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Scuola 4.0, contraddizione e catastrofe. Nuovo intervento di Elisabetta Frezza

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Renovatio 21 pubblica l’intervento di Elisabetta Frezza al Convegno di Parma «L’assetto dei ruoli e delle responsabilità dopo l’emergenza» di venerdì 5 maggio. Non si tratta del primo scritto dell’autrice – che può essere considerata come una delle pochissime persone impegnata nell’analisi del tema della Scuola 4.0 – dedicato a questo specifico argomento. Renovatio 21 aveva pubblicato mesi fa l’articolo «Scuola 4.0, il programma di smantellamento dell’istruzione continua» e l’articolo «L’abisso della Scuola 4.0», che potrebbe aver avuto una certa eco in vari ambienti.

 

 

 

Credo possiamo dirci tutti d’accordo nel ritenere la scuola un ganglio fondamentale della cosa pubblica, della res publica, non fosse che per il fatto di essere quello che, più di ogni altro, ci parla di futuro.

 

È tanto fondamentale quanto (da alcuni decenni a questa parte) politicamente e socialmente negletto: tant’è che è stato lasciato in gestione, di fatto, da un lato a decisori extraistituzionali dai molti e stravaganti nomi (TreeLLLe, Invalsi, Indire, ecc.), collocati al di fuori dei luoghi della dialettica politica e legati a doppio filo a organismi sovranazionali anch’essi non rappresentativi; dall’altro al braccio operativo di apparati pedagogico-burocratici che, innervando – loro sì! – le istituzioni centrali e periferiche, hanno garantito il perpetuarsi di un moto lineare e costante pur nell’avvicendarsi di governi di diversi colori. 

 

La scuola è insomma un ircocervo tecno-burocratico, che ha raggiunto la sua espressione compiuta con l’epifania della buona scuola renziana – «buona» per autocertificazione: un marchingegno che è stato assemblato al di fuori delle stanze parlamentari, ma poi in queste stanze è stato ratificato e confezionato sottoforma di legge dello stato.

 

Il suo testo è scritto in quella lingua parallela, si può dire esoterica, le cui formule di ordinanza e i cui stilemi permeano tutto il pianeta scuola, a partire dai suoi vivai, e vi hanno attecchito al punto da diventare idioma comune, e far entrare tutti in risonanza.

 

Il risultato di questo riformismo compulsivo, nutrito dal mito dell’innovazione – dell’innovare per innovare, sul presupposto che il nuovo è buono per definizione –, è tale che qualunque persona raziocinante suggerirebbe di correggere il tiro, se non di invertire la rotta. 

 

Perché oggi ci troviamo a fare i conti con una vera catastrofe educativa: scolari sempre più ignoranti (anche se inconsapevoli di esserlo, perché abbacinati da diplomi sfolgoranti); docenti sempre più depressi; famiglie sempre più rassegnate (o semplicemente accontentate con gli effetti speciali esposti in vetrina – la vetrina si chiama PTOF –, oppure tacitate con voti gonfiati: troppi genitori, purtroppo, si fanno disinnescare così).

 

Fatto sta che siamo tutti abitatori in pectore di una incombente società analfabeta, cieca verso le proprie ricchezze artistiche, dimentica della propria straordinaria cultura, ineducata – e perciò insensibile – alla bellezza.

 

In questo pluridecennale processo di demolizione controllata della scuola a mezzo riforme, lo choc pandemico ha segnato una tappa decisiva, anche perché ha occupato un tempo proporzionalmente assai lungo nella economia di ancor brevi esistenze come quelle dei bambini e dei ragazzi. 

 

Nel biennio 2020/2022 sulla scuola si è abbattuta, non a caso, una alluvionale normativa d’emergenza a carattere speciale, che si è contraddistinta per un grado di inflessibilità rimasto ineguagliato nel panorama europeo e internazionale. Ma che, sempre non a caso, ha consentito di raggiungere in tempi compressi traguardi insperati.

 

Ha sortito infatti un effetto catapulta, in duplice direzione: ha permesso di espandere a dismisura lo spazio occupato, in orario curricolare, da contenuti ideologici, tanto effimeri quanto scadenti, correlativamente erodendo lo spazio necessario all’apprendimento delle materie fondamentali (peraltro l’indottrinamento scolastico è ora sistematizzato dentro la nuova materia pigliatutto che va sotto l’etichetta, bella e inattaccabile, di «nuova educazione civica», introdotta dalla l.92/2019 entrata in vigore con l’a.s. 2020 e che comprende, come piatto forte, la catechesi sull’Agenda 2030); ma l’emergenza ha anche consentito di fare un improvviso balzo in avanti nella cosiddetta transizione digitale, un balzo che, dopo le prove generali celebrate appunto grazie al pretesto sanitario (con l’allenamento intensivo a vivere, studiare e lavorare nella c.d. contactless society), si è cristallizzato, rendendo stabile se non irreversibile il punto di caduta. 

 

Il recente esperimento sociale di cui la scuola è stata laboratorio privilegiato ha tuttavia prodotto anche un effetto collaterale: ha fatto risuonare un allarme così forte da non poter più essere soffocato. Perché il riavvio delle lezioni dopo il loro trasloco nella bolla telematica (con la fallimentare “didattica a distanza”), oltre a far emergere il diffuso danno psicofisico arrecato ai più giovani da misure securitarie sproporzionate, ha messo impietosamente a nudo le paurose voragini cognitive accumulate nel tempo dagli scolari, da ben prima della emergenza.

 

Essi sono rientrati in aula più arrugginiti e inselvaggiti che mai, regrediti e profondamente provati dalla esperienza nefasta dell’isolamento domestico; dalla deformazione protratta dei ritmi della loro quotidianità; dalla immersione telematica in apnea, dalla prolungata desuetudine allo studio, dalla espropriazione fraudolenta di quel contesto vitale, fisico e partecipato, che la classe costituisce, in modo infungibile.

 

La cattività, insomma, ha fatto da detonatore a problemi preesistenti e in parte già cronicizzati.

 

E qui apro e chiudo una breve parentesi. Non dobbiamo dimenticarci di cosa hanno subìto gli scolari, impunemente. Ricordiamo il rituale del controllo della temperatura e delle abluzioni; l’occultamento dei volti e l’impedimento a respirare; i sensi unici alternati nei corridoi; la quarantena dei fogli; il divieto di uscire dal recinto segnato con il nastro adesivo o delimitato con il plexiglas; il divieto di passarsi una matita; la disinfestazione del materiale scolastico; le misurazioni col metro tra le rime buccali; ricordiamo anche le stanze di isolamento.

 

Ricordiamo il ricatto: solo se ti sottoponi a un trattamento sanitario in fase di sperimentazione puoi salire sull’autobus che ti porta a scuola, puoi fare sport, entrare in un museo, in un teatro, in un cinema, frequentare l’università.

 

Ricordiamo gli episodi di incuria verso bambini che stavano male e venivano abbandonati a se stessi, di brutale discriminazione, di vera e propria vessazione gratuita.

 

Ne ricordiamo troppi, di questi episodi, figli della sospensione del diritto e di un incredibile scollamento dalla logica e dalla ragione, che ha scatenato in molti sedicenti educatori una morbosa eccitazione per l’esercizio di un potere indebito quanto inebriante, monco di una minima riserva aurea di umanità.

 

Ecco, non possiamo pensare che tanta dissennatezza non abbia lasciato cicatrici profonde, anche indelebili, in chi ci è rimasto immerso per anni decisivi della propria esistenza. Eppure, di questo massacro, molti hanno gioito, perché ne hanno tratto vantaggio. Chiusa parentesi.

 

Ma all’allarme giovani che oggi risuona un po’ dappertutto, l’istituzione come risponde? Risponde incrementando le dosi del veleno che lo ha provocato: e cioè da una parte svuotando sempre più la scuola dei suoi contenuti essenziali (delle conoscenze oggettive e durevoli, quelle che producono frutto nel tempo e aiutano a strutturare una personalità) per sostituirli con paccottiglia usa e getta e con attività ricreative assortite; dall’altra parte sterilizzandola e smaterializzandola, ovvero alienandola nella dimensione asettica del virtuale.

 

In concreto, da una parte il curricolo viene saturato con i dogmi dell’Agenda 2030 (oltre che con PCTO e soft skills, orientamenti e trovate varie); dall’altra parte viene imposta a ciascuna scuola, di ogni ordine e grado, una radicale metamorfosi digitale in ossequio al Piano scuola 4.0.

 

Queste due voci, questi due filoni, peraltro si intersecano, sempre sotto il segno invincibile della innovazione. Del resto, hanno la stessa matrice, lo stesso marchio di fabbrica. La nuova educazione civica, materia trasversale che intacca e colora tutte le altre discipline, e i loro libri di testo, si pone infatti come obiettivo principe quello di plasmare “cittadini globali e digitali” (formuletta ossimorica e beota che significa il contrario di ciò che evoca: significa infatti non-cittadino, apolide devoto all’Agenda ONU 2030 la quale, con i suoi 17 “goal”, che sono i 17 comandamenti della nuova religione universale, è il contenitore capiente di tutti i macromotivi ideologici in voga e in continuo aggiornamento; per esempio, ha recepito in corsa tutto il pacchetto di precetti sanitari).

 

I contenuti ideologici, quindi, in misura sempre maggiore prendono il posto, a scuola, di quelli propriamente culturali e delle conoscenze fondamentali (in pratica, si integra un aliud pro alio). Ma – attenzione – perché sta bollendo in pentola una sostituzione ancor più radicale: una vera e propria palingenesi tecnologica, che significa lo smantellamento, anche fisico, della scuola come l’abbiamo sempre conosciuta e come ancora resiste nel nostro immaginario: nel senso di mura, di persone in carne e ossa, di strumenti didattici come penne, libri, quaderni. 

 

Ed è su questo che vorrei soffermarmi oggi, nei limiti del tempo a disposizione, per cercare di far comprendere di quale magnitudine sia la manovra in cantiere; una manovra che, foriera di ricadute inimmaginabili sulla formazione dei nostri giovani e sulla vita di tutti noi, si sta realizzando con una fretta sconsiderata, sfuggendo qualsiasi discussione politica nel merito, col favore del buio e del silenzio.

 

Mi riferisco al Piano scuola 4.0, che è un documento non firmato, lungo 39 pagine, di delirio futuristico, scritto in modo che non saprei come altro definire se non degradante. Lo scempio linguistico rientra nel fenomeno di imbarbarimento culturale e colonizzazione cerebrale di cui molti vanno fieri come fosse una medaglia al valore.

 

Questo giudizio non è un’iperbole; sfido chiunque – testo alla mano – a smentirlo. 

 

Il Piano contiene la tabella di marcia che segna le progressive tappe da spuntare, da qui al 2025, nel processo di digitalizzazione della didattica e della organizzazione scolastica italiana secondo le linee di investimento previste dal PNRR.

 

L’estate scorsa, a ciascuna singola scuola italiana – dagli asili fino alle università – è stata gettata un’esca appetitosa: ogni scuola si è vista recapitare a bilancio decine, spesso centinaia di migliaia di euro (a seconda del tipo di istituto e della sua grandezza), «per accelerare il processo di transizione digitale della scuola italiana in tutte le diverse dimensioni e allinearlo alle priorità dell’Unione Europea». Si tratta di soldi che la UE piglia dalle nostre tasche e ci restituisce ordinandoci come dobbiamo spenderli.

 

Gli istituti che volessero vedere confermati questi finanziamenti dovevano presentare, entro il 28 febbraio, il proprio progetto, e caricarlo in una piattaforma che si chiama FUTURA. 

 

In pratica, la burocrazia nostrana, al guinzaglio di quella europea, dice (o meglio, sussurra) a ciascun dirigente: io ti do tanti soldi, non perché tu me li chiedi per fare qualcosa che ti serve, ma perché devi spenderli per acquistare articoli dal mio catalogo, anche se non ti servono; e, in funzione di questo mucchio di roba che ti si rovescerà addosso, devi ristrutturare la didattica e la formazione del personale, l’offerta formativa e il sistema di valutazione. 

 

Si crea così una immensa mangiatoia per il mercato delle tecnologie dell’educazione, che alimenta lo strapotere delle lobby del digitale. E d’altra parte secondo l’EFF, una fondazione americana di legali specializzati nella tutela dei «diritti digitali», la tecnologia digitale educativa è «la più importante industria al mondo di estrazione di dati». E, come dice Peter Greene: «Se i dati sono il nuovo petrolio, allora le scuole pubbliche sono il nuovo Texas».  Si promuove questo immenso «supermercato» in cui le scuole non «possono», ma «debbono», precipitarsi a fare acquisti. Se poi i muri cadono a pezzi e i docenti sono sottopagati, questo al PNRR non interessa, arrangiatevi. 

 

Si tratta del più imponente finanziamento mai ricevuto dalle scuole italiane (per un totale di 2,1 miliardi di euro) e destinato esclusivamente – per vincolo tassativo – alla creazione 1) di «ambienti d’apprendimento innovativi» per scuole sia di primo sia di secondo grado («Next generation Classroom») e 2) di «laboratori per le professioni digitali del futuro» per le sole scuole di secondo grado («Next Generation Lab»). 

 

L’ex ministro del governo Draghi Patrizio Bianchi (direttore scientifico della Fondazione Internazionale Big Data e Intelligenza Artificiale IFAIB) lo ha definito «il più grande intervento trasformativo mai realizzato, con risorse e tempi certi». Qui sta il punto. 

 

È ravvisabile infatti un indubbio salto di qualità rispetto a provvedimenti del passato anche recente, dei quali pure l’innovazione tecnologica, con tutta l’enfasi che la sorregge da anni, rappresentava il motore: per esempio i due Piani Nazionali Scuola digitale che si sono succeduti dal 2017, e anche i progetti europei del Programma Operativo Nazionale (PON istruzione), i quali però prevedevano risorse e aree di intervento decisamente più limitati e, soprattutto, conservavano il profilo della volontarietà.

 

Invece la pioggia di denaro del PNRR, coi suoi tempi e i suoi modi, è legata ai precisi vincoli e condizionalità, e incorpora processi serrati di gestione e di monitoraggio, con tanto di interventi amministrativi specifici in caso di inadempimento. 

 

Non è facile prefigurarsi plasticamente lo stravolgimento prossimo venturo. Proviamo a farcene un’idea.

 

Abbiamo detto che il primo ambito di intervento (Next Generation Classroom) riguarda l’ambiente dell’apprendimento, definito “ecosistema di apprendimento” in omaggio alla concorrente retorica ambientalista in agenda.

 

Dicono: lo spazio tradizionale, configurato come «un’aula di forma quadrata o rettangolare, con le file di banchi disposti di fronte alla cattedra del docente», va urgentemente smantellato perché obsoleto. «La ricerca nazionale e internazionale ha mostrato come il modello tradizionale di spazio di apprendimento non sia oggi più in linea con le esigenze didattiche e formative delle studentesse e degli studenti rispetto alle sfide poste dai cambiamenti culturali, sociali, economici, scientifici e tecnologici del mondo contemporaneo».

 

Da notare subito il vizio ricorrente di spacciare per acquisizioni scientifiche scelte del tutto discrezionali e anzi arbitrarie, semplicemente funzionali alla vis innovatrice dell’agenda. Si parla infatti di «ricerche nazionali e internazionali» senza alcun riferimento bibliografico (che probabilmente non esiste). Come fanno notare su Roars Giovanni Carosotti e Rossella Latempa, le presunte fonti scientifiche non sono citate, ma solo millantate; in compenso vengono citate le raccomandazioni del World Economic Forum, Report 2020, The Future of Jobs. Il che la dice lunga. 

 

Ma torniamo al nostro documento. 

 

«Gli ambienti fisici di apprendimento non possono essere oggi progettati senza tener conto anche degli ambienti digitali (ambienti on line tramite piattaforme cloud di e-learning e ambienti immersivi in realtà virtuale) per configurare nuove dimensioni di apprendimento ibrido. L’utilizzo del metaverso in ambito educativo costituisce un recente campo di esplorazione, l’eduverso, che offre la possibilità di ottenere nuovi “spazi” di comunicazione sociale, maggiore libertà di creare e condividere, offerta di nuove esperienze didattiche immersive attraverso la virtualizzazione, creando un continuum educativo e scolastico fra lo spazio fisico e lo spazio virtuale per l’apprendimento, ovvero un ambiente di apprendimento onlife». Dove va sottolineata, tra gli altri obbrobri, l’orwelliana novità del lemma onlife, evidente calco di online, assurto quest’ultimo a entità primaria da cui deriverebbe il resto della esperienza umana. Tutto ribaltato.

 

La scuola deve diventare una sorta di squallida sala giochi in cui le tempeste di immagini soppiantano lo studio delle leggi della realtà. All’orizzonte, il suo trasloco, armi e bagagli, nel metaverso. Che non è altro che un casco che impedisce di vedere la realtà e immerge in una consolatoria fiction permanente, regno incontrastato delle lobby del digitale smaniose di impossessarsi dei luoghi, delle menti, delle intimità. 

 

Quanto ai Next Generation Labs, essi mirano «allo svolgimento di attività autentiche e di effettiva simulazione dei contesti, degli strumenti e dei processi legati alle professioni digitali, di esperienze di job shadowing, […] di azioni secondo l’approccio work based learning,[…]. Si caratterizzano per essere coperti da una connettività diffusa in banda ultra larga, e sono aperti alla sperimentazione della tecnologia 5G». 

 

«Tali spazi devono essere disegnati come un continuum fra la scuola e il mondo del lavoro, coinvolgendo, già nella fase di progettazione, studenti, famiglie, docenti, aziende, professionisti, e integrandosi con i Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento (PCTO). I Next Generation Labs possono rappresentare una grande opportunità per ampliare l’offerta formativa della scuola, adeguando e innovando i profili di uscita alle nuove professioni ad alto uso di tecnologia digitale». «Le competenze digitali avanzate dovrebbero sostenere la forza lavoro, consentendo alle persone di acquisire competenze digitali specifiche con l’obiettivo di ottenere posti di lavoro di qualità e intraprendere percorsi professionali gratificanti».

 

I novatori hanno deciso (loro) che acquisire competenze digitali specialistiche è prerequisito irrinunciabile per «ottenere posti di lavoro di qualità e intraprendere percorsi professionali gratificanti». Ne consegue che studiosi, contemplativi, poeti, artisti, contadini, artigiani, filosofi, sono per definizione una manica di falliti.

 

Praticamente, occorre allestire delle basi spaziali, e chiamarle scuole. 

 

E nessuno pensi di svicolare, perché «la Roadmap del Piano Scuola 4.0 prevede […] un sistema informativo di monitoraggio e di rendicontazione online. Le scuole gestiranno le azioni di progettazione, allestimento e utilizzo dei nuovi ambienti e dei laboratori secondo un cronoprogramma nazionale».

 

E ancora: il Piano è «un programma di performance, con traguardi qualitativi e quantitativi (milestone e target) prefissati a scadenze precise, che tutti i soggetti attuatori dovranno rispettare». «La rendicontazione sul raggiungimento del target è soggetta a monitoraggio continuo e deve essere costantemente aggiornata dall’istituzione scolastica».

 

Siamo di fronte a un rigido schema impositivo: a un sopruso impacchettato in carta regalo. 

 

Da lustri ci martellano in testa il mantra della autonomia scolastica – strumento in effetti servito per polverizzare il sistema italiano di istruzione – ma, quando si tratta di applicare l’agenda, l’autonomia si dissolve come per incanto

 

Abbiamo detto sopra della strumentalità della «emergenza» ai fini di un cambio epocale di paradigma. Non è una illazione: di ciò il sistema non ha mai fatto mistero. 

 

Anzitutto, una curiosità: già nel 2019, la CEO e cofondatrice di Holon IQ, azienda leader che si occupa di analisi di mercato nel settore EdTech, raccontava come la transizione dovesse avvenire «a poco a poco, poi all’improvviso».

 

Ed era il 2019: profetica. La stessa Holon IQ qualche mese più tardi riferiva: «È stato un periodo straordinario per tutti noi: non importa dove vivi nel mondo, COVID-19 ha portato un’interruzione improvvisa e senza precedenti dell’umanità. L’UNESCO stima che più di 1,5 miliardi di studenti, più del 90% della popolazione studentesca mondiale, siano confinati nelle loro case».

 

Ne erano strafelici, loro. L’UNESCO dal canto suo, già nella primavera del 2020, agli albori dell’evo pandemico, preannunciava in gran pompa l’«esperimento di più vasta scala nella storia dell’istruzione». E due esponenti del Forum di Davos, in aprile, pubblicavano un articolo intitolato «La pandemia da COVID-19 ha cambiato per sempre l’istruzione. Ecco come». Il settore EDTech, che lavora per trasformare il modo in cui il mondo impara, ha guadagnato solo nel primo trimestre 2020 il 10% di quanto aveva guadagnato in dieci anni.

 

In ogni caso, è il Piano stesso a sottolineare in più parti l’assist fornito dalla pandemia. Per esempio dice che la pandemia «ha avuto un rilevante impatto nell’accelerazione dell’utilizzo di tecnologie basate sulla intelligenza artificiale, la robotica, l’automazione, e-commerce e blockchain, la realtà virtuale e aumentata, la stampa 3D/4D, cloud computing, internet delle cose, etc.».

 

Dice pure che il Piano, «affrontando le sfide e le opportunità messe in luce dalla pandemia di COVID 19…sottolinea l’esigenza di una migliore qualità e una maggiore quantità dell’insegnamento relativo alle tecnologie digitali, il sostegno alla digitalizzazione dei metodi di insegnamento e la messa a disposizione delle infrastrutture necessarie per un apprendimento a distanza inclusivo e resiliente». 

 

Grazie alla spinta dell’emergenza pandemica, siamo dunque planati in un altro pianeta, 4.0. La Scuola 4.0 è la metascuola. Il 4 non si sa bene da dove venga, ma evoca la cifra ricorrente della rivoluzione progettata da noti consessi filantropici. L’edizione italiana del manuale di istruzioni scritto da Schwab e intitolato alla Quarta Rivoluzione Industriale è prefatto, guardacaso, da John Elkann.

 

E la Fondazione Agnelli, con tutti i suoi satelliti e in particolare l’osservatorio Eduscopio (che dà periodicamente le pagelle a tutte le scuole d’Italia, così orientando flussi di iscrizioni e finanziamenti), da decenni ospita la cabina di regia del sistema scolastico italiano.

 

Come si legge nel suo sito, la fondazione «ha concentrato attività e risorse sull’education (scuola, università, apprendimento permanente) come fattore decisivo per il progresso economico e l’innovazione…» eccetera eccetera. A ciò si può aggiungere che l’ex ministro Bianchi nel 2018 scriveva il libro 4.0 La nuova rivoluzione industriale. Mettendo insieme le tessere, il Piano 4.0 parrebbe un omaggio all’illuminato programma di Quarta Rivoluzione Industriale. 

 

In questa prospettiva non è difficile cogliere un salto quantico verso la coltivazione differenziata della popolazione: da una parte i piani alti, che si istruiranno alla maniera di sempre – probabilmente persino in aule quadrate o rettangolari, persino con una dotazione di libri di carta, quaderni, penne e matite; dall’altra le masse subalterne, piazzate davanti ai teleschermi a galleggiare nel nulla, a premere pulsantini ed emettere suoni disarticolati, come tante scimmie ammaestrate, preda di automatismi indotti, sottratte allo studio, e alla fatica che lo studio comporta, al contatto fisico con le cose e con i propri simili. Destinate alla atrofia cerebrale. In un mondo che non c’è, ma in cui dovranno evaporare, fluttuare, intripparsi e rimbambirsi, per volere delle istituzioni. 

 

Sguardi, suoni, movimento, tutta quella fisicità e sensorialità che è parte integrante del processo di apprendimento, e che lo nutre, lo sostanzia e lo vivifica, devono sparire.

 

Deve sparire il «corpo a corpo» della lezione, deve sparire la palestra di vita che ogni classe rappresenta, e ha rappresentato per ognuno di noi con il suo caleidoscopio di personalità e di esperienze.

 

Deve sparire la penna, così come la carta, il libro e tutte le operazioni, a partire dalla calligrafia che, si sa, non si esauriscono nell’esercizio della manualità fine (che è già parecchio), ma sono collegate allo sviluppo della memoria e di una serie infinita di attitudini superiori. E che proietta all’esterno un’impronta unica, espressione irripetibile della personalità individuale. Ma nel mondo della tecnologia sono contemplate solo copie conformi. 

 

Soprattutto, deve sparire l’umanità, fatta di carne e spirito, di pensiero e di creatività.

 

Attenzione, perché gli adulti sedotti dall’avanguardia digitale non sono in grado di comprenderne appieno il grado di distruttività, perché nella loro esistenza hanno beneficiato del confronto con la realtà vera, nel suo bene e nel suo male. In qualche modo, nella loro magari inconsapevole memoria immunitaria, possiedono ancora gli ultimi strumenti per padroneggiare i meccanismi della macchina. Ma non è così per quei figli che, connessi senza soluzione di continuità, sovrappongono il virtuale al reale spostando fuori di sé, in una protesi tecnologica, una quantità di funzioni essenziali il cui esercizio è destinato all’atrofia.

 

Epperò in questo scenario folle va registrato un fatto, che è passato, non per nulla, piuttosto in sordina. Il 20 dicembre scorso è stata protocollata una circolare del Ministero dell’istruzione e del merito intitolata: “Indicazioni sull’uso dei telefoni cellulari e analoghi dispositivi elettronici in classe”, volta a contrastare, di questi strumenti, gli utilizzi impropri.

 

Il testo della circolare – che rinvia a quello di una circolare del 2007 dell’allora ministro Fioroni – non ne è la parte più significativa. Ciò che davvero colora l’intervento del ministro Valditara è il documento allegato alla circolare, che va in totale rotta di collisione con il piano scuola 4.0, tanto che forse ha creato nell’ambiente un certo imbarazzo. Pare infatti che il pacchetto (circolare più allegato) non sia stato molto divulgato tra gli interessati (studenti, docenti, genitori) che per lo più non ne hanno nemmeno avuto notizia. 

 

Questo allegato è la Relazione finale della indagine conoscitiva condotta dalla Settima Commissione Permanente del Senato della precedente legislatura, intitolata «Sull’impatto del digitale sugli studenti, con particolare riferimento ai processi di apprendimento», esposta dall’allora senatore Andrea Cangini nella seduta del 9 giugno 2021 (i lavori della commissione erano iniziati nel 2019, prima della pandemia). 

 

La relazione, approvata in commissione con l’unanimità dei voti, è stata redatta sulla scorta, oltre che di una copiosa letteratura scientifica internazionale (questa volta citata in bibliografia), anche delle numerose audizioni di psichiatri, neurologi, psicologi, pedagogisti, grafologi, esponenti delle forze dell’ordine; enumera i gravissimi danni fisici e psicologici che discendono dall’uso/abuso della strumentazione digitale (smartphone, videogiochi, tablet) da parte degli studenti, ma soprattutto afferma come tale uso/abuso comporti la «progressiva perdita delle facoltà mentali essenziali», ovvero delle «facoltà che per millenni hanno rappresentato quella che sommariamente chiamiamo intelligenza». 

 

Per avere una visione prodromica del disastro annunciato, nella relazione si suggerisce di guardare agli effetti che la sbornia digitale ha prodotto sulle giovani generazioni in Cina, Giappone, Corea, modelli avanzatissimi quanto alla diffusione della tecnologia e perciò anticipatori delle sue ricadute, dove da anni proliferano i centri di disintossicazione.

 

«In Cina i giovani “malati” sono 24 milioni», si legge. «Quindici anni fa è sorto il primo centro di riabilitazione, concepito con logica cinese: inquadramento militare, tute spersonalizzanti, lavori forzati, elettroshock, uso generoso di psicofarmaci. Un campo di concentramento. Da allora, di luoghi del genere ne sono sorti circa 400. Analoga situazione in Giappone, dove per i casi più estremi è stato coniato un nome: “hikikomori“. Significa “stare in disparte”».

 

Gli hikikomori «vegetano chiusi nelle loro camerette, perennemente connessi con qualcosa che non esiste nella realtà». «In Giappone sono circa un milione. Un milione di zombie».

 

I dispositivi – diventati una sorta di «appendice del corpo» portatrice di algoritmi programmati per adescare e trattenere il più a lungo possibile i possessori – generano dipendenza e riducono la neuroplasticità del cervello – continua la relazione. Il cervello infatti agisce come un muscolo, si sviluppa in base all’uso che se ne fa e, se una determinata facoltà non è esercitata, si atrofizza. «Niente di diverso dalla cocaina – si legge – stesse, identiche, implicazioni chimiche, neurologiche, biologiche e psicologiche».

 

In conclusione, «dal ciclo delle audizioni svolte e delle documentazioni acquisite non sono emerse evidenze scientifiche sull’efficacia del digitale applicato all’insegnamento. Anzi, tutte le ricerche scientifiche internazionali citate dimostrano, numeri alla mano, il contrario». 

 

Dunque, «rassegnarsi a quanto sta accadendo sarebbe colpevole. Fingere di non conoscere i danni che l’abuso di tecnologia digitale sta producendo sugli studenti e in generale sui più giovani sarebbe ipocrita. Come genitori e ancor più come legislatori avvertiamo il dovere di segnalare il problema, sollecitando Parlamento e Governo a individuare i possibili correttivi». Per non rendere i nostri figli drogati e decerebrati. Sic.

 

In sostanza quindi, lo stesso ministero che spinge a tutta velocità sul Piano scuola 4.0 e con esso impone alle scuole la didattica digitale sulla base di un generico richiamo a una presunta ricerca scientifica, le mette in guardia dagli effetti della didattica digitale diffondendo un vigoroso allarme basato su ampia e documentata ricerca scientifica (letteratura internazionale ed esperti audìti). Avverte che, andando avanti così, cresceremo un esercito di zombie.

 

Ora, la contraddizione è plateale e piuttosto stupefacente. Ma perché il ministro Valditara si è sentito in dovere di riesumare dalla naftalina un documento che sarebbe altrimenti con ogni probabilità caduto nell’oblio? Forse per porre tutti – politici, burocrati, insegnanti, genitori – di fronte alla propria immane responsabilità di questo momento storico? Per mettersi semplicemente in pace la coscienza? Non si sa.

 

Si sa però che intanto, i formidabili appetiti che muovono il PNRR evidentemente temono che lo stridio di questa contraddizione induca qualche ripensamento; ecco perché l’entusiasmo rumoroso delle prime battute del Piano scuola 4.0 (entusiasmo indotto dalla fascinazione del denaro) è stato presto deposto, e la patata bollente affidata alla felpata iniziativa dei dirigenti scolastici, sorretta dalla placida passività di docenti e dalla totale ignoranza dei genitori. Che, come le stelle, stanno a guardare.

 

Oltre a quanto è riportato nella relazione, si possono aggiungere, a margine, le rilevazioni ufficiali dell’OCSE PISA nei circa 80 paesi dell’area OCSE, dove dal 2010 (il 5 maggio 2010 il Parlamento Europeo approva la Nuova Agenda Europea del Digitale, in accordo con le prospettive della Quarta Rivoluzione Industriale di Schwab, per favorire la transizione verso un «mercato unico digitale») è stato avviato un processo di digitalizzazione sorretto da una martellante propaganda: salta fuori che le prestazioni scolastiche medie in lettura e comprensione dello scritto e in scienze e matematica registrano una significativa regressione.

 

I grafici e le tabelle parlano chiaro. I danni maggiori si ravvisano proprio nei paesi più industrializzati e iperdigitalizzati. (Giorgio Matteucci, Il libro nero della scuola, Arianna editrice, 2022: documenta la mappa che sta dietro a tutto questo).

 

È un caso? È la stessa OCSE a rispondere, in un report del 2015, dove dice: «Le risorse investite nelle tic (tecnologie dell’informazione e della comunicazione) per l’istruzione non sono legate al miglioramento dei risultati degli studenti in lettura, matematica, scienze…nei paesi in cui è meno comune per gli studenti utilizzare internet a scuola per i compiti, le prestazioni in lettura sono migliorate più rapidamente rispetto ai paesi in cui tale uso è in media più comune…i livelli di utilizzo del computer al di sopra della attuale media OCSE sono associati a risultati significativamente inferiori». E ancora: «In media, negli ultimi 10 anni, i paesi che hanno fatto investimenti significativi nelle tic per l’istruzione non hanno visto alcun miglioramento notevole nelle prestazioni dei loro studenti in lettura, in matematica e scienze».

 

Ce lo dicono loro. Gli studi sono univoci e comunque è tutto talmente autoevidente – basterebbe chiedere conto a un qualsiasi genitore sensato – che la mancanza di ogni remora, di ogni richiamo alla prudenza, e di ogni tentativo di frenare il treno in corsa, risulta particolarmente inquietante. 

 

Questo vale per gli scolari. Ma non si può prescindere dal guardare anche ai docenti, la cui sorte è per ovvie ragioni interdipendente da quella degli scolari. Perché è dalla loro libertà (o subalternità a logiche aliene) che dipende la formazione dei primi. 

 

La buona riuscita del Piano implica l’addestramento dei docenti, chiamati ad assistere gli alunni in questa fase di transizione, a fare da traghettatori verso il metaverso, da Caronti, insomma.

 

A questo fine il Piano prevede la costituzione di quella che definisce leadership educativaun gruppo di insegnanti, selezionati in base al criterio della fedeltà allo spirito del Piano e alle parole d’ordine che lo sorreggono, in ragione di ciò, assumono una posizione gerarchicamente sovraordinata rispetto ai colleghi. Se si vuole fare carriera, si deve intraprendere un nuovo cursus honorum che nulla ha a che fare con il bagaglio culturale e professionale specifico, il quale passa in secondo piano, anzi diventa proprio irrilevante.

 

In base alle proprie «competenze digitali», infatti, i docenti sono suddivisi in sei livelli (che riproducono i livelli delle certificazioni linguistiche): A1 Novizio, A2 Esploratore, B1 Sperimentatore, B2 Esperto, C1 Leader, C2 Pioniere. Non è uno scherzo. 

 

Si va dunque dal Novizio (A1), che è l’esemplare consapevole, ma con limitate conoscenze, ancora bisognoso di “incoraggiamento e accompagnamento”; fino al Pioniere (C2), vero leader, «mosso» dal continuo «impulso di innovare». 

 

Poi ci sono le «community di docenti creatori di contenuti digitali», che sono belle anche loro.

 

In sostanza, quindi, si vanno strutturando nuove gerarchie interne al corpo docente funzionali ad assicurare la prona esecuzione dei diktat tecnocratici. 

 

Nell’estate del 2022 suscitò una polemica l’improvvida e sinistra uscita dell’ex Ministro Bianchi al convegno organizzato dall’Aspen Institute a Venezia: «in 4/5 anni dobbiamo riaddestrare 650.000 insegnanti per andare incontro ad un insegnamento adeguato al futuro digitale e all’interconnessione globale che si è ormai prospettata».

 

Dal riaddestramento ora si è ripiegati verso un più dolce «accompagnamento» dei docenti – che è un po’ come avere un amministratore di sostegno. Resta comunque immutato l’intento, chiarissimo, di insegnare ai docenti come esercitare il proprio mestiere, e di sottoporli a un controllo stringente. Occorre per loro una formazione obbligatoria e continua, in quanto «è necessario che la progettazione didattica, disciplinare e interdisciplinare, adotti il cambiamento progressivo del processo di insegnamento».

 

Carosotti-Latempa scrivono: «Ciò che è anomalo – ma nient’affatto accidentale – è l’invadenza nel campo strettamente didattico, finalizzata a condizionare le modalità d’insegnamento dei docenti secondo strategie uniformi e imposte dall’alto».

 

Nel Piano, a pag. 27, si legge: «È necessario che la progettazione didattica, disciplinare e interdisciplinare, adotti il cambiamento progressivo del processo di insegnamento e declini la pluralità delle pedagogie innovative (apprendimento ibrido, pensiero computazionale, apprendimento esperienziale, insegnamento delle multiliteracies e debate, gamification, etc.) lungo tutto il percorso scolastico…trasformando la classe in un ecosistema di interazione…». «Allo stesso tempo gli ambienti innovativi e le tecnologie possono rappresentare una importante occasione di cambiamento dei metodi e delle tecniche di valutazione degli apprendimenti…grazie al contributo offerto dalle tecnologie digitali…». 

 

La condizionalità del finanziamento del PNRR è configurata in modo da incidere sulle metodologie e progettualità della didattica, e perciò direttamente sui contenuti dell’insegnamento e sui criteri di valutazione. Investe quindi frontalmente la libertà di insegnamento, che è valore costituzionalmente tutelato. Si badi bene: la libertà di insegnamento è sì una prerogativa che appartiene a chi insegna, ma la cui ricaduta va a beneficio di chi dell’insegnamento è destinatario, e in conseguenza dell’intera comunità. Si tratta di un principio cardine della democrazia. Che qui viene calpestato.

 

Il ruolo prezioso e delicatissimo del docente ne esce umiliato. Il docente si deve trasformare in “facilitatore digitale” e mero esecutore di ordini superiori, secondo un modello sostanzialmente autoritario. 

 

A tale scopo non manca nemmeno l’invito rivolto ai Dirigenti a incitare il corpo docente ad adeguarsi ai nuovi paradigmi. 

 

«Fondamentale è il ruolo dei dirigenti scolastici nell’introdurre il cambiamento nell’ambiente esistente per consentire ai docenti di organizzare il loro insegnamento in modo diverso, prototipare e sperimentare nuove disposizioni spaziali della classe e nuove metodologie didattiche, guidando il processo di trasformazione e attivando risorse interne di supporto e di accompagnamento».

 

Per avere ulteriore conferma del degrado, è istruttivo farsi un giro nel portale di Scuola Futura, dove sono pubblicizzati corsi accreditati dal Ministero per dare supporto a Dirigenti Scolastici, Animatori digitali, Team dell’innovazione, nella elaborazione dei progetti, «step by step» (dicono nel loro bell’italiano). Ci si imbatte in annunci tipo: «occasione irripetibile», SCONTO 20% per iscrizioni entro un dato termine. Le lezioni sono tenute da docenti con profilo tipo il seguente: formatore professionale, Animatore Digitale, membro dell’ecosistema STEAM della sua città, mentor CoderDojo, Ambassador Kid Game Jam, Leading Teacher European Code Week, e altre qualifiche di incontestabile rilievo. Nei prossimi giorni partirà un nuovo grappolo di webinar e – si segnala – è prevista una scontistica che arriva addirittura fino al 40% per chi porta molti amici.

 

Ma resta ancora un ultimo aspetto da considerare su cui nessuno pare sollevare obiezioni: la marginalizzazione degli organi collegiali. Infatti nella procedura per l’aggiudicazione dei fondi del PNRR il protagonista è il dirigente, coadiuvato dall’animatore digitale e da un «gruppo di progetto» formato dai docenti più zelanti nel sostenere la svolta cibernetica – che alla fine li toglierà di mezzo perché la scuola non avrà più bisogno di loro, li sostituirà con gli algoritmi, ma a loro va bene così. 

 

Il collegio docenti e il consiglio di istituto sono interpellati solo in una fase successiva, di attuazione dei progetti in sede di rendicontazione, di fatto per una mera ratifica di scelte già fatte. Il decreto sulla governance del PNRR (77/2021), al Titolo II, art. 12, prevede, in caso di inadempienza, inerzia o ritardo, da parte dei soggetti attuatori, agli obblighi e impegni finalizzati alla attuazione del PNRR, l’esercizio di poteri sostitutivi. 

 

Il Piano è chiaro sul punto, si esprime in forma assertiva: «Ciascuna istituzione scolastica adotta il documento Strategia Scuola 4.0., che declina il programma e i processi che la scuola seguirà per tutto il periodo di attuazione del PNRR con la trasformazione degli spazi fisici e virtuali di apprendimento, le dotazioni digitali, le innovazioni della didattica, i traguardi di competenza in coerenza con il quadro di riferimento Dig.Comp 2.2.(quadro europeo per lo sviluppo delle competenze digitali per i cittadini), l’aggiornamento del curricolo e del piano dell’offerta formativa, gli obiettivi e le azioni di educazione civica digitale, la definizione dei ruoli guida interni alla scuola, le misure di accompagnamento dei docenti e la formazione del personale, sulla base di un format comune reso disponibile dall’Unità di missione del PNRR». 

 

In pratica è richiesto un consenso informato per una somministrazione di fatto obbligatoria. Il che ricorda qualcosa.

 

Gli organi collegiali, dunque, intervengono in articulo mortis, quando i giochi sono fatti. Dove non si può non notare come tutta la strombazzatissima conquista democratica dei decreti delegati sia stata travolta in un attimo da un PNRR qualsiasi, entrato dalla finestra.

 

Il quale, con incontestabile un colpo di genio, cos’ha fatto? Ha cronologicamente anteposto l’assegnazione dei fondi (riversandone una montagna sulle scuole) al resto della procedura, e così le ha costrette a una frenetica rincorsa per trattenere quei soldi, facendo un’abbuffata di articoli del catalogo e resettando tutta la propria fisionomia in funzione degli acquisti fatti. In pratica, consegnandoti tanto denaro, io ti metto le catene prima ancora di dirti cosa devi fare, così ti rendo schiavo a prescindere, e tu, pur di tenerti quel denaro che hai già tra le mani, esegui qualsiasi cosa io ti ordini di fare in cambio. Ti ho in pugno.

 

Una tattica rivelatasi efficacissima, perché tutti hanno il terrore di farsi sfuggire il malloppo, con lo stigma che ciò comporterebbe nella sfolgorante società del progresso – dove chi eserciti il principio di precauzione rispetto agli idoli digitali diventa ipso facto retrogrado, tecnofobo, luddista. 

 

Di fronte a tanta leggerezza e (vorrei dire) irresponsabilità di quanti (siano essi dirigenti, animatori digitali, leader e pionieri) stanno affannandosi per accaparrarsi quanti più giocattoli possibile nel supermercato dell’intrattenimento – e pazienza per le ricadute – abdicando alla propria stessa dignità, vien quasi da dire: sia fatta la volontà dell’Europa e di BigTech. Stappiamo all’avvento dell’eduverso, ce lo meritiamo.

 

Ma purtroppo la posta in gioco è troppo alta per lasciarsi comprare con i trenta denari del PNRR, fossero anche trecento o trentamila, perché dentro le scuole si coltiva il nostro domani e nell’orgia digitale saranno travolti contenitori e contenuti, persone e cose, storie e identità. 

 

Concludo. In quelle trentanove pagine è descritta con tratto allucinato la scena dell’assassinio incruento della scuola italiana, o di ciò che di essa rimane. Un delitto di cui saremo tutti complici se staremo zitti. E sarà una strage, perché lo scempio cui stiamo già in parte assistendo – ma è solo l’inizio – non lascerà molti sopravvissuti.

 

Si sa che per annientare un popolo è necessario distruggere la sua storia e la sua memoria. È ciò che in fondo intendevano significare gli antichi quando spargevano il sale sulle rovine delle città conquistate e distrutte – il sale che Roma sparse sulle rovine di Cartagine. 

 

Masse alienate e stordite, rese amorfe e indistinguibili, sono strutturalmente incapaci di reagire alla propria demolizione programmata, in quanto incapaci di riconoscersi come antagoniste del programma di demolizione. 

 

Noi abbiamo tra le mani un patrimonio spirituale accumulato in migliaia di anni, materializzato nelle vestigia che il tempo ci ha lasciato, e che è l’antitesi degli ectoplasmi che fluttuano nelle sale gioco virtuali: è un patrimonio incastonato nelle pietre come nei libri, che si è fatto arte, filosofia, scienza e fede.

 

È una cultura sedimentata, evidentemente pericolosa qualora le venisse lasciata la possibilità di risorgere e di rigenerarsi, perché capace di ridare corpo e linfa alla pianta.

 

Ora, danzare oggi sul corpo agonizzante della scuola, paghi (o meglio ebbri) della mancia con cui l’Europa vorrebbe attirarci per infliggerci il colpo di grazia, è, oltre che grottesco, anche immorale. E l’argomento vigliacco secondo cui la tecnologia non la si può fermare, quindi tanto vale arrendersi, alzare le mani, è un alibi di comodo per illudersi di potersi scrollare di dosso il peso di una responsabilità incommensurabile. Quella che grava addosso a ciascuno di noi, nessuno escluso, di fare di tutto per mettere in salvo il seme. 

 

Attenzione. Non lo diciamo noi: lo dice il ministero dell’istruzione (o il suo alter ego), lo dice la commissione del senato istituita apposta, lo dice la letteratura internazionale, lo dicono i saggi.

 

Lo dice l’esperienza e l’evidenza con cui ogni genitore, ogni giorno, si scontra; lo dice il vecchio sano buon senso. E allora qualsiasi espressione di sudditanza al mostro che ci sta venendo addosso e minaccia i nostri figli persino dentro i luoghi dove dovrebbero imparare, e bonificarsi il cervello dall’iperconnessione in cui li hanno imprigionati – e non fa differenza se questa sudditanza dipende da interesse personale, da paura, da conformismo, da ignavia, o da semplice rassegnazione – in ogni caso è inescusabile

 

Rallentiamo la corsa, fermiamoci a informarci e a riflettere, aggiustiamo i freni, guardiamo in faccia i nostri figli. E facciamo sì – cari genitori, cari maestri – che la nostra stella polare sia il loro bene. Non il profitto di Big Tech, di Big Data, e di altri big che, filantropicamente si intende, ci stanno aspirando l’anima. 

 

 

Elisabetta Frezza

 

 

 

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Scuola

Scuola: puerocentrismo, tecnocentrismo verso la «società senza contatto». Intervento di Elisabetta Frezza al convegno di Asimmetrie.

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Renovatio 21 pubblica l’intervento di Elisabetta Frezza al convegno Euro Mercati Democrazia di Asimmetrie

 

Da questa stessa postazione parlavo di Scuola qualche anno fa, in particolare nel 2020 (quando il tema del convegno era «Il conformismo») e nel decennale del Goofy del 2021, allorché si dibatteva de «Lo stato delle cose».

 

Aggiungerei oggi qualche nota a margine (ci sarebbe davvero tanto tanto da dire!), e credo che questa postilla si possa a buon diritto intitolare: Quod Erat Demonstrandum. Perché?

 

Perché i pezzi che sono saltati fuori dalla pregressa disamina – cioè vivisezionando il pachiderma pedoburocratico così come uscito, geneticamente modificato, da trent’anni e più di riforme affastellate l’una sull’altra (ogni ministro ha aggiunto il proprio ingrediente alla mappazza cucinata dai predecessori) – si sono rivelati ex post delle formidabili «ventose» sulle quali far aderire la coltre digitale. Concepita per essere impermeabile: per soffocare definitivamente conoscenza, cultura e umanità. E per tarpare tutte le ali di chi, appunto, dovrebbe imparare a volare. 

 

Il riformatore seriale (il singolare è voluto, perché, a prescindere dal colore politico dei governi che le hanno varate, tutte le riforme hanno corrisposto a un’unica mens), ci ha fatto familiarizzare con un mucchio di trovate in apparenza neutre, innocue – anzi, in apparenza pure buone, semplicemente perché nuove – tipo (cito alla rinfusa): orientamento (in entrata, in uscita, in tutte le salse), cittadinanza digitale, nuova educazione civica, registro elettronico, curriculum dello studente, e-portfolio; INVALSI e la galassia di sigle infestanti tra cui CLIL; PCTO; STEM; e poi BES, DSA, DAA; PDP, PEI, PFI; UDA. Una fonetica grottesca che chi vive la scuola è costretto a lallare ogni giorno. 

 

Questo armamentario lussureggiante risponde a una metafisica distillata in un repertorio di dogmi «gentili» che suonano bene e infatti piacciono tanto – cosa che peraltro li rende difficilmente contestabili. Degli assoluti che stanno lassù, nell’iperuranio scolastico, e sono: «inclusione», «benessere dello studente», «personalizzazione didattica», «successo formativo». Riposano tutti su un’idea di fondo suggestiva e attraente, ovvero che la scuola vada ritagliata, come un abito su misura, addosso a ogni singolo alunno, il quale è sovrano e protagonista della propria formazione.

 

Tutto deve ruotare intorno a lui, sul presupposto che egli sia capace da solo di dare forma a se stesso assecondando le proprie pulsioni e i propri ritmi, e abbia bisogno soltanto di un ambiente attrezzato, possibilmente ludico, e di un badante-animatore al suo fianco posto al servizio del suo «stare bene»: l’insegnante viene così derubricato a satellite dello scolaro, a facilitatore, e il suo ruolo centrale, fondamentalissimo, di promotore del sapere, è marginalizzato, ridotto alla dimensione protocollare e burocratizzato. Pronto, a quel punto, per la sostituzione con l’assistente virtuale

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Si chiama «puerocentrismo» ed è il cuore di quella cosiddetta «pedagogia progressiva» – detta anche «didattica attiva» – che ha il suo nucleo teorico originario in J. J. Rousseau e nel suo Emilio (1762) e che poi, a partire dal secolo successivo, ha tratto nuova linfa facendo il giro largo per gli USA dove (con Dewey, Kilpatrick, etc.) si è guarnita di vari orpelli ma, soprattutto, è stata applicata in corpore vili su larga scala nel sistema scolastico preuniversitario (1) 

 

Benché oltreoceano abbia provocato un innegabile – e infatti non negato (2) – disastro sul piano cognitivo e culturale, il pacchetto completo è stato infine entusiasticamente reimportato nelle colonie in groppa, oltre che alla metafisica di cui sopra, a tutt’un prontuario di stilemi angloaziendali che ne rappresenta il marchio di fabbrica e che ha attecchito in Italia fin dentro il lessico delle leggi e della burocrazia, sulla spinta da un lato della fascinazione per il nuovo (di nome ma non di fatto, visto che è roba vecchia di secoli e rimasticata), dall’altro della estero(anglo)-filia radicata al punto da indurci a masochisticamente cibarci dei rifiuti altrui, facendo finta che siano prelibatezze.

 

Il regime concorrenziale scatenato dalla «autonomia scolastica» (legge Bassanini 59/1997) ha fatto da volano allo strumentario d’importazione e lo ha amplificato fino al parossismo nella frenetica rincorsa dei singoli istituti ai finanziamenti, alle iscrizioni, al procacciamento di clientela mediante le attrazioni esibite nei PTOF. 

 

Il modello pedagogico puerocentrico ha programmaticamente smantellato la didattica trasmissiva classica fondata – come dice il nome – sulla trasmissione delle conoscenze nelle diverse discipline di studio, ciascuna delle quali possiede un proprio statuto epistemologico. 

 

Enfatizza il metodo a scapito dei contenuti, per cui la conoscenza accumulata, la cultura ereditata, tutto ciò che ci parla dal passato, è visto come una zavorra da cui emanciparsi; quanto richieda un minimo di esercizio intellettuale (e anche fisico: come tipicamente la scrittura a mano) e di sforzo attentivo/mnemonico/raziocinante è ascritto alla fattispecie della tortura e bandito, perché domina la fede che il puer vada intrattenuto, divertito, gratificato. 

 

Come dicevamo, inoltre, si ipostatizza l’ambiente: si capisce allora come oggi questo ambiente, proprio per stare al passo con i tempi, debba essere integralmente ristrutturato in modalità digitale. Ed ecco spuntare l’ambiente on life (con un simpatico calco orwelliano della locuzione on line, che assume ufficialmente la preminenza sulla dimensione della realtà), detto anche «eduverso» o, ammiccando alla retorica green, «ecosistema di apprendimento».

 

La metamorfosi tecnoambientale cui stiamo assistendo non è altro, quindi, che il precipitato di quella pedagogia – di quella «religione» – predicata e liturgicamente celebrata da una casta di bramini – gli «esperti», i conoscitori delle leggi interiori ai quali tutti debbono inchinarsi – che ha fornito il supporto teorico, si può dire «mistico», al sovvertimento del senso stesso della scuola: non per nulla lo spostamento del baricentro dal docente al discente – dalle discipline all’ambiente, dalla cultura alla natura, dalle lezioni cosiddette frontali ai laboratori interattivi – è presentato come «rivoluzione copernicana» e vidimato col timbro della scientificità.

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Un timbro farlocco, ma pur sempre munito di una potente carica intimidatoria, tant’è che la più parte dei docenti ha sviluppato verso questa pseudo-scienza e verso i suoi sacerdoti un malcelato complesso di inferiorità, e accetta supinamente, in una postura di sudditanza quando non in modalità suicidaria, dei veri e propri rituali di auto-umiliazione. 

 

Basti vedere come è strutturata oggi la formazione dei docenti e i corsi mortificanti che sono loro inflitti. Basti vedere come è concepito il loro stesso sistema di reclutamento: oggi non si seleziona più in base alla preparazione nelle rispettive materie di pertinenza, la selezione è completamente svincolata dalle discipline.

 

Come scrive Enrico Rebuffat, «nei concorsi pubblici per la scuola, la prova scritta è sempre stata disciplinare: concorrevi per matematica, il tuo scritto concerneva la matematica; partecipavi per filosofia, il tuo scritto era una prova di filosofia. Pareva logico, pareva naturale. Oggi, con i concorsi “PNRR” 2023 e 2024, non più. La prova scritta, adesso, non è disciplinare nel preciso senso che non ha nulla a che fare con la disciplina per cui il candidato concorre». Essa consiste in un quiz di 50 domande a risposta multipla, estratte da un database unico per tutte le classi di concorso, da sostenere al computer e così strutturato: 10 quesiti di ambito pedagogico; 15 quesiti di ambito psicopedagogico; 15 quesiti di ambito metodologico-didattico; 5 quesiti sulla conoscenza della lingua inglese al livello B2; 5 quesiti sulle competenze digitali» (3). 

 

Ne discende che può benissimo spuntarla l’ignorante chi si è ricordato, o ha azzeccato a caso, il nome di un software, o il cognome di un pedagogista, o il numero di una circolare sull’inclusione, e rimanere al palo il candidato preparatissimo nella sua materia che ha piazzato la croce nella casella sbagliata. «Il che – conclude Rebuffat – sarà forse moderno e innovativo, ma di sicuro è semplicemente assurdo». 

 

Assurdo sì, ma per nulla casuale: questa procedura stravagante non può che garantire, come effetto solo apparentemente collaterale, il tracollo di qualità di un corpo insegnante già in buona parte squalificatosi da sé o perché incapace, o perché rassegnato e obbediente a un sistema in cui tutto deve essere intermediato, proceduralizzato, de-teorizzato e despiritualizzato, svuotato dell’essenza: il grosso del lavoro è già stato fatto e proprio per questo ora bisogna eliminare capillarmente e con ogni mezzo, se necessario anche attraverso la repressione, qualsiasi residua velleità di insegnare davvero e di instaurare con gli allievi un rapporto fecondo finalizzato alla tradizione della conoscenza. 

 

Del resto, era l’estate del 2022 quando l’allora ministro Bianchi, al convegno organizzato dall’Aspen Institute a Venezia, usò un verbo eloquente che sollevò pure qualche polemica: «in 4/5 anni dobbiamo riaddestrare 650.000 insegnanti per andare incontro a un insegnamento adeguato al futuro digitale».

 

Dunque, attraverso tante vie convergenti, tutte sempre lastricate di belle parole, la scuola ha potuto trasformarsi nel luogo elettivo di propagazione dell’ignoranza e, insieme, in un succulento terreno di conquista per piazzisti, imbonitori e predatori di ogni risma. Perché, se la si svuota della sostanza culturale durevole, solida, cementata nel tempo – a partire dal primo elemento costitutivo, «atomico», di questa sostanza, ovvero il linguaggio (che è simbolo: anche la matematica è un linguaggio) – allora lo spazio che si crea può essere riempito con ciarpame assortito: progetti, attività, effetti speciali; millemila «educazioni» (sessuale, affettiva, alimentare, sanitaria, stradale…). 

 

Ma cosa sono queste educazioni? Sono variopinte catechesi su contenuti pre-pensati e prescrittivi (vedi Agenda 2030) con la funzione di introiettare, nel vuoto pneumatico, pseudo-valori moraleggianti, schemi comportamentali conformi, automatismi mentali senza pensiero trasportati da slogan che riproducono i codici linguistici e i suoni ritmati della grancassa mediatica. 

 

In modo che il rumore sia sempre lo stesso dappertutto, fuori e dentro la scuola. Scrive Giovanni Carosotti: «Un tempo la scuola faceva argine agli atteggiamenti anti-culturali, impediva ad essi e al linguaggio in cui si manifestavano di essere legittimati nella sfera “alta” del sapere. Oggi, invece, paradossalmente, è chiesto agli stessi docenti di adeguarsi a quelle forme espressive» (4).

 

Il colpo da maestro è che a rottamare la conoscenza sono chiamati proprio coloro che, per mandato professionale se non proprio per vocazione, dovrebbero insegnarla – e il dramma è che i più questo compito se lo intestano felici.

 

Ma, oltre all’imbarbarimento ubiquo, oltre all’istituzionalizzazione dell’abbruttimento, questa sostituzione di contenuti (un aliud pro alio) provoca un’altra conseguenza di non poco conto: che chi, eventualmente, canti fuori da quello spartito unico – magari perché pensa – può essere ufficialmente ritenuto un deviato. La scuola presentata al pubblico come regno dell’«inclusione», in realtà è esclusiva nel senso deteriore del termine. Perché quando l’alfabetizzazione, l’istruzione, il contegno teoretico sono messi da parte, quando i saperi si dissolvono lasciando il posto a frammenti comportamentali che ossessivamente rincorrono la propaganda, allora si genera un inquietante fenomeno di clonazione cerebrale collettiva e si imbocca una preoccupante deriva autoritaria. 

 

Gli effetti concreti della diffusione nelle scuole italiane di questa ricetta esotica sono notevoli.

 

Sempre più scolari approdano alle superiori senza saper impugnare una penna, senza saper scrivere in corsivo, senza essere in grado di articolare una frase minima grammaticalmente corretta e munita di senso compiuto; di comprendere il significato di parole eccedenti un corredo sempre più misero, e sempre più squallido. Non sanno afferrare periodi complessi; usare modi verbali diversi dall’indicativo e tempi diversi da presente o passato prossimo; distinguere un soggetto da un predicato, un aggettivo da un pronome; virgole e punti sparsi a sentimento, i due punti e i punti e virgola caduti in desuetudine. 

 

Non sanno dare una struttura ai propri discorsi, e prima ancora ai propri i pensieri. Sono di fatto condannati al mutismo e alla sordità, con tutta la frustrazione che questo comporta, perché la comunicazione con i propri simili resta anchilosata nella brachilogia e nella iconografia dei social.

 

L’italiano letterario è diventato una lingua straniera, la geografia e la storia sono ufficialmente abolite, la matematica non va oltre i test a crocette. Prova ne sia che solo una piccola percentuale di matricole all’università, in una prova propedeutica all’esame di analisi matematica, si è dimostrata in grado di risolvere problemi di aritmetica tratti dai libri di quarta elementare del secolo scorso. Prova ne sia che comporre un testo scritto organico e coerente, senza svarioni di ortografia o di sintassi e con una punteggiatura sensata, è sovente un’impresa ardua per un laureato in lettere o in giurisprudenza.

 

Non che certe carenze – sarebbe più appropriato definirle voragini – inibiscano il taglio di traguardi formalmente ambiziosi, no. Un diploma non si nega a nessuno, in nome di quel dogma, del «successo formativo», che per essere rispettato si è dovuto tramutare in diritto: il degrado della scuola intesa come luogo di formazione culturale e umana va a braccetto, in una dinamica solo in apparenza paradossale, con un tripudio di titoli appariscenti. Il diritto all’istruzione, oggi, ha il significato di diritto a un diploma (e il diploma è una patacca), non certo a un percorso di studi serio e qualificante. 

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E qui si annida un altro paradosso: mentre si cavalcano pretese esigenze di svecchiamento, di inclusività e di egualitarismo avverso una tradizione educativa etichettata come elitaria, discriminatoria, obsoleta, si oscura un’evidenza che tanto bene esprimeva Gramsci quando nei suoi Quaderni definiva il progressismo pedagogico un mezzo di conservazione dello status quo funzionale alla divisione della società in caste. Il perché è chiaro: esso rompe l’ascensore sociale che dovrebbe essere compito primario, essenziale, della scuola pubblica far funzionare. 

 

Elemento chiave di questa inarrestabile agonia della scuola è il mito della «personalizzazione», il cui potenziale distruttivo si disvela oggi pienamente – come vedremo – a contatto con la cosiddetta transizione digitale.

 

A proposito di personalizzazione, è opportuno aprire una breve parentesi sui bisogni educativi speciali (BES in acronimo), che stanno alla base dei piani didattici personalizzati. Quello dei BES è un universo molto frastagliato. A parte le disabilità vere e proprie, disciplinate dalla legge 104/92, lo spettro dei BES va dai DSA (dislessia, discalculia, disgrafia, disortografia), alle sindromi d’ansia, all’iperattività, al deficit di attenzione, agli svantaggi linguistici, sociali o economici, eccetera: fatto sta che tutte queste situazioni, tra loro molto eterogenee, sono suscettibili di essere certificate e, sulla base della certificazione, di dare luogo a percorsi scolastici personalizzati.

 

La legge 170/2010 con i DSA ha creato un concetto equivoco: dice che essi si manifestano «in presenza di capacità cognitive adeguate, in assenza di patologie neurologiche e di deficit sensoriali», epperò sono denominati «disturbi» e devono essere «diagnosticati» (o dal SSN o, eventualmente, da strutture o specialisti accreditati, a pagamento).

 

La diagnosi dà diritto a due ordini di misure: quelle cosiddette «dispensative», con cui si semplificano i programmi per alleggerire un carico giudicato nel caso specifico troppo gravoso; e quelle «compensative», che consistono nel fornire dei supporti per compensare le prestazioni carenti (per lo più supporti tecnologici: ad esempio calcolatrice per i discalculici, tablet per i disgrafici, smartpen per i dislessici, e poi app per sintesi vocali, software per costruire mappe concettuali, schemi, formulari). 

 

Ciò che qui interessa rilevare è come il fenomeno delle certificazioni (e dei piani personalizzati che ne scaturiscono) sia andato via via gonfiandosi fino a esplodere, addirittura ribaltando il rapporto da regola a eccezione: sono sempre di più le classi in cui gli alunni certificati e muniti di un programma individuale sono diventati la maggioranza, alcune volte la totalità. Insomma, è nata una moda e, con essa, un floridissimo commercio di certificazioni ormai in buona parte standardizzate – perché una diagnosi non si nega a nessuno – che non di rado pasce piccoli despoti alle cui spalle stanno famiglie disposte a tutto pur di facilitarsi la vita assicurando al figlio un carico di lavoro alleggerito, interrogazioni pianificate, promozioni in scioltezza. 

 

È strano? No, non è strano. È conseguente al (dis)ordine delle cose.

 

Il dettato della legge 170, con la sua ambiguità, lascia ampio margine alla fantasia e quindi all’arbitrio. E l’arbitrio galoppa proprio perché si è incistata nella mente del genitore collettivo e del docente collettivo l’idea che, siccome la scuola va personalizzata addosso allo studente, è necessario e giusto metterlo sotto la lente di ingrandimento dell’esperto per scovare i suoi (presunti) limiti, che vanno fotografati in una certa fase (a caso) della sua crescita, e congelati, tipizzati, medicalizzati; sul presupposto (che è un presupposto apodittico: tra le righe lo ammette lo stesso ISS) che qualsiasi peculiarità (o «divergenza», come piace chiamarla) abbia una eziologia organica, una base genetica, e quindi un che di connaturato.

 

Ciò spesso porta sia a trascurare la ricerca di possibili altre cause o concause dello svantaggio, che magari è risolvibile altrimenti, sia a oscurare un fatto notorio: che il cervello è un organo plastico capace, attraverso stimoli appropriati, di modellarsi e ristrutturarsi, anche se anziano. Figuriamoci in giovane età. 

 

Epperò se un ostacolo, invece che qualcosa da superare mettendo in campo tutte le proprie migliori risorse, diventa per principio qualcosa da rimuovere onde evitare sforzi e frustrazioni, il rischio in agguato è che i punti deboli di quel soggetto in crescita si cristallizzino, si cronicizzino (ora per giunta restino fissati nella memoria indelebile delle banche dati) e le sue potenzialità, non adeguatamente stimolate, si deprimano; che resti inchiodato ai suoi (supposti) limiti, mentre magari si sta solo accarezzando la sua incostanza, pigrizia, malavoglia (del tutto fisiologiche a quell’età!). 

 

Non solo. Il trattamento su misura, o spacciato come tale, esaspera la frammentazione della classe – che invece è un micromondo integrato e dinamico, in cui nel tempo si prende e si dà, le velocità mutano e gli equilibri si riaggiustano – e così sgretola l’essenza stessa della scuola.

 

Provocatoriamente, Giorgio Israel aveva riformulato l’acronimo DSA in DSI, Disturbi Specifici di Insegnamento: se non si insegna più a tempo debito a scrivere, a leggere, a fare i conti, e non si raggiungono quelle abilità di base che, per svilupparsi, richiedono tecnica ed esercizio, parecchio e anche un po’ noioso (e c’è una precisa finestra temporale predisposta dalla natura per acquisirle), è abbastanza logico che si incrementino le fila dei disgrafici, disortografici, dislessici, discalculici. 

 

Come si accennava, la personalizzazione, con la svolta terapeutica che le è collegata, è il gancio perfetto per le nuove tecnologie. Esse, come si è visto, sono copiosamente impiegate come supporti compensativi. Ma non solo. A supervedere e gestire il percorso dello studente – quello ipo-normo-iper-dotato (o suppostamente tale) – sarà ora l’intelligenza artificiale. 

 

Ciò implica che tutta la messe di dati, metadati e anche psico-dati (perché, nel delirio tecnofideistico, si dà per assunto che pure i tratti caratteriali siano misurabili, matematizzabili, e quindi malleabili), tutto questo «bottino» venga dato in pasto alla megamacchina affinché essa segua algoritmicamente la biografia socio-cognitiva di ogni studente restituendogli il suo identikit digitale, e anche la sua proiezione futura: ogni fase del percorso, scolastico ed extrascolastico, viene scansionata e il file che ne esce alimenta un avatar destinato a seguirlo come un’ombra e a sostituire la sua identità: non sarai più tu ma il flusso di dati che produci a diventare rilevante, per esempio, in una domanda di accesso a un’università o di lavoro. 

 

L’operazione è venduta come una occasione per poter «cucire addosso» a ciascuno interventi mirati che prevengano insuccessi o esaltino eccellenze. Come sempre, il veleno viene incartato dentro la caramella, in modo che il genitore si convinca che la radiografia precoce e continuata del figlio serva a farlo crescere meglio, in modo, appunto, personalizzato. E consegna felice le chiavi della propria casa, della propria vita e della propria intimità.

 

Agitare dentro lo stesso barattolo i due mantra, della personalizzazione e della digitalizzazione, sta generando mostri che non siamo più capaci di domare e che si materializzano ovunque intorno a noi, specie da quando l’agenda digitale – che pure affonda le sue radici lontano – ha subìto un’accelerazione furibonda col Piano scuola 4.0 apparecchiato grazie al laboratorio della pandemia.

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È stata l’emergenza sanitaria a rendere possibile un effetto catapulta, realizzando in unica soluzione un salto nella distopia che altrimenti avrebbe richiesto tempi ben più dilatati e, forse, avrebbe conosciuto qualche salutare intoppo. Perché la fretta ha il potere di azzerare il tempo della riflessione e nel paradigma dell’emergenzialismo per definizione non c’è spazio per la democrazia e le sue procedure. 

 

Duccio Chiapello scrive: «Ci spacciano per destino un disegno di “transizione” della scuola, i cui veicoli ben conosciamo: il PNRR, la scuola 4.0 e tutti gli annessi e connessi digitali. Questi veicoli sono tutti presentati come “ultimi treni”: presto, salite a bordo, i fondi vanno spesi entro dicembre, i progetti vanno attivati entro marzo, gli esperti esterni devono intervenire entro maggio. Ci viene chiesto, in sostanza, di fare quello che normalmente non faremmo mai: saltare su un treno in partenza per il solo fatto che sta partendo, senza che la destinazione sia resa nota; dopodiché, nel corso del viaggio, ci viene continuamente intimato di gettare dal finestrino una parte sempre maggiore dei nostri bagagli – i contenuti disciplinari, le conoscenze, la cultura classica, il pensiero astratto – così da consentire al treno di procedere alla massima velocità» (5).

 

La pandemia è stata il movente di un esperimento psicosociale dalla durata indefinita – in quanto rimessa a decisioni sempre modificabili, e infatti di giorno in giorno modificatee quindi psicologicamente vissuta come permanente. Abbiamo assistito, a danno dei nostri figli, a un esercizio continuato di bullismo istituzionale che si è espresso in vessazioni variamente demenziali, ma ha avuto il suo cuore nell’isolamento sine die, pretesto per organizzare la transumanza di massa nella cosiddetta «società senza contatto».

 

Questo esperimento è stato devastante per i più giovani, sia sul piano psicofisico sia sul piano cognitivo. Ne sono usciti grandemente sofferenti, schiavi dei dispositivi informatici, arrugginiti e inselvaggiti, contenitori ambulanti di ordigni inesplosi: un corposo report dell’UNESCO (dell’UNESCO, non dei complottisti) pubblicato nel novembre 2023 (di 650 pagine) si intitola significativamente An ed tech tragedy

 

Ma lo si sapeva bene. Nel 2019, quindi ancora in era pre-COVID, la VII Commissione del Senato della Repubblica aveva congedato un documento – che lo stesso ministro Valditara allegò a una nota (prot. 107190) inviata a tutte le scuole italiane il 19 dicembre 2022 – dal titolo Sull’impatto del digitale negli studenti, con particolare riguardo ai processi di apprendimento, sintesi di letteratura ed esperienza consolidate. Dove si parlava dei danni fisici. Dei danni psicologici. Della perdita di facoltà mentali essenziali. Dove si affermava testualmente che il digitale sta decerebrando le nuove generazioni. Perché inibisce sul nascere, o atrofizza, funzionalità biologiche radicate, esternalizzandole in un prolungamento artificiale del corpo, che funziona come una vera e propria protesi, tanto che privarsene è come subire l’amputazione di un arto; del resto, gli algoritmi sono programmati per adescare l’utente, catturarlo e tenerlo avvinto in ostaggio il più a lungo possibile – a conferma del fatto che questi aggeggi non sono «strumenti» e bisognerebbe smetterla di chiamarli così: perché allo strumento è coessenziale la nota della neutralità.

 

Infatti, nella relazione della Commissione si legge anche che essi hanno «le stesse, identiche, implicazioni chimiche, neurologiche, biologiche e psicologiche della cocaina». Tant’è che nel mercato statunitense gira questa tavoletta inerte con le fattezze dell’iPad ma senza connessione, chiamata «metadone tecnologico». Non è uno scherzo. 

 

La scuola digitale in sfolgorante carriera non fa che fomentare questa dipendenza morbosa, la istituzionalizza, istigando i più giovani alla connessione perpetua e offrendo loro un alibi fisso per giustificarla. Che i dispositivi funzionino da idrovore di dati personali, da profilatori permanenti, da braccialetti elettronici per genitori elicottero e altri elicotteri non genitori, da spacciatori di spazzatura che fluttua sul web, pazienza: ciò che importa, evidentemente, è fare della scuola pubblica una sterminata mangiatoia per nutrire la più importante industria al mondo di estrazione di dati, EdTech: «se i dati sono il nuovo petrolio, la scuola è il nuovo Texas». 

 

Una pletora di aziende private (che fanno capo a una manciata di colossi militar-industriali) si è assicurata la disponibilità di una immensa distesa di materiale umano da scrutare, da dare in pasto alle banche dati, da assoggettare agli automatismi degli algoritmi. E, grazie alla capillare attività di spionaggio, esse schedano gli spiati e ora predicono anche il loro destino, e lo fanno in modo del tutto opaco, non controllabile, non riproducibile – ovviamente, a proprio uso e consumo. 

 

Si punta a influenzare il futuro dei soggetti in crescita affidandolo ai vaticini della Pizia sintetica ben sapendo – è noto dalla notte dei tempi – che le profezie tendono ad autoavverarsi (oggi lo chiamano anche «effetto pigmalione»): di fronte a un’etichetta appiccicata o a un oracolo sputato fuori dalla macchina che ha fatto il suo frullato di dati, uno si convince davvero di essere il tipo umano riportato sull’etichetta, o di dover diventare quell’altro stabilito dall’oracolo. 

 

I test standardizzati INVALSI, quelli che erano stati presentati al pubblico come strumento anonimo di monitoraggio del sistema scolastico, si sono palesati come un appuntito mezzo di sorveglianza e di schedatura individuale, fino ad assumere un valore «predittivo e diagnostico». Nell’ingranaggio INVALSI è stato introdotto, per esempio, l’indicatore di fragilità: un bollino che viene assegnato, algoritmicamente e insindacabilmente, agli allievi che nei test non raggiungono livelli ritenuti adeguati, col pretesto che ciò consentirebbe di prevedere precocemente il rischio di abbandono scolastico. E INVALSI ora indaga, sempre algoritmicamente, anche le cosiddette competenze non cognitive (le soft skills: tipo amicalità, coscienziosità, stabilità emotiva, apertura mentale) – gli psicodati, appunto – sempre al fine di poter intervenire tempestivamente a manipolarli. 

 

Ancora. A decorrere dall’anno scolastico 2023/2024, il curriculum del singolo studente è integrato nell’e-portfolio: una specie di scatola nera che ognuno, volente o nolente, si ritrova confezionata addosso, d’ufficio, e gli resta incollata ad vitam æternam. E che contiene le specifiche di tutta la sua carriera: carriera scolastica (voti, esiti di prove a crocette e altre prestazioni estemporanee, certificazioni varie, sentenze di orientamento pronunciate da uno che passa di là e che, siccome ha vinto alla lotteria il patentino di orientatore dopo alcune ore di corso on line, ha il potere di decidere della tua vita) e anche carriera extrascolastica.

 

Cioè, l’occhio del grande fratello non si accontenta di sorvegliarti a scuola, vuole sapere cosa fai anche nel tuo tempo libero che non è più libero, perché il fatto che entri anch’esso nel tuo curricolo digitale indelebile fatalmente condizionerà le tue scelte quotidiane sottraendole al motore umano della spontaneità e dell’intuito. Non solo: chi avrà i mezzi per farlo, acquisterà punti per il portfolio rimpinzandolo di viaggi, corsi, vacanze-studio, certificazioni linguistiche. A proposito di divisione in caste.

 

Intanto più giovani si assuefanno a subire una sorveglianza diacronica e ubiquitaria, al punto da assumere inconsapevoli automatismi comportamentali (una riflessione a parte la meriterebbe il monstrum del registro elettronico, presenza occhiuta e invadente che deresponsabilizza e falsa i rapporti tra l’alunno e la scuola, tra lui e la famiglia, tra la scuola e la famiglia). Si abituano a cedere passivamente i propri dati personali come corrispettivo di qualsiasi servizio. Hanno insomma interiorizzato una concezione carceraria dell’esistenza, nell’illusione – magistralmente alimentata con tanti specchietti per allodole – di essere sommamente liberi. Vivono dentro un panopticon ma non se ne rendono conto, realizzando appieno l’idea rousseauiana secondo la quale «non c’è assoggettamento più perfetto di quello che conserva le apparenze della libertà». 

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Dunque, per concludere. L’infrastruttura capillare (quella che appariva innocua) allestita lungo decenni di riforme mirate, serviva a due scopi concorrenti, e tra loro interdipendenti. Serviva: 1) a interrompere la catena di trasmissione del sapere togliendo di mezzo chi sappia e possa provvedere a mantenerla integra, e in tal modo a lasciar deteriorare, e morire, un tessuto culturale e spirituale più che due volte millenario, e 2) a fare incetta di informazioni di vita, di morte e di miracoli, su ciascun individuo, dall’asilo in poi, sulle sue prestazioni e le sue abitudini, i suoi profili caratteriali e le sue fragilità, in modo che tutto sia risucchiato e immortalato nel buco nero delle banche dati, a prescindere dalla volontà dei titolari. Quelli ai quali, peraltro, viene fatta una testa così sulla tutela della privacy.

 

Il puerocentrismo su cui emotivamente si fa perno, con straordinario successo di pubblico, si è rivelato la formula ideale per demolire ab imis il sistema della conoscenza; allo stesso tempo, a contatto con la tecnolatria, che è la superstizione del nostro tempo, si tramuta in un sinistro e fagocitante tecnocentrismo (6)

 

Già Mc Luhan, ne La luce e il mezzo ci diceva in tempi non sospetti, con stupefacente preveggenza, come l’uomo si stesse progressivamente autosostituendo con qualcosa di altro da sé. Oggi, il soggetto dell’apprendimento non è più l’uomo, è la macchina: il principio di utilità della tecnica si è ribaltato, in primis in scuola e università, in quello di utilità per la tecnica.

 

Le macchine aspirano tutto quello che trovano in giro, lo ruminano e lo risputano fuori, a caso, ottenendo in cambio dagli uomini cieca devozione. Gli uomini, dal canto loro, non più nutriti alle fonti della conoscenza, lasciati a rimbambire nelle sale giochi, crescono incolti e invertebrati. Privi delle risorse necessarie per padroneggiare le macchine, si autorelegano in una posizione di minorità, nella convinzione balorda, che è stata loro inculcata con metodo, che esse li surclassino per efficienza, oggettività di analisi, velocità di esecuzione. Fino a sottomettere se stessi e il proprio destino alle loro prestazioni e ai loro vaticini.

 

Ma se io uso l’algoritmo (cioè: consulto la Sibilla) per decretare se sarai un bravo studente e poi un lavoratore di successo, oppure un asino per sempre, e per segnare il tracciato in cui devi incanalarti nella vita, io ti impedisco di essere artefice del tuo futuro, ti tratto come una cosa. Consegno le tue sorti alla magia. 

 

Eppure, chiunque abbia avuto a che fare con un soggetto in crescita sa bene come cambi taglia d’improvviso, come basti un niente per accendere una scintilla, per suscitare una passione o provocare una svolta. Come ogni scivolone sia una medaglia al valore, e possa aprire la strada a conquiste preziose. Come il tempo lungo della maturazione non sia mai lineare, mai prevedibile né replicabile, e in questo risieda la sua infinita ricchezza. 

 

Sa bene come le vocazioni si disvelino a contatto con gli imprevisti della vita, intercettando eventi incrociatori che nessun orientatore per caso può immaginare e nessun algoritmo potrà mai calcolare.

 

Ed è folle – direi anche criminale – lasciare che una stupida macchina interferisca con questo flusso meraviglioso e gli imponga una traiettoria.

 

Ognuno ha diritto di fallire una batteria di test per scimmiette addestrate; ha diritto di cascare e di rimettersi in piedi; di costruire pian piano con pazienza la propria bussola interiore, alla faccia di orientatori che spuntano ovunque come funghi. Ha il diritto all’oblio dei propri errori, perché sono proprio quegli errori che servono a svegliarlo fuori e a farlo diventare grande. Ha diritto a che il mondo non scruti nelle pieghe del suo passato, che è rodaggio alla vita, perché il mestiere del giovane è proprio quello di imparare. Per questo, egli ha anche il sacrosanto diritto di potersi misurare con cose difficili, complesse, impegnative, perché la vera autostima si conquista così, superando sé stessi per raggiungere traguardi magari impensati. 

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Dappertutto si sente ripetere ad nuseam il ritornello che la tecnologia non si può fermare, è qui per rimanere, la sua cavalcata è inevitabile. E che, allora, occorre educare fin da bambini all’“uso consapevole”. Che – lo abbiamo visto – equivale a dire: drògati, ma fallo in modo consapevole. 

 

E però, oltre ad essere fallimentare per l’apprendimento, abbiamo anche visto che l’uso precoce della tecnologia produce danni enormi e permanenti, e questi danni noi li abbiamo drammaticamente sotto i nostri occhi. Se è così – ed è così – allora la filastrocca della inevitabilità equivale ad ammettere che abbiamo creato un mostro che ghermisce i nostri figli ma ormai vive di vita propria, o – detta altrimenti – che abbiamo aperto il vaso di Pandora, abbiamo perso il coperchio, ma amen, lasciamolo aperto e restiamo a guardare l’effetto che fa. Avvitàti come siamo in una spirale di irresponsabilità e di infantilismo transgenerazionale che ci sta inabissando, senza freni, dentro una nuova primitività e una inedita forma di schiavitù.

 

Il seme della libertà è custodito dentro il ben di dio di cose umane – di esperienza, memoria, pensiero e arte – sul quale siamo seduti. Non per nulla lo vogliono far seccare – sia mai che più di qualcuno si accorga dell’impostura in atto. Ma per portare in salvo quel ben di dio, il patrimonio culturale e spirituale edificato in migliaia di anni, occorre poterlo consegnare nelle mani di chi abbia gli strumenti per riceverlo, farlo proprio e tramandarlo a sua volta.

 

Ecco perché la scuola pubblica – che è uno spazio sacro, dove si impara e si cresce, e si impara a crescere – va salvata dalle assurdità e dalla bruttezza che la stanno travolgendo e va restituita ai suoi abitatori legittimi, bonificata dall’artificio, protetta dai predatori. Affinché possa recuperare il suo statuto, il suo senso e la sua dignità. 

Se questa sia una missione possibile o impossibile, non è facile dirlo, ma non è neppure dirimente saperlo: ci è toccata in sorte una responsabilità epocale di cui abbiamo semplicemente il dovere di farci carico, sia come singoli sia come collettività; sia nell’oikos, sia nella polis. Quella di salvare i saperi per salvare la scuola, o viceversa, perché l’espressione è palindroma. 

 

Elisabetta Frezza

 

NOTE

1) In Salvare i saperi per salvare la scuola, a cura di Elisabetta Frezza, Il Cerchio, 2025; intervento di Fausto Di Biase.

2) E.D. Hirsch jr, Le scuole di cui abbiamo bisogno e perché non le abbiamo, Petite Plaisance, 2024.

3) In Salvare i saperi per salvare la scuola, cit.

4) Ibid.; intervento di Giovanni Carosotti.

5) Ibid.; intervento di Duccio Chiapello.

6) Ibid.; intervento di Stefano Isola.

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Pensiero

Se la realtà esiste, fino ad un certo punto

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I genitori si accorgono improvvisamente che la biblioteca scolastica mette a disposizione degli alunni strani libri «a fumetti» dove si illustra amabilmente il bello della liaison omoerotica.   L’intento degli autori è inequivocabile, quello di presentare un modello antropologico indispensabile per una adeguata formazione dell’individuo in crescita… Meno chiaro appare nell’immediato se la scuola, nel senso dei suoi responsabili vicini o remoti, di questa trovata educativa abbiano coscienza e conoscenza.   Di istinto, i genitori dell’incolpevole alunno si chiedono se tutto ciò sia proprio indispensabile per uno sviluppo armonico della psicologia infantile, magari in sintonia con i suggerimenti più elementari della natura e della fisiologia.   Tuttavia, poiché anche lo zeitgeist ha una sua potenza suggestiva, a frenare un po’ il comprensibile sconcerto, in essi affiora anche qualche dubbio sulla adeguatezza culturale dei propri scrupoli educativi, tanto che sono indotti a porsi il dubbio circa una loro eventuale inadeguatezza culturale rispetto ai tempi, votati come è noto, a sicure sorti progressive.   Ma il caso riassume bene tutto il paradosso di un fenomeno che ha segnato questo quarto di secolo e soltanto incombenti tragedie planetarie, mettono un po’ in sordina, finché dagli inciampi della vita quotidiana esso non riemerge con tutta la sua inaspettata consistenza.   Infatti la domanda sensata che si dovrebbero porre questi genitori, è come e perché una anomalia privata abbia potuto meritare prima una tutela speciale nel recinto sacro dei valori repubblicani, per poi ottenere il crisma della normalità e quindi quello di un modello virtuoso di vita; il tutto dopo essersi insinuata tanto in profondità da avere disattivato anche quella reazione di rigetto con cui tutti gli organismi viventi si difendono una volta attaccati nei propri gangli vitali da corpi estranei capaci di distruggerli.   Eppure, per quanto giovani possano essere questi genitori allarmati, non possono non avere avvertito l’insistenza con cui questa merce sia stata immessa di prepotenza sul mercato delle idee, quale valore riconosciuto, dopo l’adeguata santificazione dei cultori della materia ottenuta col falso martirio per una supposta discriminazione. Quella che già il dettato costituzionale impediva ex lege.

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Ma tutta l’impalcatura messa in piedi intorno a questo teatro dell’assurdo in cui i maschi prendono marito, le femmine si ammogliano nelle sontuose regge sabaude come nelle case comunali di remote province sicule, non avrebbe retto comunque all’urto della ragione naturale e dell’evidenza senza la gioiosa macchina da guerra attivata nel retrobottega politico con il supporto della comunicazione pubblica e lasciata scorrazzare senza freni in un mortificato panorama culturale e partitico.   Nella sconfessione della politica come servizio prestato alla comunità, secondo il criterio antico del bene comune, mentre proprio lo spazio politico è in concreto affollato da grandi burattinai e innumerevoli piccoli burattini, particelle di un caos capace di tenere in scacco «il popolo sovrano». Una parte cospicua del quale si sente tuttavia compensato dalla abolizione dei pronomi indefiniti, per cui tutte e tutti possono toccare con mano tutta la persistenza dei valori democratici.   Non per nulla proprio in omaggio a questi valori è installato nella anticamera della presidenza del Consiglio, da anni funziona a pieno regime un governo ombra, quello terzogenderista dell’UNAR. Un ufficio che ha lavorato con impegno instancabile, e indubbia coerenza personale, alla attuazione del «Piano» (sic) elaborato già sotto i fasti renziani e boschiani, per la imposizione capillare nella società in generale e nella scuola in particolare, di tutto l’armamentario omosessista.   Il cavallo di battaglia di questa benemerita entità governativa è la difesa dei «diritti delle coppie dello stesso sesso», dove sia il «diritto», che la «coppia» hanno lo stesso senso dei famosi cavoli a merenda.   Ecco dunque un esempio significativo ed eccellente di quella desertificazione della politica per cui il governo ombra guidato da interessi particolari in collaborazione e in sintonia con centri di potere radicati in istituzioni sovranazionali, possa resistere ad ogni cambio di governo istituzionale senza che ne vengano disinnescati potere e funzioni.   I partiti, dismessi gli apparati ideologici, e omogeneizzati nella sostanza, sono ridotti a «parti», alla moda di quelle fiorentine che pure un qualche ideale di fondo ce l’avevano, anche se tutte si assestavano su un gioco di potere.   Qui prevale il gioco dei quattro cantoni, dove tutti sono guidati dall’utile di parte che coincide a seconda dei casi con l’utile politico personale o ritenuto tale. Un utile calcolato tra l’altro senza vera intelligenza politica ovvero senza intelligenza tout court. Anche chi si è abbigliato di principi non negoziabili, alla bisogna può negoziare tutto, perché secondo il noto Principio della Dinamica Politica, «Tutto vale fino ad un certo punto».   Tajani, insieme a Rossella O’Hara ci ha offerto il compendio di tutta la filosofia occidentale contemporanea. Quindi dobbiamo stare sereni. Ma i genitori attoniti devono comprendere che quei libretti e questa scuola non sono caduti dal cielo. Sono il frutto di una politica diventata capace di tutto perché incapace a tutto sotto ogni bandiera.   Patrizia Fermani

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Scuola

Mostri nei loro barattoli e nella loro formaldeide

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Lo splendore della fede professata nel pellegrinaggio giubilare nella Città Eterna, la bellezza luminosa dei dipinti di Georges de La Tour, i sontuosi ricami delle Orsoline di Amiens, l’importanza di una cultura che non trasgredisce la natura ma la trascende, sono questi i temi di Nouvelles de Chrétienté per il nuovo anno scolastico.

 

Sotto un’apparente diversità, questi temi sono profondamente uniti in un’intenzione comune espressa con «vigore e chiarezza» da Padre Calmel, quando chiede agli insegnanti cristiani di aprire «i loro studenti ai valori dell’arte nelle sue diverse forme», rendendoli al contempo «capaci di una fiera indipendenza e di un bel disprezzo per tutte le anomalie, infezioni, purulenze e mostruosità, che hanno l’audacia di esigere da loro un’ammirazione complice adornandosi della realtà dell’arte e più spesso della sua apparenza».

 

Il frate domenicano esprime un desiderio preciso: «I mostri torneranno ai loro barattoli e alla loro formaldeide, gli scorpioni artistici reintegrano i loro buchi artistici, il giorno in cui un certo numero di esseri giovani e determinati, non certo per barbarie ma per sovrano rispetto della cultura, tratteranno con disprezzo i prodotti immondi della cultura. La cultura non ha alcun diritto contro i diritti della decenza e dell’onore».

 

Aggiunge: «non deve essere lontano il tempo in cui l’insidioso sofisma “onestà significa stupidità” sarà privo di ogni credibilità, perché sarà diventata chiara la prova che ciò che è normale è bello e che, in una civiltà degna di questo nome, l’intelligenza, la sottigliezza, la leggerezza, la finezza e l’arte marciano di concerto con l’onestà, la santità, il rifiuto inflessibile dei veleni e delle ignominie. La scuola cristiana deve affrettare l’arrivo di questi tempi di libertà». (Ecole chrétienne renouvelée, cap. XXIX, tre sensible en chrétien aux valeurs d’art, pp. 188-189, ed. Téqui)

 

Padre Calmel scrisse queste potenti righe alla fine degli anni ’50, lontano dal wokismo, dalla cultura della cancellazione, dello sradicamento e dell’incoscienza… E si aspettava che le suore, autentiche insegnanti, avessero «idee non solo corrette, ma idee che cantano dentro [di loro] e che incantano [i loro] piccoli alunni», per «comunicare loro una verità canterina e germinante». (Ibid., pp. 129 e 131).

 

È una bella frase da scrivere in cima a un quaderno, in questi giorni di ritorno a scuola!

 

Abate Alain Lorans

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.News

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Immagine da FSSPX.News

 

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