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Spirito

«Quella Messa è intrinsecamente divina»: messaggio di Monsignor Viganò sulla Messa antica

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Renovatio 21 pubblica questo messaggio di Monsignor Carlo Maria Viganò.

 

 

 

 

DILECTA MEA

 

Voi che vi permettete di proibire la Santa Messa apostolica, l’avete mai celebrata?

 

Voi che dall’alto delle vostre cattedre di liturgia sentenziate piccati sulla «vecchia Messa», avete mai meditato le sue preghiere, i suoi riti, i suoi gesti antichi e sacri?

 

Me lo sono chiesto più volte, in questi ultimi anni: perché io stesso, che pure questa Messa ho conosciuto sin da piccolo; che quando ancora portavo i calzoni corti avevo imparato a servirla e a rispondere al celebrante, l’avevo quasi dimenticata e perduta. Introibo ad altare Dei. In ginocchio sui gelidi gradini dell’altare, prima di andare a scuola, in inverno. A sudare sotto la veste di chierichetto, nella canicola di certe giornate estive.

 

Voi che vi permettete di proibire la Santa Messa apostolica, l’avete mai celebrata?

L’avevo dimenticata, quella Messa, che pure fu quella della mia Ordinazione, il 24 Marzo 1968: un’epoca in cui si percepivano già le avvisaglie di quella rivoluzione che di lì a breve avrebbe privato la Chiesa del suo tesoro più prezioso per imporre un rito contraffatto. 

 

Ebbene, quella Messa che la riforma conciliare ha cancellato e proibito nei miei primi anni di Sacerdozio, rimaneva come un remoto ricordo, come il sorriso di una persona cara lontana, lo sguardo di un parente scomparso, il suono di una domenica con le sue campane, le sue voci amiche. Ma era qualcosa che riguardava la nostalgia, la giovinezza, l’entusiasmo di un’epoca in cui gli impegni ecclesiastici erano ancora di là da venire, in cui tutti volevamo credere che il mondo potesse risollevarsi dal dopoguerra e dalla minaccia del Comunismo con un rinnovato slancio spirituale.

 

Volevamo pensare che il benessere economico potesse in qualche modo accompagnarsi ad una rinascita morale e religiosa del Paese. Nonostante il Sessantotto, le occupazioni, il terrorismo, le Brigate Rosse, la crisi del Medioriente. Così, tra i mille impegni ecclesiastici e diplomatici, si era cristallizzato nella mia memoria il ricordo di qualcosa che in realtà rimaneva irrisolto, messo «momentaneamente» da parte per decenni. Qualcosa che pazientemente attendeva, con l’indulgenza che solo Dio usa nei nostri riguardi.

 

 

La mia decisione di denunciare gli scandali dei Prelati americani e della Curia Romana fu l’occasione che mi riportò a considerare, sotto un’altra luce, non solo il mio ruolo di Arcivescovo e di Nunzio Apostolico, ma anche l’anima di quel Sacerdozio che il servizio in Vaticano prima e da ultimo negli Stati Uniti, avevano in qualche modo lasciato incompleto: più per il mio essere sacerdote che non per il Ministero.

 

E quello che sino ad allora non avevo ancora compreso, mi fu chiaro per una circostanza apparentemente inaspettata, quando la mia sicurezza personale sembrò in pericolo e mi trovai, mio malgrado, a dover vivere quasi nella clandestinità, lontano dai palazzi della Curia. Fu allora che quella benedetta segregazione, che oggi considero come una sorta di scelta monastica, mi portò a riscoprire la Santa Messa tridentina.

Voi che dall’alto delle vostre cattedre di liturgia sentenziate piccati sulla «vecchia Messa», avete mai meditato le sue preghiere, i suoi riti, i suoi gesti antichi e sacri?

 

Ricordo bene il giorno in cui al posto della casula indossai i paramenti tradizionali, con il cappino ambrosiano e il manipolo: ricordo il timore che provai nel pronunciare, dopo quasi cinquant’anni, quelle preghiere del Messale che riaffiorarono alla bocca come se le avessi recitate fino a poco prima. Confitemini Domino, quoniam bonus, al posto del Salmo Judica me, Deus del rito romano. Munda cor meum ac labia mea. Quelle parole non erano più quelle del chierichetto o del giovane seminarista, ma le parole del celebrante, di me che nuovamente, oserei dire per la prima volta, celebravo dinanzi alla Santissima Trinità.

 

Perché è pur vero che il Sacerdote è una persona che vive essenzialmente per gli altri – per Dio e per il prossimo – ma è altrettanto vero che se egli non ha la consapevolezza della propria identità e non coltiva la propria santità, il suo apostolato è sterile come il cembalo che tintinna. 

 

So bene che queste riflessioni possono lasciare impassibile, se non addirittura suscitare compatimento, in chi non ha mai avuto la grazia di celebrare la Messa di sempre. Ma accade la stessa cosa, immagino, per chi non si è mai innamorato e non comprende l’entusiasmo e il casto trasporto dell’amato verso l’amata, per chi non conosce la gioia del perdersi nei suoi occhi.

 

Il grigio liturgista romano, il Prelato con il suo clergyman sartoriale e la croce pettorale nel taschino, il consultore di Congregazione con l’ultima copia di Concilium o di Civiltà Cattolica in bella vista, guardano la Messa di San Pio V con gli occhi dell’entomologo (la scienza che studia gli insetti), scrutando quella pericope come un naturalista osserva le venature di una foglia o le ali di una farfalla. Anzi, talvolta mi chiedo se non lo facciano con l’asetticità del patologo che incide col bisturi un corpo vivente. Ma se un sacerdote con un minimo di vita interiore si accosta alla Messa antica, a prescindere dal fatto di averla mai conosciuta o di scoprirla per la prima volta, rimane profondamente scosso dalla composta maestà del rito, come se uscisse dal tempo ed entrasse nell’eternità di Dio. 

Quella Messa è intrinsecamente divina, perché vi si percepisce il sacro in un modo viscerale: si è letteralmente rapiti in cielo, al cospetto della Santissima Trinità e della Corte celeste, lontano dallo strepito del mondo

 

Quello che vorrei far comprendere ai miei Confratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio è che quella Messa è intrinsecamente divina, perché vi si percepisce il sacro in un modo viscerale: si è letteralmente rapiti in cielo, al cospetto della Santissima Trinità e della Corte celeste, lontano dallo strepito del mondo.

 

È un canto d’amore, in cui la ripetizione dei segni, delle riverenze, delle parole sacre non ha nulla di inutile, proprio come la madre non si stanca mai di baciare il suo figlio, la sposa di ripetere «Ti amo» allo sposo.

 

Vi si dimentica tutto, perché tutto ciò che in essa si dice e si canta è eterno, tutti i gesti che vi si compiono sono perenni, al di fuori della storia, eppure immersi in un continuum che unisce il Cenacolo, il Calvario e l’altare sul quale si celebra.

 

Il celebrante non si rivolge all’assemblea, con la preoccupazione di essere comprensibile o di rendersi simpatico o di apparire à la page, ma a Dio: e dinanzi a Dio vi è solo il senso di infinita gratitudine per il privilegio di poter portare con sé le preghiere del popolo cristiano

Il celebrante non si rivolge all’assemblea, con la preoccupazione di essere comprensibile o di rendersi simpatico o di apparire à la page, ma a Dio: e dinanzi a Dio vi è solo il senso di infinita gratitudine per il privilegio di poter portare con sé le preghiere del popolo cristiano, le gioie e i dolori di tante anime, i peccati e le mancanze di chi implora perdono e misericordia, la riconoscenza per le grazie ricevute, i suffragi per i nostri cari defunti.

 

Si è soli, e allo stesso tempo ci si sente intimamente uniti ad una sterminata schiera di anime che attraversa il tempo e lo spazio. 

 

Quando celebro la Messa apostolica, penso che su quel medesimo altare, consacrato con le reliquie dei Martiri, hanno celebrato tanti Santi e migliaia di sacerdoti, usando le mie stesse parole, ripetendo gli stessi gesti, compiendo gli stessi inchini e le medesime genuflessioni, indossando gli stessi paramenti. Ma soprattutto, comunicandosi allo stesso Corpo e Sangue di Nostro Signore, al Quale tutti siamo stati assimilati nell’offerta del Santo Sacrificio.

 

Quando celebro la Messa di sempre, mi rendo conto nel modo più sublime e completo del vero significato di ciò che la dottrina ci insegna.

 

L’agire in persona Christi non è una ripetizione meccanica di una formula, ma la consapevolezza che la mia bocca profferisce le stesse parole che il Salvatore ha pronunciato sul pane e sul vino nel Cenacolo; che mentre elevo al Padre l’Ostia e il Calice ripeto l’immolazione che Cristo fece di Sé sulla Croce; che nel comunicarmi consumo la Vittima sacrificale e mi nutro di Dio, e non sto partecipando a un festino.

 

E con me c’è tutta la Chiesa: quella trionfante che si degna di unirsi alla mia preghiera implorante, quella sofferente che la attende per abbreviare il soggiorno delle anime in Purgatorio, quella militante che se ne rafforza nella quotidiana battaglia spirituale. Ma se davvero, come professiamo con fede, la nostra bocca è la bocca di Cristo, se davvero le nostre parole nella Consacrazione sono quelle di Cristo, se le mani con cui tocchiamo l’Ostia santa e il Calice sono le mani di Cristo, quale rispetto dovremo avere per il nostro corpo, conservandolo puro e incontaminato?

 

Quale migliore sprone per rimanere nella Grazia di Dio?

 

Mundamini, qui fertis vasa Domini. E con le parole del Messale: Aufer a nobis, quæsumus, Domine, iniquitates nostras: ut ad sancta sanctorum puris mereamur mentibus introire

 

Mentre la celebrazione della Messa tridentina è un costante richiamo ad una continuità ininterrotta dell’opera della Redenzione costellata di Santi e Beati, altrettanto non mi pare avvenga con il rito riformato

Il teologo mi dirà che questa è dottrina comune, e che la Messa è esattamente questo, a prescindere dal rito. Non lo nego, razionalmente. Ma mentre la celebrazione della Messa tridentina è un costante richiamo ad una continuità ininterrotta dell’opera della Redenzione costellata di Santi e Beati, altrettanto non mi pare avvenga con il rito riformato.

 

Se guardo alla tavola versus populum, vi vedo l’altare luterano o la mensa protestante; se leggo le parole dell’Istituzione in forma di narrazione dell’Ultima Cena, vi sento le modifiche del Common Book of Prayer di Cranmer, e il servizio di Calvino; se scorro il calendario riformato vi trovo espunti gli stessi Santi che cancellarono gli eretici della Pseudoriforma.

 

E così per i canti, che farebbero inorridire un Cattolico inglese o tedesco: sentire sotto le volte di una chiesa i corali di chi martirizzava i nostri sacerdoti e calpestava il Santissimo Sacramento in spregio alla «superstizione papista» dovrebbe far comprendere l’abisso tra la Messa cattolica e la sua contraffazione conciliare. Senza parlare della lingua: i primi ad abolire il latino furono proprio gli eretici, in nome di una maggior comprensione dei riti per il popolo; un popolo che essi ingannavano, impugnando la Verità rivelata e propagando l’errore.

 

Tutto è profano, nel Novus Ordo. Tutto è momentaneo, tutto accidentale, tutto contingente, variabile, mutevole. Non c’è nulla di eterno, perché l’eternità è immutabile, come immutabile la Fede. Come immutabile è Dio

Tutto è profano, nel Novus Ordo. Tutto è momentaneo, tutto accidentale, tutto contingente, variabile, mutevole. Non c’è nulla di eterno, perché l’eternità è immutabile, come immutabile la Fede. Come immutabile è Dio.

 

Vi è un altro aspetto della Santa Messa tradizionale che mi preme sottolineare, e che ci unisce ai Santi e ai Martiri del passato.

 

Sin dai tempi delle catacombe e fino alle ultime persecuzioni, ovunque un sacerdote celebri il Santo Sacrificio, fosse anche in una soffitta o in una cantina, nella boscaglia, in un granaio o persino in un furgone, egli è misticamente in comunione con quella schiera di eroici testimoni della Fede, e su quell’altare improvvisato si posa lo sguardo della Santissima Trinità, dinanzi ad esso genuflettono adoranti tutte le schiere angeliche, ad esso guardano le anime purganti.

 

Ognuno di noi comprende come la Tradizione crei un legame indissolubile attraverso i secoli non solo nella gelosa custodia di quel tesoro, ma nell’affrontare le prove che essa comporta, fosse anche la morte. Dinanzi a questo pensiero, l’arroganza del tiranno presente, con i suoi deliranti decreti, ci deve rafforzare nella fedeltà a Cristo e farci sentire parte integrante della Chiesa di tutti i tempi

Anche in questo, soprattutto in questo, ognuno di noi comprende come la Tradizione crei un legame indissolubile attraverso i secoli non solo nella gelosa custodia di quel tesoro, ma nell’affrontare le prove che essa comporta, fosse anche la morte. Dinanzi a questo pensiero, l’arroganza del tiranno presente, con i suoi deliranti decreti, ci deve rafforzare nella fedeltà a Cristo e farci sentire parte integrante della Chiesa di tutti i tempi, perché non si conquista la palma della vittoria se non si è pronti a combattere il bonum certamen.

 

Vorrei che i miei Confratelli osassero l’inosabile: vorrei che si accostassero alla Santa Messa tridentina non per compiacersi del pizzo di un camice o del ricamo di una pianeta, o per una mera convinzione razionale sulla sua legittimità canonica o sul fatto che essa non sia mai stata abolita; ma con il timore reverenziale con cui Mosè si avvicinò al roveto ardente: sapendo che ciascuno di noi, al ridiscendere dall’altare dopo l’ultimo Vangelo, in qualche modo è interiormente trasfigurato perché vi ha incontrato il Santo dei Santi.

 

È solo lì, su quel mistico Sinai, che possiamo comprendere l’essenza stessa del nostro Sacerdozio, che è donazione di sé a Dio, anzitutto; oblazione di tutto se stesso assieme a Cristo Vittima, per la maggior gloria di Dio e la salvezza delle anime; sacrificio spirituale che dalla Messa trae forza e vigore; rinuncia di sé, per lasciar posto al Sommo Sacerdote; segno di vera umiltà, nell’annichilimento della propria volontà e nell’abbandono alla volontà del Padre, sull’esempio del Signore; gesto di autentica «comunione» con i Santi, nella condivisione della medesima professione di Fede e dello stesso rito.

 

E vorrei che questa «esperienza» la facessero non solo quanti da decenni celebrano il Novus Ordo, ma soprattutto i giovani sacerdoti e quanti svolgono il proprio Ministero in prima linea: la Messa di San Pio V è per spiriti indomiti, per anime generose ed eroiche, per cuori ardenti di Carità per Dio e per il prossimo. 

 

Lo so bene: la vita dei sacerdoti di oggi è fatta di mille prove, di stress, di sensazione di essere soli a combattere contro il mondo, nel disinteresse e nell’ostracismo dei Superiori, di un lento logorio che distrae dal raccoglimento, dalla vita interiore, dalla crescita spirituale. E so benissimo che questa sensazione di assedio, di trovarsi come un marinaio solo a dover governare una nave in tempesta, non è appannaggio dei tradizionalisti né dei progressisti, ma è destino comune di tutti coloro che hanno offerto la propria vita al Signore e alla Chiesa, ognuno con le proprie miserie, con i problemi economici, le incomprensioni con il Vescovo, le critiche dei confratelli, le richieste dei fedeli.

 

E quelle ore di solitudine, in cui la presenza di Dio e la compagnia della Vergine sembrano svanire, come nella notte oscura di San Giovanni della Croce. Quare me repulisti? Et quare tristis incedo, dum affligit me inimicus?

 

Quando il demonio serpeggia maligno tra internet e la televisione, quærens quem devoret, approfittando a tradimento della nostra stanchezza. In quei casi, che tutti noi affrontiamo come Nostro Signore nel Getsemani, è il nostro Sacerdozio che Satana vuole colpire, presentandosi suadente come Salomé dinanzi a Erode, chiedendoci in dono la testa del Battista. Ab homine iniquo, et doloso erue me. Nella prova, siamo tutti uguali: perché la vittoria che il Nemico vuole riportare non è solo sulla nostra povera anima di battezzati, ma su Cristo Sacerdote, del quale portiamo l’Unzione. 

 

Oggi più che mai, la Santa Messa tridentina è l’unica ancora di salvezza del Sacerdozio cattolico, perché in essa il sacerdote rinasce, tutti i giorni, in quel tempo privilegiato di intima unione con la Trinità beata

Per questo, oggi più che mai, la Santa Messa tridentina è l’unica ancora di salvezza del Sacerdozio cattolico, perché in essa il sacerdote rinasce, tutti i giorni, in quel tempo privilegiato di intima unione con la Trinità beata, e da essa trae le grazie indispensabili per non cadere nel peccato, per progredire sulla via della santità, per ritrovare il sano equilibrio con il quale affrontare il Ministero.

 

Credere che tutto ciò possa liquidarsi come una mera questione cerimoniale o estetica, significa non aver capito nulla della propria Vocazione. Perché la Santa Messa «di sempre» – e lo è davvero, come da sempre è avversata dall’Avversario – non è un’amante compiacente che si offre a chiunque, ma una sposa gelosa e casta, come geloso è il Signore. 

 

Volete piacere a Dio o a chi vi tiene lontani da Lui? La domanda, in fondo, è sempre questa: la scelta tra il soave giogo di Cristo e le catene della schiavitù dell’avversario. La risposta vi apparirà chiara e limpida nel momento in cui anche voi, stupendovi di questo incommensurabile tesoro che vi è stato tenuto nascosto, scoprirete cosa significhi celebrare il Santo Sacrificio non come patetici «presidenti dell’assemblea», ma come «ministri di Cristo e dispensatori dei Misteri di Dio» (ICor 4, 1). 

 

Prendete in mano il Messale, chiedete aiuto a un sacerdote amico, e salite sul monte della Trasfigurazione: Emitte lucem tuam et veritatem tuam: ipsa me deduxerunt, et adduxerunt in montem sanctum tuum, et in tabernacula tua. Come Pietro, Giacomo e Giovanni esclamerete: Domine, bonum est nos hic esse, «Signore, è bello per noi restare qui» (Mt 17, 4). O, con le parole del Salmista che il celebrante ripete all’Offertorio: Domine, dilexi decorem domus tuæ, et locum habitationis gloriæ tuæ.

 

Quando l’avrete scoperto, nessuno potrà più togliervi ciò per cui il Signore non vi chiama più servi, ma amici (Gv 15, 15).

 

Nessuno potrà mai convincervi a rinunziarvi, costringendovi ad accontentarvi della sua adulterazione partorita da menti ribelli.

 

Eratis enim aliquando tenebræ: nunc enim lux in Domino. Ut filii lucis ambulate. «Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce» (Ef 5, 8).

 

Propter quod dicit: Surge qui dormis, et exsurge a mortuis, et illuminabit te Christus. «Perciò sta scritto: Risvegliati, o tu che dormi, risorgi dai morti, e Cristo risplenderà su di te» (Ef 5, 14).

 

 

+ Carlo Maria Viganò

Arcivescovo

 

2 Gennaio 2022

Sanctissimi Nominis JESU

 

 

 

 

 

Immagine di Jim The Photographer via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0); immagine modificata nel colore

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Spirito

Due nuovi «santi» venezuelani riaccendono le tensioni tra Chiesa e Stato

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Tralasciando il dubbio valore delle nuove procedure di canonizzazione, una doppia canonizzazione in Venezuela è diventata rapidamente una questione di Stato, rivelando le profonde fratture tra una Chiesa cattolica fortemente coinvolta nell’arena politica, a rischio di apparire come una forza di opposizione, e il potere chavista detenuto dal presidente Nicolas Maduro.

 

Per comprendere la storia, dobbiamo fare un passo indietro. Il 19 ottobre 2025, papa Leone XIV proclamò «santi» i primi due venezuelani nella storia del Paese: José Gregorio Hernández Cisneros, il «medico dei poveri», e María del Carmen Rendiles Martínez, fondatrice della comunità delle Serve di Gesù. L’evento divenne rapidamente un affare politico.

 

Nicolás Maduro, al potere dal 2013, non ha perso tempo a sfruttare la canonizzazione. Dopo la cerimonia nella casa-museo di José Gregorio Hernández, circondato da fedeli e autorità governative, il capo dello Stato ha rilasciato una serie di dichiarazioni sui social media: «Siamo felici per i nostri santi. Sono entrambi grandi! Il papa ha agito giustamente!», ha dichiarato, esprimendo «immensa, eterna gratitudine» al pontefice, che ha definito un «amico» e un «fratello».

 

E presentare l’evento come un gesto provvidenziale di fronte alle «minacce» che la «più grande potenza militare della storia» rappresenterebbe nei Caraibi, vale a dire gli Stati Uniti, che da diversi anni cercano invano di far cadere il regime chavista.

 

Il chavismo ha una lunga storia con la religione: Hugo Chavez ha invocato la cosiddetta Teologia della Liberazione per la sua «Rivoluzione Bolivariana». Il processo di canonizzazione, guidato con grande entusiasmo dal defunto Papa Francesco, è visto da Nicolas Maduro come una forma di benedizione per il regime.

 

Ma l’opposizione non è rimasta indietro. Maria Corina Machado, vincitrice del premio Nobel per la Pace 2025, un premio altamente politico, ed Edmundo Gonzalez, il candidato presidenziale fallito, hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui José Hernández e Carmen Rendiles vengono descritti come «due santi per 30 milioni di ostaggi venezuelani», riferendosi al destino di 800.000 prigionieri «politici» e migliaia di esuli.

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«Questi santi esemplari, che hanno dedicato la loro vita al servizio degli altri, offrono speranza e consolazione in mezzo all’oscurità», scrivono, invocando un «miracolo imminente»: la caduta del regime chavista.

 

Temendo che la messa papale del 19 ottobre potesse suggerire una forma di approvazione per Maduro, il giorno seguente, durante una messa di ringraziamento a San Pietro, il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato della Santa Sede ed ex nunzio in Venezuela dal 2009 al 2013, ha pronunciato un’omelia in cui ha chiesto «di aprire le prigioni ingiuste, di spezzare le catene dell’oppressione, di liberare gli oppressi, di spezzare tutte le catene».

 

Il caso torna di attualità a Caracas: la «Festa della Santità», prevista per il 25 ottobre 2025 allo stadio Monumental Simon Bolívar , davanti a 50.000 fedeli e alla presenza di tutti i vescovi venezuelani, è stata annullata il 22 ottobre, ufficialmente per «problemi di sicurezza e capienza» – erano state registrate più di 80.000 iscrizioni mentre la capienza non supera i 40.000 posti: «È una questione di sicurezza, sarebbero stati necessari circa tre stadi», spiega uno dei portavoce dell’arcidiocesi.

 

Nell’arcidiocesi di Caracas si vociferava addirittura che il regime chavista intendesse noleggiare autobus per migliaia di sostenitori, trasformando l’evento in una dimostrazione di forza pro-Maduro. Il cardinale Baltazar Porras, arcivescovo emerito di Caracas, ha denunciato il 17 ottobre una situazione «moralmente inaccettabile»: «crescente povertà, militarizzazione come forma di governo, corruzione, mancanza di rispetto per la volontà popolare» e ha chiesto il rilascio dei prigionieri.

 

Nicolas Maduro rispose quattro giorni dopo: «Baltazar Porras ha dedicato la sua vita a cospirare contro José Gregorio Hernández (uno dei neo-canonizzati). È stato sconfitto da Dio, dal popolo». L’accesa discussione tra Chiesa e Stato – in un Paese in cui l’80% della popolazione è cattolica – arriva mentre gli Stati Uniti intensificano la pressione contro il regime chavista.

 

Lo schieramento di una grande flotta al largo delle coste del Paese, accompagnata da un sottomarino nucleare d’attacco, da caccia F-35 e dalla CIA ufficialmente autorizzata da Donald Trump a operare sul territorio venezuelano: si intensifica la pressione su un Paese economicamente rovinato dal bolivarianismo e che – per fortuna o per sfortuna? – è uno dei più dotati in termini di risorse petrolifere. Abbastanza da suscitare cupidigia.

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.News

 

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Immagine di Guillermo Ramos Flamerich via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International

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Spirito

Omelia relativista di Papa Leone XIII: «nessuno possiede tutta la verità»

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Papa Leone XIV ha dichiarato che «nessuno possiede la verità assoluta» e che «nessuno è escluso» dalla Chiesa, durante la sua omelia domenicale del 26 ottobre, pronunciata in occasione della messa giubilare per i gruppi sinodali e gli organismi partecipativi.   Le sue parole, che potrebbero essere interpretate come relativistiche rispetto alla proclamazione della fede unica della Chiesa cattolica, hanno sconvolto moltissimi.   L’amore è la «regola suprema della Chiesa». «Nessuno è chiamato a comandare», ma «tutti sono chiamati a servire»; nessuno deve «imporre le proprie idee», tutti sono invitati all’ascolto reciproco; e «nessuno è escluso» poiché «tutti siamo chiamati a partecipare».   «Nessuno possiede la verità tutta intera, tutti dobbiamo umilmente cercarla, e cercarla insieme»: un’affermazione scioccante per chi è il vicario di colui che è la Via, la Verità e la Vita..   Essere Chiesa sinodale significa riconoscere che la verità non si possiede, ma si cerca insieme, lasciandosi guidare da un cuore inquieto e innamorato dell’Amore.   Leone ha enfatizzato il concetto di Chiesa «sinodale», termine spesso usato dal suo predecessore, Papa Francesco, pur rimanendo vago nel significato. «Le équipe sinodali e gli organi di partecipazione sono immagine di questa Chiesa che vive nella comunione», ha aggiunto oscuramente il romano pontefice.

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«Dobbiamo sognare e costruire una Chiesa umile. Una Chiesa che non sta dritta in piedi come il fariseo, trionfante e gonfia di sé stessa, ma si abbassa per lavare i piedi dell’umanità; una Chiesa che non giudica come fa il fariseo col pubblicano, ma si fa luogo ospitale per tutti e per ciascuno; una Chiesa che non si chiude in sé stessa, ma resta in ascolto di Dio per poter allo stesso modo ascoltare tutti».   «Impegniamoci a costruire una Chiesa tutta sinodale, tutta ministeriale, tutta attratta da Cristo e perciò protesa al servizio del mondo» ha esortato il sommo pontefice con linguaggio sempre più tecnico e cervellotico.   Sebbene nessun individuo possegga la pienezza della verità, la Chiesa cattolica, in quanto Corpo mistico di Cristo guidato dallo Spirito Santo, ha sempre sostenuto di essere la custode del deposito della fede, ossia la verità rivelata da Dio.   I commenti di papa Leone appaiono ambigui e potenzialmente relativistici, poiché non ha chiarito la distinzione tra i membri fallibili della Chiesa, che possono errare nella comprensione della verità, e la Chiesa stessa, che custodisce e proclama l’unica vera fede.   Le parole di Prevost sembrano andare contro il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Il Magistero della Chiesa si avvale in pienezza dell’autorità che gli viene da Cristo quando definisce qualche dogma, cioè quando, in una forma che obbliga il popolo cristiano ad un’irrevocabile adesione di fede, propone verità contenute nella rivelazione divina, o anche quando propone in modo definitivo verità che hanno con quelle una necessaria connessione» (CCC, I dogmi della fede, 88).   La Sacra Scrittura parla della «casa di Dio, che è la chiesa del Dio vivente, colonna e base della verità» (1Tim 3,15).  

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Immagine di Edgar Beltrán via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International 
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Pensiero

Miseria dell’ora legale, contro Dio e la legge naturale

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Ho un argomento molto metafisico, e al contempo concretissimo, per combattere l’abominio dell’ora legale. Un argomento che sono persino in grado di visualizzare.

 

Ci sono, certo i numeri: ci dicono che risparmieremo 300 gigawattora. Quando stanotte mi sono svegliato ad un orario innaturale, nella confusione inevitabile di non sapere se è troppo presto o troppo tardi, ho ripensato ad un altro dato: quante persone, in questi giorni, moriranno negli incidenti stradali dovuti ai colpi di sonno? Non credo che nessuno abbia mai fatto questo calcolo, che sarebbe più importante che qualsiasi discorso sparagnino.

 

Ma a chi importa? L’ora legale, teorizzata da Beniamino Franklin che, democraticamente, voleva piazzare un cannone in ogni via per svegliare la popolazione all’ora che diceva lui per risparmiare in candele, in Italia fu adottata nel 1916, in piena Prima Guerra Mondiale: i nostri ragazzi andavano verso l’inutile strage, il potere pensava a cambiargli l’orologio. Non sono in grado di calcolare l’effetto che l’ora legale può aver avuto sulle trincee, e non ho voglia nemmeno di chiedermelo.

 

Tuttavia non è questo pensiero di morte – diligente e terminale conseguenza dell’azione dello Stato moderno, che è macchina antiumana – che mi spinge a vedere nell’ora legale un’aberrazione satanica.

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Ho, negli occhi, e nel cuore, un’immagine invincibile, quella della chiesetta dove assisto alla Santa Messa, ovviamente in rito tridentino. Molti lettori già la conoscono, perché ho usato la sua foto in vari articoli.

 

Andò più o meno così: oramai sette anni fa, trovammo questa chiesetta – dell’estrema nobiltà della proprietà che ce la concesse parlerò altrove. Si tratta di un oratorio che risale al XII secolo, ma notizie certe in merito non si hanno, e mi piace pensare che vi sia davvero un millennio di storia lì.

 

La chiesa sta fuori dalla città, sopra un borghetto che sa ancora di medioevo, su una collina di boschi e pareti di roccia. L’oratorio stesso sembra posato su un’enorme roccia, anzi sembra esservi stato scolpito, sottratto una scalpellata dopo l’altra da quantità di mani laboriose e fedeli vissute in secoli dimenticati.

 

Arrivati al nostro secolo, arrivati a noi, c’era pronto tutto quello che serviva: il luogo era stato restaurato, nessuno vi aveva introdotto il tavolone-alare conciliare, a poca distanza c’era tanto parcheggio… per i tanti che, non solo dalla provincia, finalmente potevano avere a portata la Messa in latino.

 

Iniziarono così le celebrazioni del rito antico, tuttavia ottenemmo dai sacerdoti, impegnati a dire Messe in tanta parte della regione ed oltre, un orario pre-serale, alle 18.

 

D’inverno, a quell’ora è il buio. Nella scala di pietra mettevamo delle candeline, e lo facciamo ancora oggi in caso di celebrazione notturna. L’effetto è abbastanza magico, tuttavia nulla ha a che fare con quanto avremmo scoperto più avanti.

 

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Anni dopo, a fronte di una comunità di fedeli sempre più vasta e persistente (unita davvero, come dimostrò la solidarietà in pandemia…) aumentarono il numero di Sante Messe, e fu concessa quindi una celebrazione la domenica mattina, alle 11:00.

 

Saltò così fuori il fenomeno che ancora mi stupisce, mi commuove. Ci accorgemmo che, precisamente a mezzogiorno – ora nella quale si ha, con la messa iniziata alle 11, la consacrazione eucaristica, un raggio di luce entra dalla finestra a lato e colpisce esattamente il centro dell’altare, dove è posato il tabernacolo.

 

L’incenso aiuta a vederlo, tuttavia a volte può capitare di notarlo anche in assenza di fumo. È impressionante. Tendo a sospettare di quanti vedono questa cosa e non restano sbalorditi. Le immagini che vedete qui sotto non sono ritoccate in nessun modo. Anzi, ad occhio nudo l’effetto è ancora più forte.

 

 

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È interessante notare che lo abbiamo riscoperto noi a Messa, ma da qualche parte l’eco di questo miracolo luminoso risuonava ancora. Una signora della Pro Loco, che ha stampato un libro sulla chiesetta, mi aveva domandato se mai fosse vera una leggenda locale secondo cui nel giorno del Santo patrono dell’oratorio un raggio di luce colpisce l’altare. Ho risposto invitandola a Messa la domenica successiva, dove ha fatto tante foto con il telefonino, e compreso che la leggenda conteneva una realtà ancora più stupefacente: quel raggio si produce ogni giorno.

 

Il fenomeno impone tanti pensieri. Il primo, è che le mani che hanno eretto questa chiesa sapevano fare cose che i moderno non sono in grado di fare. Di più: chi l’ha costruita, l’ha basata su principi che sono sconosciuti all’architettura moderna. Per fare una chiesa, bisogna orientarla, cioè l’abside deve dare ad orientem (come il sacerdote prima del Concilio), ma non solo.

 

Ho l’idea che chi ha costruito la chiesetta lo abbia fatto proprio a partire da quel raggio, alla faccia di quanti ne osservino gli elementi (scala esterna, portone, altare) e li considerino disallineati. Ossia, l’intera chiesa è concepita a partire dal rapporto del Cielo con la Terra, cioè di Dio con l’uomo – questo è un senso ultimo della religione cristiana, quella della divinità che si fa essere umano, del Dio del Cielo che scende sulla Terra, del Cielo che nutre la Terra con la sua luce, il suo calore la sua grazia.

 

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Quel raggio, che casca durante la Santa Messa esattamente nel momento più alto, significa in maniera incontrovertibile l’armonia tra il Cielo e la Terra. L’accordo, nella bellezza, accordato all’uomo da un Dio buono, un Dio che è luce, che è amore.

 

Questo è l’ordine celeste, infinito, stupendo. Questo è il logos. Questo è il cosmos.

 

Non ci sono voluti tanti mesi per capire che, a parte il cattivo tempo, c’era solo una cosa in grado di distruggere il nostro raggio divino: l’ora legale. Come a marzo si cambia l’ora, quella luce svanisce, si fa più tenue, fino a sparire, facendo capolino, forse, solo dopo la Messa, quando qualcuno si attarda ad una confessione fuori tempo ed altri (io) rassettano prima di chiudere.

 

Di fatto, poi, il fascio luminoso scompare del tutto, dalla vista come dai cuori. Fine della magia, per ordine dello Stato moderno.

 

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Ho sempre preso questo fatto come la prova definitiva della nequizia dell’ora legale – del suo essere un invento contronatura, e quindi contro Dio.

 

Solo il mondo moderno poteva pensare di alterare persino il tempo: l’uomo si sente in grado di modificare l’immutabile, l’uomo introduce il suo artificio in un sistema la cui complessità ha milioni di anni. Non è diverso per tante altre questioni: ad esempio, i vaccini, la fecondazione in vitro, la bioingegneria…

 

L’uomo-dio crede di poter mettere mano su qualsiasi cosa, devastando le leggi stesse della creazione, disintegrando quindi l’equilibrio del Cielo e della Terra – una realtà conosciuta dalla saggezza cinese: «l’uomo si conforma alla Terra / La Terra si conforma al Cielo / il Cielo si conforma al Tao» (Tao Te King, XXV). Era chiaro, agli antichi cinesi, che il Cielo è legato alla morale: «Sotto il cielo tutti / sanno che il bello è bello, / di qui il brutto, sanno che il bene è bene, / di qui il male» (Tao Te King, II).

 

Ora, nel Cristianesimo l’armonia tra la Terra e il Cielo è in realtà una vera alleanze tra persone, cioè tra gli uomini e Dio – e questa nuova alleanza è il Cristo risorto.

 

Alterare il tempo significa frantumare la relazione naturale con il Cielo. Adulterare la luce del sole significa quindi andare contro il divino, contro la legge naturale, contro Dio.

 

Non poteva essere altrimenti: il mondo moderno odia, più ancora dell’uomo, Nostro Signore, che vuole sostituire con l’essere umano ubriacato di hybris satanica, l’umanità onnipotente che, apoteosi del non serviam, si crede capace di cambiare le leggi del cosmo.

 

Ecco perché combatto l’ora legale: perché, ve ne rendiate conto o no, fa parte della macchina in atto per distruggere la presenza di Dio sulla Terra.

 

E quel raggio magnifico me lo ha ricordato anche domenica scorsa: sì, tornata l’ora del Sole, l’ora vera, è tornato. E con lui è venuta ancora da noi questa immagine potente di reincanto del mondo, di bellezza divina, di armonia cosmica, questa visione sacra che vale più di qualsiasi risparmio.

 

Vale tutto. Vale il senso vero dell’esistenza e dell’universo.

 

Roberto Dal Bosco

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