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Papa Leone saluta subito gli ebrei. In nome del Concilio

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Non c’è voluto molto prima che il nuovo pontefice mandasse un segnale all’importante destinatario. Non parliamo dei cattolici conservatori, né degli LGBT, né i tradizionalisti, né i teologi della liberazione: parliamo degli ebrei.

 

Il 13 maggio, giorno della Madonna di Fatima, il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni ha ricevuto il messaggio personale da papa Prevost, con cui è stato informato della sua elezione a nuovo pontefice della Chiesa cattolica, scrivono le agenzie stampa, che riportano che nella sua nota, Leone XIV si impegna «a continuare e a rafforzare il dialogo e la cooperazione della Chiesa con il popolo ebraico nello spirito della dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano secondo».

 

Il rabbino Capo di Roma – il quale ricordiamo siede anche nel Comitato Nazionale di Bioetica, «sarà presente alla celebrazione della inaugurazione del pontificato, ha accolto con soddisfazione e gratitudine le parole a lui dirette dal nuovo papa», scrive una nota emessa dalla Comunità ebraica di Roma. Il rabbino – che aveva fatto sapere di aver partecipato ai funerali di Bergoglio sabato 26 aprile «nel rispetto dello Shabbat», ovvero arrivando a San Pietro a piedi – sarà presente alla celebrazione della inaugurazione del pontificato. Si dice che saranno presenti altri rappresentanti della religione giudaica.

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Sullo sfondo, vi sono le mancate condoglianze per la morte di papa Francesco da parte dello Stato di Israele, con il governo Netanyahu che avrebbe detto alle ambasciate di cancellare i tweet di cordoglio per la scomparsa del vertice della Chiesa cattolica. Come noto, Bergoglio aveva parlato di «genocidio» a Gaza, provocando l’ira funesta dello Stato degli ebrei e di tanti ebrei in generale – proprio loro, che erano così entusiasti delle sue visite da farlo divenire un cartoon pubblicitario per il ministero del turismo israeliano.

 

Tuttavia papa Leone non ha scritto solo al rabbino Di Segni, ma alle comunità ebraiche di tutto il mondo. Il messaggio è lo stesso: il pontefice rafforzare il dialogo della Chiesa cattolica romana con loro.

 

Il rabbino Noam Marans, direttore degli affari interreligiosi dell’American Jewish Committee, ha pubblicato la lettera sulla piattaforma social X nella tarda serata di lunedì.

 

«Confidando nell’assistenza dell’Onnipotente, mi impegno a continuare e rafforzare il dialogo e la cooperazione della Chiesa con il popolo ebraico nello spirito della dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano II», ha affermato Leone nella lettera.

 

Colpisce come, in pochi giorni dall’elezione al Soglio, il nuovo papa torni a parlare del Concilio Vaticano II. Lo aveva fatto una prima volta nelle prime battute del suo primo discorso al Collegio cardinalizio. Come riportato da Renovatio 21 il vescovo kazako Athanasius Schneider ha notato come sia strano che un papa citi un Concilio ad inizio pontificato, cosa ben rara.

 

Nostra Aetate è stato un documento fondamentale del Concilio del 1962-1965, che ripudiò il concetto di colpa collettiva ebraica per la morte di Gesù e incoraggiò il dialogo con le religioni non cristiane. La preparazione del documento è stata in gran parte sotto la direzione del cardinale Augustin Bea, presidente del Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani, insieme ai suoi periti, tra cui l’eccentrico gesuita Malachi Martin, il quale avrebbe fatto conoscere al porporato leader ebrei, come il rabbino Abraham Joshua Heschel, incontrato dal Martin 1961 e nel 1962.

 

 

Il cardinale Bea incontrò anche Morris B. Abram, presidente dell’American Jewish Committee, e tentò di rassicurarlo sullo stato del documento e sulle controversie contemporanee.

 

In un articolo del 1966 sulla rivista Look Magazine sul dibattito sugli ebrei durante il Concilio Vaticano II Il giornalista Joseph Roddy affermò che una stessa persona, sotto tre diversi pseudonimi, aveva scritto o agito per conto di gruppi di interesse ebraici, come l’American Jewish Committee, per influenzare l’esito dei dibattiti.

 

Roddy scrisse che due articoli tempestivi e remunerati del 1965 furono scritti sotto lo pseudonimo di F.E. Cartus, uno per Harper’s Magazine e uno per la rivista dell’American Jewish Committee, Commentary. Nel suo libro del 2007 Spiritual Radical: Abraham Joshua Heschel in America, Edward K. Kaplan ha confermato che Martin collaborò con l’American Jewish Committee durante il Concilio «per una serie di motivi, sia nobili che ignobili (…) principalmente consigliava il comitato su questioni teologiche, ma forniva anche informazioni logistiche e copie di documenti riservati».

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Il documento Nostra Aetate è finito per avere molto più significato di quello contenuto nelle sue parole, e interpretato come un stand-down de facto del cattolicesimo nei confronti di qualsiasi argomento coinvolga gli ebrei, mentre il mondo preparava la strumentalizzazione di una parola di conio recente, «antisemitismo», per etichettare come indesiderabile il discorso di certuni – se non di farli direttamente arrestare, vista l’entrata in vigore in alcuni Paesi di psicoreati a base «antisemitismo».

 

Una riflessione precisa sull’argomento è stata compiuta dallo studioso cattolico americano E. Michael Jones. «Il dialogo tra cattolici ed ebrei fallì perché, mentre i cattolici consideravano Nostra Aetate un’offerta di pace, gli ebrei la consideravano un’arma nel loro arsenale di guerra culturale» ha scritto il professore filadelfiano nel suo libro Pope Francis in Context. Jones parla quindi dei cattolici presi tra «l’incudine del Vaticano II e le critiche martellanti dei gruppi ebraici, furono apportati».

 

Analizzando un caso riguardante i cattolici bavaresi, e un libro a riguardo, Jones dice che questi «venivano duramente colpiti, e venivano duramente colpiti solo a causa di Nostra Aetate. Senza quel documento, avrebbero potuto facilmente deviare i colpi ebraici. Con esso, gli ebrei potevano ora usare il vescovo contro il suo gregge come il modo migliore per sventrare il ruolo di qualsiasi cosa nei Vangeli che gli ebrei trovassero ripugnante».
Di fatto, la Nostra aetate citata da Leone XIV è divenuta l’arma con cui gli ebrei attaccano i cattolici non appena questi dicono qualcosa che ritengono anche solo vagamente inaccettabile: come, ad esempio, la colpa ebraica per la morte di Cristo, per il quale fu duramente attaccato il film del 2004 La Passione di Cristo come pure il suo regista Mel Gibson, accusato automaticamente di antisemitismo e emarginato via via sempre più da Hollywood.

 

 

Come noto, la situazione è arrivata al punto che le leggi anti-antisemitismo proposte lo scorso anno in America rendevano tecnicamente proibiti vari passaggi dei Vangeli.

 

Ciò detto, ci sono voluti anni prima che la situazione tra i due Stati religiosi si normalizzasse. Il Vaticano e Israele firmarono un «accordo fondamentale» nel 1993 e l’anno successivo si scambiarono ambasciatori a pieno titolo. Negli ultimi tempi il rapporto si era deteriorato totalmente. A dicembre 2024 l’ambasciatore del Vaticano in Israele era stato convocato al ministero degli Esteri dello Stato Ebraico dopo che papa Francesco aveva criticato la «crudeltà» degli attacchi aerei a Gaza.

 

Va anche ricordata l’inquietante presente, prima dell’ultimo conclave, del rabbino Shmuley, personaggio molto controverso. Il rabbino, che tra le altre cose promuove l’azienda di giocattoli sessuali della figlia, è accusato da vari negli USA di essere coinvolto in tanti casi opachi, come con Michael Jackson, di cui era divenuto confidente; poi ne divulgò le conversazioni intime.

 

Alcuni ora accusano il «rabbino dei VIP» di essere l’«handler» (maneggiatore) del segretario per la Salute USA Robert Kennedy jr., difendendolo a spada tratta dalle accuse di antisemitismo che gli sono pavlovianamente cadute addosso appena è arrivato sulla scena politica.

 

Lo Shmuley è poi entrato in dibattiti osceni con la giornalista Candace Owens, indicandola come, indovina indovina, «antisemita». Il rabbì sionista, ad ogni modo, ha offerto al mondo video di sé non sempre edificanti.

 

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Così, è con sgomento che si è arrivati a poche ore dal Conclave con lo Shmuley a Roma che si faceva fotografare con Parolin. Quale manovra potesse esserci dietro, non possiamo saperlo, ma tanti hanno fatto certi pensieri.

 

 

Rimane esemplificativa la storia, ricordata a più riprese da Renovatio 21, di Teodoro Herzl, il fondatore del sionismo sulla cui tomba Bergoglio si lasciò portare da Netanyahu nel 2014, che nel 1903 riuscì a farsi ricevere da papa San Pio X – il papa che comprese e bloccò il modernismo religioso –chiedendogli aiuto per far tornare gli ebrei in Palestina. Il Santo rispose con un sereno, cordiale, netto «no».

 

«Sostenere gli ebrei nell’acquisizione dei Luoghi Santi, quello non possiamo farlo» disse San Pio X al fondatore del sionismo, rifiutando l’idea di un ritorno degli ebrei nelle terre di Gesù.

 

«Noi, e io come il capo della Chiesa, non possiamo fare questo. Ci sono due possibilità. O gli ebrei si aggrappano alla loro fede e continuano ad attendere il Messia che, per noi, è già apparso. In questo caso essi non faranno che negare la divinità di Gesù e noi non li possiamo aiutare. Oppure vanno lì senza alcuna religione, e allora potremo essere ancora meno favorevoli a loro».

 

«La religione ebraica è il fondamento della nostra; ma è stata sostituita dagli insegnamenti di Cristo, e non possiamo concederle alcuna ulteriore validità. Gli ebrei, che avrebbero dovuto essere i primi a riconoscere Gesù Cristo, non l’hanno fatto fino ad ora» proseguì il santo romano pontefice.

 

«Il nostro Signore è venuto senza potere. Era povero. È venuto in pace. Non ha perseguitato nessuno. È stato perseguitato».

 

«È stato abbandonato anche dai suoi apostoli. Solo più tardi è cresciuto in statura. Ci sono voluti tre secoli alla Chiesa per evolvere. Gli ebrei hanno avuto quindi il tempo di riconoscere la sua divinità, senza alcuna pressione. Ma non l’hanno fatto fino ad oggi».

 

Così parlò il papa Santo.

 

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Leone XIV chiede la pace dopo i bombardamenti americani sull’Iran

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Dopo gli attacchi militari statunitensi contro l’Iran, papa Leone XIV ha ribadito i suoi regolari appelli alla pace, citando le «notizie allarmanti» dall’Iran.   Rivolgendosi ai pellegrini riuniti in Piazza San Pietro domenica pomeriggio, papa Leone ha esortato alla pace piuttosto che all’azione militare in Medio Oriente:   «Si susseguono notizie allarmanti dal Medio Oriente, soprattutto dall’Iran. In questo scenario drammatico, che include Israele e Palestina, rischia di cadere in oblio la sofferenza quotidiana della popolazione, specialmente a Gaza e negli altri territori, dove l’urgenza di un adeguato sostegno umanitario si fa sempre più pressante».

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«Oggi più che mai, l’umanità grida e invoca la pace. È un grido che chiede responsabilità e ragione, e non dev’essere soffocato dal fragore delle armi e da parole retoriche che incitano al conflitto. Ogni membro della comunità internazionale ha una responsabilità morale: fermare la tragedia della guerra, prima che essa diventi una voragine irreparabile. Non esistono conflitti “lontani” quando la dignità umana è in gioco».   «La guerra non risolve i problemi, anzi li amplifica e produce ferite profonde nella storia dei popoli, che impiegano generazioni per rimarginarsi. Nessuna vittoria armata potrà compensare il dolore delle madri, la paura dei bambini, il futuro rubato».   «Che la diplomazia faccia tacere le armi! Che le Nazioni traccino il loro futuro con opere di pace, non con la violenza e conflitti sanguinosi!»  

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Il messaggio del Papa è giunto poche ore dopo che gli Stati Uniti hanno effettuato bombardamenti sui siti nucleari iraniani nella tarda serata di sabato.   Il presidente Donaldo Trump ha definito l’attacco «un grande successo», aggiungendo in seguito che «ora è il momento della pace. Grazie per l’attenzione a questa questione».   Il vicepresidente J.D. Vance ha sostenuto che gli Stati Uniti «non hanno attaccato l’Iran. Non abbiamo attaccato alcun obiettivo civile. Non abbiamo nemmeno attaccato obiettivi militari al di fuori dei tre impianti nucleari».   La portavoce di Trump, Karoline Leavitt, ha commentato: «Il mondo dovrebbe essere soddisfatto dell’azione coraggiosa intrapresa dall’esercito degli Stati Uniti».   Nel suo primissimo discorso domenicale, a metà maggio, Leone ha dato avvio a quello che è stato un tema ricorrente del suo giovane pontificato: l’esortazione alla pace nel mondo. «Mai più la guerra», aveva esortato, citando per nome i conflitti in Ucraina, Gaza e Pakistan.

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Immagine di Edgar Beltrán, The Pillar via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International 
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Mons. Schneider: «la gioia dei pellegrini di Chartres mi ha commosso fino alle lacrime»

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Il vescovo Athanasius Schneider ha raccontato di essersi «commosso fino alle lacrime» dopo aver visto la gioia e la fede dei giovani pellegrini della Messa latina durante il pellegrinaggio Parigi-Chartres.

 

«Sono stato testimone della bellezza della fede cattolica, della gioia della fede cattolica», ha commentato il vescovo.

 

Schneider, ausiliare della diocesi di Astana, in Kazakistan, ha partecipato personalmente al pellegrinaggio che si è svolto nel fine settimana di Pentecoste. Circa 19.000 pellegrini hanno partecipato all’evento annuale, giunto ormai alla sua 43ª edizione, segnando un altro record di presenze.

 

«Tutti questi slogan che sentiamo da alcuni ecclesiastici – che coloro che sono legati alla Messa latina tradizionale siano rigidi o fuori moda – non sono veri», ha detto Schneider al conduttore di World Over, Raymond Arroyo. «La realtà è il contrario».

 

 

Il vescovo ausiliare, noto e prolifico promotore della Messa tradizionale, l’ha individuata come una delle questioni più urgenti che Papa Leone XIV dovrà affrontare nel suo pontificato nascente.

 

Schneider considera la liturgia tradizionale della Chiesa un potente mezzo di evangelizzazione, esortando i critici ad assistere personalmente alla liturgia:

 

«Inviterei molti vescovi o chierici ostili a quei cattolici che amano la tradizione della Chiesa di tutti i tempi, che amano la Messa dei santi, a partecipare. Ne sarebbero commossi. Non si può rimanere indifferenti quando si vedono dei bambini».

 

Nonostante la sua familiarità con l’antico rito, Schneider notò che i pellegrini erano per lui fonte di grande emozione:

 

«Mi sono commosso fino alle lacrime nel vedere quanto fossero gioiosi questi bambini, questi giovani (…)Non c’è nulla da criticare in merito, è solo edificante. Spero che questa esperienza attragga proprio questi numeri».

 

Celebrando la messa della domenica di Pentecoste a metà del pellegrinaggio, Schneider si rivolse a circa 20.000 persone, tra pellegrini e visitatori giornalieri giunti appositamente per la messa.

 

Durante l’omelia ha sottolineato la natura senza tempo della liturgia tradizionale e il suo fascino per tutte le età, commentando che «questo rito attrae le anime dei giovani, che sono il futuro della Chiesa».

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Interrogato da Arroyo sulla popolarità della Messa in latino tra i giovani e le giovani famiglie, Schneider ha elogiato il rito perché insegna alle persone il divino:

 

«Questa forma della Messa, a cui questi bambini assistevano ogni giorno durante il pellegrinaggio, li commuoveva, li attraeva. Perché è bellezza, è santità, il rito stesso diffonde un’atmosfera di mistero di santità che di per sé attrae perché trasmette in modo speciale la presenza di Dio».

 

«Le nostre anime hanno sete di Dio e di mistero. Dio è mistero… È un mistero vivente e per questo attrae queste persone, anche perché i bambini hanno un’anima pura e sono più sensibili a questo mistero».

 

 

Monsignor Schneider si è impegnato a fondo per difendere la causa del rito tradizionale dopo le drastiche restrizioni imposte da papa Francesco nel 2021. Sottolineando la potenza dei riti e dei gesti dell’antica liturgia, ha osservato che durante la Messa della domenica di Pentecoste, celebrata in un campo, «vedevo persone inginocchiate per terra, bambini, tutti raccolti, in preghiera. Questo è ciò che questo rito trasmette».

 

Come riportato da Renovatio 21, rivolgendosi alle migliaia di pellegrini nella cattedrale di Chartres, il vescovo ordinario locale Philippe Christory ha detto: «sappiamo che papa Leone prega affinché ogni pellegrino possa vivere un incontro personale con Cristo».

 

Alcuni hanno interpretato questo come un messaggio personale del Papa al pellegrinaggio, anche se non sembra che Christory avesse alcun messaggio del genere da trasmettere. Tuttavia per Schneider anche questa frase era «un segno buono e positivo» e un possibile indicatore di come Leone avrebbe potuto affrontare la Messa tradizionale.

 

«Pertanto possiamo essere fiduciosi e ringraziamo Papa Leone per questa attenzione al pellegrinaggio di Chartres, e spero che papa Leone spalanchi la porta a questo tesoro della Chiesa, dei santi», ha detto.

 

Ci sono stati tentativi dell’ultimo minuto di indebolire la tradizionale natura di Messa del pellegrinaggio. «Ci viene chiesto di trasformare radicalmente lo spirito del nostro pellegrinaggio tradizionale, rendendo il Novus Ordo la norma e il Vetus Ordo l’eccezione tollerata, soggetta all’autorizzazione del vescovo locale o del Dicastero per il Culto Divino», hanno lamentato gli organizzatori.

 

Nonostante ciò, il pellegrinaggio ha continuato a crescere e continua ad attrarre partecipanti con un’età media di 20 anni. Senza dubbio, ha dimostrato ancora una volta che i giovani cattolici sono affamati del nutrimento spirituale offerto dal pellegrinaggio.

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Gay Pride in un’università gesuita

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L’Università Alberto Hurtado (Università Alberto Hurtado, Cile) ha tenuto una cerimonia religiosa di «Preghiera dell’Orgoglio», durante la quale è stata benedetta la bandiera LGBTQ+ e incoraggiata la partecipazione alla parata del Gay Pride, nell’ambito di una settimana di attività dedicate alla «comunità della diversità sessuale».   L’Università Alberto Hurtado, centro universitario gesuita cileno, ha pubblicato un video che mostra una celebrazione «religiosa» legata al «Mese del Gay Pride». Questa celebrazione non è un evento isolato, ma fa parte della «Settimana del Pride” organizzata dall’università a giugno.   Mercoledì 18 giugno 2025, la prima «Preghiera dell’Orgoglio» è stata celebrata presso questa università cattolica in Cile, organizzata dalla «Direzione di Genere, Diversità ed Equità» dell’università. Per garantire una maggiore pubblicità, la cerimonia si è svolta nel cortile del campus. L’obiettivo era «pregare per la comunità LGBTQ+ dell’università».

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La preghiera è stata guidata dal sacerdote gesuita Rodrigo García, responsabile della Pastorale per la Diversità Sessuale dell’università, che indossava una stola multicolore davanti alla nuova bandiera LGBTQ+, che includeva il marrone e il nero per le etnie; il rosa, l’azzurro e il bianco per le persone transgender; e un triangolo giallo e un cerchio viola per l’intersessualità. La bandiera è stata benedetta durante la cerimonia.   Il sacerdote ha spiegato che si trattava di «un momento per ringraziare la comunità LGBTQ+ per ciò che apporta all’università». Ha anche affermato che ciò che stava facendo era semplicemente ciò che il defunto Papa Francesco desiderava: «è un atto religioso. Questo è ciò che ha detto Papa Francesco. Non ho fatto nulla che non fosse già stato detto o fatto. Non si tratta di un atto sovversivo né rivoluzionario».   A questo proposito, ha sottolineato che papa Francesco ha ripetutamente affermato che «la Chiesa è un luogo per tutti, tutti, tutti». Il gesuita, tuttavia, si è preso la libertà di modificare leggermente la frase: «Ora diciamo: tutti, tutte, tutt*».   Ha anche affermato che la «Preghiera dell’Orgoglio» faceva parte di«un momento globale di commemorazione della lotta delle persone per i diritti alla diversità sessuale. Ecco perché aderiamo al Mese del Pride, perché la nostra politica rispetta e promuove la diversità». Il gesuita ha sottolineato che Dio «in qualche modo approva l’orgoglio» e che «Gesù manifesterà sabato», riferendosi alla Marcia del Pride che si terrà sabato 21 giugno.  
  La direttrice del Dipartimento Genere, Diversità ed Equità ha dichiarato che «nell’ambito del Mese del Pride, abbiamo invitato studenti, dipendenti pubblici e accademici a riflettere su una preghiera che incoraggia il rispetto, l’inclusione e la dignità di tutti, e a comprendere che la diversità sessuale merita uno spazio di riconoscimento ed è parte integrante di una comunità che appartiene a tutti».   Ha anche spiegato che per loro sembrava importante che «fosse un’università cattolica a spiegare alla società che religione e diversità possono andare di pari passo». È stato recitato un Padre Nostro e sono state offerte preghiere a Dio per l’inclusione e l’importanza della diversità sessuale. Ci sono state molte benedizioni da parte delle coppie dello stesso sesso, in conformità con Fiducia Supplicans. Tuttavia, a giudicare dal video, la partecipazione è stata piuttosto bassa.   L’Università Alberto Hurtado è l’unica università gesuita in Cile, in un paese con una decina di università cattoliche. Fondata nel 1997, il suo obiettivo è «costruire un progetto accademico di eccellenza senza scopo di lucro, diversificato, pluralista e inclusivo». Nella sezione dedicata alla sua identità e missione, Dio non viene menzionato affatto. A marzo, l’università ha organizzato il primo congresso cileno di studi interdisciplinari sulla diversità sessuale e di genere.

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Che un’università gesuita dedichi il mese di giugno alla celebrazione del Gay Pride, in contrasto con la morale della Chiesa, quando questo mese è tradizionalmente il mese del Sacro Cuore, una devozione strettamente legata alla Compagnia di Gesù, è incomprensibile.   All’inizio del XX secolo, la ventitreesima Congregazione Generale dei Gesuiti dichiarò che «la Compagnia di Gesù accetta e riceve con animo traboccante di gioia e gratitudine il dolce compito che nostro Signore Gesù Cristo le ha affidato di praticare, promuovere e propagare la devozione al Suo Cuore divinissimo”.   Altri tempi, altre usanze, altri fardelli…   Articolo previamente apparso su FSSPX.News

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