Sheshan, che al suo punto più basso contava meno di dieci seminaristi, ha vissuto una rinascita. Ora conta 25 seminaristi, tra cui 10 nuovi ingressi, oltre a tre suore novizie e 14 partecipanti al programma inaugurale di formazione per le suore, con una vitalità incoraggiante a cui non si assisteva da anni.   Tuttavia, alla domanda sulle visite dell’arcivescovo Celli o della delegazione di Hong Kong guidata dal card. Chow, qualcuno ha candidamente osservato: «forse queste cose non sono destinate a noi». Con un tono malinconico, lo stesso cattolico ha aggiunto: «In questa Chiesa sinodale, per quanto tempo ancora potremo rimanere ignorati?».   Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne. Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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