Nucleare
Quando le bombe atomiche cancellano la memoria
Alcuni si chiedono, da un po’ di tempo a questa parte, perché mai tanti altri non paiano mostrare una preoccupazione adeguata alla enormità del pericolo che pure incombe sulle nostre esistenze. Perché, di fronte alla svolta bellicista nostrana, irragionevole e grossolana quanto irresponsabile, non prenda forma una rivolta spontanea, forte e diffusa, non si accenda una discussione pubblica intorno a decisioni avventate, foss’anche imposte, capaci di produrre conseguenze devastanti e irreparabili. E tanto più prende forma lo spettro di queste, tanto più stridente appare una distrazione che sembra generalizzata.
Tutto questo dopo i tanti anni passati a fare i conti non soltanto con le ferite inguaribili di due guerre mostruose che hanno distrutto moralmente e fisicamente l’Europa, cambiandone l’anima e l’aspetto, inghiottito intere generazioni e cancellato enormi spazi di storia. Perché in realtà nel volgere di un secolo è cambiato, insieme a tanto altro, il volto stesso della guerra, che da tragico si è fatto osceno, in virtù di quella tecnica incontrollata ormai capace di divorare ovunque il significato delle cose umane, secondo una follia che ha indossato oggi in ogni campo una veste pornografica.
Dopo il secondo conflitto mondiale abbiamo dovuto imparare a convivere anche con l’idea nuova che il destino della intera specie umana possa essere tenuto nella mano di pochi individui. Idea nuova e sconvolgente, capace di minare il senso della vita e della storia. Ma tuttavia ancora bilanciata dalla fiducia nell’istinto di conservazione proprio degli esseri viventi e nell’affidamento alla speranza cristiana.
Invece ora che anche quella fiducia e quella speranza sembrano essersi sfocate e dissolte in una asfittica ed effimera visione dell’esistenza e nella incapacità di pensare la realtà e la verità, in un mondo diventato onirico, anche l’idea di una minaccia apocalittica sembra quasi priva di sostanza e di interesse.
Le ragioni di questo allontanamento dalla oggettività del reale e dalla sua comprensione possono essere molteplici e articolate. Si può parlare di cambiamento antropologico e sociologico, di stacco generazionale e di trasformazione culturale sotto la dittatura mediatica e comunicativa, con conseguente incapacità del pensiero di cogliere l’intreccio e le implicazioni di una inedita complessità.
Tuttavia, la posta in gioco è così grande che questa sorta di indifferenza, di straniamento, quale almeno si presenta all’apparenza, risulta comunque sconcertante, e le sue ragioni vanno forse ricondotte a un fattore onnicomprensivo più profondo e radicale, che in fondo può spiegare tutti gli altri nella forma di un distacco dalla realtà delle cose speculare ad un distacco dalla memoria.
La cancellazione della memoria, indotta o procurata, artificiosa o spontanea, programmata o inconsapevole, è infatti il fenomeno che sembra dominare ogni aspetto e ogni ambito della contemporaneità, compresa la nuova pornografia bellica.
È questa la chiave di lettura che, a distanza di sessant’anni, ci viene offerta dal carteggio tra Gunther Anders e Claude Eatherly, tra il filosofo che aveva già descritto tutta la tragicità dell’uomo disarmato di fronte alle proprie perverse creazioni tecniche, e il pilota metereologo che, al comando della missione di Enola Gay, dopo avere ordinato lo sganciamento di Little Boy sul centro di Hiroshima, perché il cielo era sereno, aveva cercato disperatamente di espiare, unico nel suo ambiente, una colpa più grande di lui, prendendo su di sé il peso di una infamia di cui si era scoperto strumento inavvertito.
Va qui notato, per inciso, come l’inganno contenuto in quell’uso fraudolento dei nomi gentili dati a strumenti apocalittici, al pari del famoso «arbeit macht frei», copra oggi, attualissimo e incontrastato, ogni rappresentazione deviata della realtà, politica, antropologica, sessuale, pedagogica, scientifica e via discorrendo. Perché la manipolazione del linguaggio è anch’essa qualcosa che ha a che fare anzitutto con la manipolazione della memoria.
Il maggiore Eatherly, si era reso conto degli effetti della «missione» subito dopo averla compiuta, e da allora, rifiutata ogni onorificenza, aveva iniziato una sorta di peregrinazione esistenziale tra l’esigenza di una qualche purificazione propria e la volontà di svegliare la coscienza dei compatrioti sulla follia atomica. Tra il peso di quella colpa che chiedeva di essere espiata e la consapevolezza del significato morale che ora l’arma atomica assumeva per l’intera umanità. Aveva guardato in faccia il mostro e ne era rimasto quasi incenerito. Dopo un travaglio durato quindici anni, durante i quali aveva anche commesso piccoli reati in cerca di una qualunque punizione, e dopo due tentativi di suicidio, era approdato volontariamente all’ospedale psichiatrico di Waco riservato ai militari affetti da malattie nervose, nella speranza che i medici lo aiutassero a rielaborare il proprio dramma e a ritrovare un po’ di pace.
Ma qui era cominciato un altro calvario, quello della lotta contro i poteri costituiti, perché il ricovero da volontario verrà trasformato in un vero e proprio internamento sancito addirittura dal verdetto di una giuria popolare chiamata a giudicare in via processuale le sue condizioni di salute mentale. Infatti, il suo impegno instancabile contro la guerra e soprattutto contro la produzione delle armi nucleari era diventato scomodo, e dunque intollerabile. Lo stesso resoconto giornalistico del processo fornirà di proposito ai lettori l’idea che egli fosse solo un povero deficiente.
Quell’impegno contrastava con il canone interpretativo imposto all’opinione pubblica, e tuttora ancora duro a morire, secondo il quale le atomiche sul Giappone avevano provvidenzialmente posto fine ad una guerra devastante destinata altrimenti a durare. Una guerra che invece era già finita come lo era quella con la Germania quando fu ordinata la polverizzazione meramente punitiva di Dresda. Mentre le due atomiche, delle tre di cui disponeva l’apparato militare americano, che furono lanciate sulle inermi città giapponesi a distanza di qualche giorno l’una dall’altra servivano solo a sperimentarne funzionamento ed effetti.
Gunther Anders viene a conoscenza della vicenda umana di Eatherly quando è già da tempo concentrato sullo scenario del «mondo senza uomo» che i nuovi mezzi di distruzione totale stanno allestendo e dei quali gli impresari sembrano solo compiacersi. Dopo L’uomo è antiquato, ha pubblicato il Diario di Hiroshima e Nagasaki.
Scrive che «la bomba sta ad indicare l’essenza ultima dell’irrazionalismo morale di un sistema totalitario sulla deresponsabilizzazione degli individui» perché «la morte a distanza non solleva problemi morali». Anche perché, osserva, se la morte di un uomo ci commuove per una sorta di immedesimazione, la morte di centomila uomini è già soltanto una espressione numerica.
D’altra parte, la guerra aerea aveva già spalancato la porta sull’abisso, senza una adeguata coscienza comune delle sue implicazioni morali. Essa aveva cambiato il volto della guerra cambiandone anche regole e ruoli, perché aveva assunto vilmente come obiettivo i civili disarmati e indifesi. La guerra che distrugge gli inermi e cancella l’identità storica di un popolo con la distruzione delle sue memorie aveva già indossato la più mostruosa delle maschere realizzate per essa dalla modernità. L’Europa ha conosciuto bene e per prima tutta questa nuova oscenità.
Ma adesso, con riguardo all’atomica, si stava già insinuando l’idea che il never again valesse per Auschwitz, ma poteva non valere per Hiroshima. Perché un nuovo nemico doveva comunque essere individuato alle porte, e quel mezzo era da considerare ancora come il più efficace per chiudere definitivamente i conflitti, senza troppo spreco.
I sovietici erano quel nemico da tenere a bada affinché il contagio ideologico non dilagasse nell’occidente evoluto e democratico per definizione. Allora come ora. Nel febbraio del ‘49 viene istituita la NATO, quando la Russia non ha ancora finito di contare i suoi milioni di morti e non ha ancora testato «l’ordigno fine di mondo» già sperimentato con tanto successo sotto la bandiera della democrazia e della libertà.
Dunque, l’incubo atomico si rafforzava in modo inversamente proporzionale al senso di responsabilità del potere che l’aveva generato, e alla coscienza comune. Questo spiega perché Eatherly combattesse ormai la propria battaglia nella ostilità del suo ambiente e persino della sua famiglia. Il fratello si prodiga affinché non venga liberato.
Eppure, tutto il male che gli viene ora inflitto in forma sterilizzata non fiacca minimamente la sua indole generosa e la consapevolezza piena della follia che divora il mondo. Di quell’hybris ammonita dai greci e dal racconto biblico che ha preso la forma di una tecnica che l’uomo maneggia in modo sempre più autodistruttivo.
Eatherly ha toccato con mano il mostro, lo ha guardato in faccia correndo il rischio di esserne incenerito e combatte forte di una esperienza personale, diretta e sconvolgente, mentre il filosofo ha elaborato il fenomeno in via speculativa. Ma sono diventati compagni di viaggio legati da una amicizia profonda e dalla missione di muovere le masse contro la nuova incommensurabile follia. Eatherly si sente rincuorato da quella vicinanza diventata amicizia, anche se non ha mai abbandonato la propria lotta nemmeno nei momenti di massima solitudine. Collabora con gruppi pacifisti per la sospensione del riarmo atomico, ma scrive «non sono desiderato nelle nostre scuole e nelle nostre università», mentre il generale capo di stato maggiore dell’aviazione «cerca di impedire che si faccia pubblicità al mio caso e al mio problema».
Anders aveva già compilato per il Frankfurter Allgemeine Zeitung del 13 luglio 1957 anche i Comandamenti dell’era atomica dove ammoniva: «ora non abbiamo più a che fare con quella caducità da sempre comune a tutti gli uomini, ma con la stessa cancellazione del tempo. Con essa viene uccisa non solo l’umanità presente, ma anche quella passata e quella futura, tra il nulla di ciò che è stato perché nessuno può ricordarlo e il nulla di ciò che non potrà mai essere».
«Occorre tornare ad acquistare il senso del male prodotto che paradossalmente, più si amplia quantitativamente, meno viene percepito. Bisogna capire che l’apocalisse è opera nostra, ma anche che è impossibile non avere il potere di impedirla. E per questa impresa irrinunciabile occorre avere il coraggio di avere paura».
Una paura, appunto, che dovrebbe essere adeguata alla enormità del pericolo e della catastrofe, e dalla quale il tracotante ma infiacchito uomo contemporaneo, tende a non volere essere disturbato, perché refrattario all’angoscia e portato ad assistere passivamente all’evolvere degli eventi. La corrispondenza si protrae fino al luglio del 1961 e segue tutte le alterne vicende dell’internamento non più volontario di Eatherly nell’ospedale psichiatrico dove per gli apparati politici e militari egli è solo un soggetto da neutralizzare.
Da quella prigione non verrà più liberato e lì morirà nel 1979. Ma dalla sua vicenda si irradia una luce sinistra che ci coinvolge tutti, ci riguarda da vicino e appare come il segno distintivo della contemporaneità. Anders riferisce che il direttore dell’ospedale psichiatrico militare aveva congedato il corrispondente di France Soir inviato per raccogliere informazioni sul caso, invitandolo a dimenticare tutta la faccenda e a lasciare «che quegli uomini dimentichino il loro passato».
Quelle parole confermavano in Anders il «sospetto che i medici avessero cercato di produrre in lui una condizione mentale affatto priva di memoria e di esperienza. La distruzione di un uomo attraverso la distruzione della memoria».
Come dicevamo all’inizio, questa appare la vera chiave di lettura per decifrare la indifferenza più o meno diffusa oggi di fronte al pericolo concreto e sempre più incombente di un conflitto universalmente distruttivo. Del resto, la regola dei medici di Waco, a ben vedere, è esattamente la stessa che viene applicata con ogni mezzo dal potere in ogni ambito della vita comunitaria. Come la vera e più efficacia arma di dominio.
La distruzione delle identità con ogni mezzo, e quindi dell’essere stesso dei singoli e delle comunità, è lo strumento capace di assicurare un asservimento sicuro e indisturbato. La lotta contro ogni identità storica, sessuale, religiosa, etnica e culturale, contro ogni tradizione etica e contro ogni stabilità socio-economica, contro ogni realtà di senso, ovvero contro la verità delle cose, è espressione di una volontà di potenza che alimenta ossessivamente se stessa. E che trova la propria arma formidabile proprio nell’annientamento di quella memoria che dà agli individui e ai popoli la possibilità di attingere al patrimonio dell’esperienza come al terreno su cui seminare sempre di nuovo e da cui trarre sempre nuovi insegnamenti nel corso del tempo.
La distruzione della memoria individuale corrisponde alla distruzione della storia attraverso la guerra aerea. Alla distruzione della famiglia attraverso il dissolvimento dei ruoli e di quella compagine solidale di cui rimane impresso il ricordo, la lezione di vita. Anche la incinerazione dei corpi mira forse ad accelerare simbolicamente la distruzione della memoria. Come il sale sparso sulle rovine della città conquistata doveva spezzare la catena di una storia e di una identità di popolo.
Persino lo scempio architettonico dovuto alla incapacità di soddisfare una qualunque esigenza estetica ha a che fare con il rifiuto della storia e della memoria del bello espresso e acquisito. Persino le fanciulle in fiore con i jeans strappati in fabbrica da macchine apposite sono la rappresentazione vivente di questa regressione verso una dimenticanza del sé.
Ogni aspetto della nostra vita denuncia un oblio senza speranza. Oblio di ogni criterio di convivenza civile, oblio di principi giuridici che sembravano irrinunciabili e delle regole fondamentali del buon governo che parevano acquisite. Quando di tutta una esperienza e di una sapienza maturate nel tempo va perduta la memoria, non si va verso un grado superiore di umanità, ma verso un ritorno fatale ai primordi, e oltre.
E forse è stata proprio questa cancellazione progressiva della memoria, indotta anche dalla violenza nuova di guerre micidiali pensate come opportunità di potere e di guadagno, a trovarci sprovvisti di un’etica adeguata all’incontrollato e debordante strapotere della tecnica come era stato avvertito ben prima della impennata ormai vertiginosa con cui dobbiamo fare ora i conti.
La cancellazione della memoria sul passato impedisce la visione e la speranza del futuro. Rimane una sterile terra di mezzo effimera quanto desolata. In questa terra di mezzo si affannano individui senza orientamento, senza il coraggio di avere paura, senza temere la distruzione del tempo, e lo sgomento del nulla.
Patrizia Fermani
Articolo previamente apparso su Ricognizioni.
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Nucleare
Tokyo, via libera al riavvio della più grande centrale nucleare al mondo
Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
Il governatore della prefettura di Niigata ha approvato la riaccensione parziale dell’impianto di Kashiwazaki-Kariwa, segnando una svolta nella strategia energetica del Giappone, voluta dal governo di Sanae Takaichi. La premier sta valutando anche una revisione dei tre storici principi non nucleari, indignando i sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki.
Il governatore della prefettura di Niigata, Hideyo Hanazumi, ha approvato oggi la riattivazione parziale della centrale nucleare di Kashiwazaki-Kariwa, la più grande del mondo per capacità installata. Il Giappone da tempo cerca di rilanciare il settore dell’energia atomica per ridurre la dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili, aumentate in modo significativo dopo il disastro di Fukushima del 2011.
L’approvazione rimuove l’ultimo ostacolo politico al piano della Tokyo Electric Power Company (TEPCO), che potrà ora procedere con la riaccensione dei due più potenti reattori dell’impianto che insieme generano 2.710 megawatt, circa un terzo della capacità complessiva. Solo il reattore n. 6, ha spiegato il ministro dell’Industria, Ryosei Akazawa, permetterebbe di migliorare del 2% l’equilibrio tra domanda e offerta di energia nell’area metropolitana di Tokyo.
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Hanazumi ha dichiarato che la decisione dovrà comunque essere sottoposta al voto di fiducia dell’assemblea prefetturale nella sessione che si aprirà il 2 dicembre. «Non sarebbe razionale bloccare qualcosa che ha superato gli standard di sicurezza nazionali», ha affermato, sottolineando però che le preoccupazioni dei residenti, le misure di emergenza e il monitoraggio continuo della sicurezza restano priorità da affrontare.
Se confermato, il riavvio segnerebbe una svolta per TEPCO: dal marzo 2011, quando lo tsunami devastò la centrale di Fukushima Daiichi causando il peggiore incidente nucleare dopo Chernobyl, l’azienda non ha più potuto riattivare alcun reattore. In ottobre TEPCO aveva concluso le verifiche tecniche sul reattore n. 6, confermando il corretto funzionamento dei sistemi.
Dopo Fukushima, il Giappone aveva spento tutti i 54 reattori attivi all’epoca. Ad oggi ne sono stati riavviati 14 sui 33 ancora idonei all’uso. Il governo della premier Sanae Takaichi, sostiene la riapertura dei reattori per rafforzare la sicurezza energetica e ridurre i costi delle importazioni: nel 2024 il Giappone ha speso 10,7 trilioni di yen (circa 68 miliardi di dollari) solo per importare gas naturale liquefatto e carbone, un decimo del totale delle importazioni nazionali. Il governo insiste inoltre sul fatto che il ritorno al nucleare è essenziale per contenere i prezzi dell’elettricità e aumentare la quota di energia riducendo allo stesso tempo le emissioni.
La riattivazione dell’impianto avviene in un clima politico teso perché la premier Sanae Takaichi è a favore anche della possibilità di rivedere i principi del Giappone anche in fatto di armi atomiche. Una prospettiva che ha suscitato una dura reazione da parte degli hibakusha, i sopravvissuti ai bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki.
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La Nihon Hidankyo, principale organizzazione nazionale dei sopravvissuti e vincitrice del Premio Nobel per la pace lo scorso anno, ieri 20 novembre ha diffuso una nota di forte condanna, affermando che «non è possibile tollerare l’introduzione di armi nucleari in Giappone né permettere che il Paese diventi una base per la guerra nucleare o un bersaglio di attacchi atomici».
L’organizzazione ha chiesto al governo di rispettare e rafforzare i tre principi (che vietano di possedere, produrre o ospitare armi atomiche), inserendoli addirittura nella legislazione nazionale, denunciando come un pericoloso arretramento l’idea stessa di metterli in discussione.
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Nucleare
Il Niger accusa il gruppo nucleare statale francese di «crimini di massa»
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Nucleare
L’ex vertice dell’esercito ucraino vuole le armi nucleari
L’ex comandante supremo delle Forze Armate ucraine, il generale Valery Zaluzhny, ha sostenuto che solo l’ingresso nella NATO, l’installazione di armi atomiche o l’accoglienza di un imponente contingente militare straniero possano assicurare una protezione effettiva per Kiev.
Le dichiarazioni sono state rese note in un saggio apparso sabato sulle colonne del giornale britannico Telegraph.
Il generale – che, secondo indiscrezioni, starebbe tessendo in silenzio una compagine politica da Londra in vista di una possibile corsa alla presidenza – ha delineato le sue analisi su come sconfiggere Mosca, forgiare un’«Ucraina rinnovata» e quali «tutele di sicurezza» adottare per prevenire una ricaduta nel confronto con il Cremlino.
«Queste tutele potrebbero comprendere: l’accessione dell’Ucraina all’Alleanza Atlantica, il posizionamento di ordigni nucleari sul suolo ucraino o l’impianto di un corposo schieramento alleato in grado di fronteggiare la Federazione Russa», ha argomentato Zaluzhny.
L’alto ufficiale ha sostanzialmente ribadito le posizioni più intransigenti della classe dirigente ucraina attuale: Volodymyr Zelens’kyj ha spesso invocato simili tesi nel corso della crisi con la Russia, e pure in precedenza.
Il governo russo ha più volte stigmatizzato come inaccettabili qualsivoglia delle «tutele di sicurezza» indicate da Zaluzhny. Mosca contrasta da anni le velleità atlantiste di Kiev, additando l’allargamento verso levante del Patto come un pericolo per la propria integrità e annoverandolo tra i moventi principali del contenzioso in atto.
Inoltre, il Cremlino ha insistito che, in qualsivoglia intesa di pace futura, l’Ucraina debba abbracciare uno statuto di neutralità.
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Anche le esternazioni nucleari di Kiev sono state aspramente censurate da Mosca, che le ha giudicate foriere di escalation e di un rischio di conflagrazione mondiale. La dirigenza ucraina ha spesso deplorato l’abbandono dell’eredità atomica sovietica agli albori degli anni Novanta, lamentando di non aver ottenuto contropartite adeguate.
La leadership di Kiev ha sostenuto a lungo che gli Stati Uniti e i suoi alleati avevano l’obbligo di proteggere l’Ucraina a causa del Memorandum di Budapest del 1994, in cui Stati Uniti, Regno Unito e Russia avevano dato garanzie di sicurezza in cambio della rimozione delle testate nucleari sovietiche dal territorio ucraino.
In verità, però, quell’arsenale era rimasto sotto l’egida moscovita, mentre l’Ucraina sovrana mancava delle capacità per gestirne o preservarne le testate residue dopo la dissoluzione dell’URSS. Allo stesso modo, la Russia ha escluso qualsivoglia ipotesi di dispiegamento di truppe straniere in Ucraina, né durante né oltre il conflitto vigente. Tale mossa, a giudizio del Cremlino, non farebbe che precipitare Mosca in uno scontro frontale con l’Occidente.
Come ricordato da Renovatio 21, c’è da dire che la fornitura di atomiche a Kiev è stata messa sul piatto varie volte da personaggi come l’europarlamentare ucraino Radoslav Sikorski, membro del gruppo Bilderberg sposato alla neocon americana Anne Applebaum.
Si tende a dimenticare che lo stesso Zelens’kyj parlò di riarmo atomico di Kiev alla Conferenza di Sicurezza di Monaco, pochi giorni prima dell’intervento russo. In seguito, Zelens’kyj e i suoi hanno più volte parlato di attacchi preventivi ai siti di lancio russi e di «controllo globale» delle scorte atomiche di Mosca.
A inizio anno, la portavoce del ministero degli Esteri di Mosca Maria Zakharova aveva definito lo Zelen’skyj come un «maniaco» che chiede armi nucleari alla NATO.
Come riportato da Renovatio 21, mesi fa il quotidiano londinese Times aveva parlato di «opzione nucleare ucraina». Settimane prima il tabloid tedesco Bild aveva riportato le parole di un anonimo funzionario ucraino che sosteneva che Kiev ha la capacità di costruire un’arma nucleare «in poche settimane».
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