Persecuzioni
Pakistan, cristiano linciato e torturato a morte per false accuse di blasfemia
Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
L’assalto della folla il 25 maggio, incendiate anche la casa e l’attività commerciale. Il resto della famiglia era scampato per miracolo all’assalto. Polemiche (e dubbi) sull’annuncio del decesso, il governo avrebbe nascosto la morte per evitare la condanna internazionale. Attivisti accusano: esecutivo e autorità conoscono – e coprono – i gruppi che sfruttano la legge per compiere massacri.
È morto questa mattina in ospedale a causa delle gravissime ferite riportate nell’assalto di una folla inferocita, che lo ha attaccato in seguito a una falsa accusa di blasfemia, il 72enne cristiano Nazir Masih, ennesima vittima di una norma usata per colpire innocenti o dirimere questioni personali.
I fatti risalgono al 25 maggio scorso a Sargodha, capoluogo dell’omonimo distretto, nella Mujahid Colony (Punjab), quando un gruppo di persone ha torturato l’anziano, incendiando la sua casa e l’attività commerciale. Gli assalitori hanno anche cercato di picchiare il figlio Sultan Gill e i famigliari, che sono fuggiti scampando alle violenze.
Intanto montano polemiche anche sulle circostanze – e i tempi – del decesso: la dichiarazione ufficiale risale infatti alla giornata di oggi, ma alcune fonti affermano che è spirato il giorno stesso della brutale aggressione per le ferite riportate, ma dal governo sarebbe arrivata l’indicazione di mantenerlo in vita con il respiratore artificiale per evitare il biasimo internazionale.
Al contempo la comunità cristiana chiede di punire severamente le 45 persone identificate fra i responsabili del linciaggio di Nazir Masih, del rogo della casa e della fabbrica.
L’attivista Anee Muskan, scrittrice e presidente di Chosen Generation, riferisce ad AsiaNews che la morte dell’anziano cristiano «non è avvenuta solo per mano della folla» ma è anche collegata al «silenzio assordante di una intera nazione». «Ognuno di noi – sottolinea – ha la responsabilità di aver permesso per anni il verificarsi di simili atrocità».
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Le fa eco Naveed Walter, presidente di Human Rights Focus Pakistan (HRFP), secondo cui lo Stato dovrebbe garantire «la protezione delle minoranze e assicurare azioni contro tutti i personaggi coinvolti in tali violazioni» per evitare «ulteriori pericoli in futuro». Egli ricorda come i gruppi ed estremisti islamici autori di queste violenze siano ben noti al governo e alle varie istituzioni dello Stato, e quali sono le ragioni che li spingono ad agire. «Alcuni rapporti recenti – afferma – hanno rivelato che sono state registrate molte denunce per blasfemia [usata come arma e pretesto per colpire] contro cristiani da parte degli stessi uomini e gruppi, ma non è stata intrapresa alcuna azione contro di loro» da parte delle autorità.
Commentando la morte padre Khalid Mukhtar esorta la comunità cristiana a restare unita per «ottenere i propri diritti», perché «non possiamo portare alcun cambiamento positivo» divisi.
Il sacerdote pakistano ricorda come gli assalitori abbiano persino «preso a sassate l’ambulanza che stava trasportando Nazir Masih in ospedale». Da qui la sorta di ultimatum: «Do 10 giorni di tempo a questo governo per cancellare l’accusa di blasfemia contro Nazir Masih e la sua famiglia, altrimenti – avverte – ci opporremo uniti a questa brutalità. Che Paese è questo, dove non possiamo ottenere giustizia nemmeno dopo aver perso le nostre vite e i nostri beni. Siamo molto addolorati; chiediamo – conclude – solo pace e giustizia».
Interpellato da AsiaNews Ata-ur-Rehman Saman, attivista pro diritti umani e coordinatore della Commissione nazionale di Giustizia e pace della Chiesa pakistana (NCJP), sottolinea: «Stamane quando è arrivata la notizia della morte di Nazir Masih, vittima della violenza della folla il 25 maggio e deceduto per le ferite riportate, mi è tornata alla mente la figura di Jogindar Nath Mandal, primo ministro della Giustizia e parte della leadership che ha creato il Pakistan».
Nell’ottobre 1950, prosegue l’attivista cristiano, egli si è dimesso dal dicastero «dopo gli episodi di uccisioni di indù e di conversione forzata di indù» nel Pakistan orientale.
«Le circostanze – avverte – sono le stesse anche oggi: l’amministrazione e lo Stato non sono inclini ad affrontare la questione. Questo atteggiamento è la continuazione del comportamento del primo ministro Liaqat Ali Khan» e di un esecutivo che non vuole affrontare la questione. Jongindar Nath Mandal ha avuto la fortuna di poter lasciare il Pakistan per vivere il resto della sua vita, noi – conclude – non abbiamo alcuna possibilità di vivere e dobbiamo morire per il resto della nostra vita».
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Cina
Cina, il nuovo vescovo Cai Bingrui e la frontiera del Fujian
Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
L’attuale vescovo di Xiamen ai sensi dell’intesa tra Pechino e la Santa Sede si è insediato oggi in una delle sedi storicamente più importanti della Chiesa in Cina. Nella provincia che si affaccia su Taiwan in un contesto politicamente molto sensibile. La sfida (ancora da completare davvero) di una ricomposizione con le comunità «sotterranee» e gli slogan ingombranti sul «patriottismo».
Come anticipavamo già qualche giorno fa, dopo l’ordinazione del nuovo vescovo di Luliang nella provincia dello Shanxi avvenuta lunedì, oggi è arrivata anche una seconda notizia di rilievo che riguarda la Chiesa in Cina: questa mattina è avvenuta la presa di possesso del nuovo vescovo della diocesi di Fuhzou, il capoluogo della provincia del Fujian.
Si tratta di mons. Giuseppe Cai Bingrui, 58 anni, che dal 2007 era già il vescovo di Xiamen, altra sede episcopale della stessa provincia. Non si tratta, dunque, di una nuova nomina episcopale, ma di un trasferimento che – ha reso noto la Santa Sede – è stato approvato da papa Francesco ai sensi dell’Accordo provvisorio tra Roma e Pechino sulla nomina dei vescovi.
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Formatosi nel seminario di Sheshan a Shanghai, divenuto sacerdote nel 1992, mons. Cai era diventato molto presto l’amministratore diocesano della comunità di Xianmen, diocesi dove il vescovo ordinato illegittimamente da Pechino (Joseph Huang Ziyu) era morto e restavano in tutto due giovani sacerdoti. L’ordinazione episcopale era poi avvenuta nel 2010, già con il consenso di Roma espresso secondo le modalità precedenti all’Accordo del 2018.
Ora, dunque, il pontefice «avendone approvata la candidatura» – recita il comunicato vaticano – lo ha nominato il 15 gennaio vescovo di Fuzhou «trasferendolo dalla sede di Xiamen». Nel capoluogo del Fujian prende il posto di mons. Pietro Lin Jashan, l’anziano arcivescovo proveniente dalla Chiesa «sotterranea» che nel 2020 ai sensi dell’Accordo era stata Pechino a riconoscere ufficialmente, ma che era poi morto nel 2023 all’età di 88 anni.
Va segnalato che la nota vaticana definisce il nuovo pastore come «vescovo» e Fuzhou come «diocesi», confermando anche in questo caso la geografia ecclesiastica imposta dalle autorità di Pechino, che non annovera metropoli.
Quella di mons. Cai è una nomina di peso per la Chiesa in Cina, in una grande diocesi in cui secondo le stime più recenti vivrebbero più di 300mila cattolici. Un contesto complesso, dal momento che le stesse comunità «sotterranee» – storicamente significative nel Fujian – già prima del riconoscimento ufficiale di mons. Lin Jashan erano a loro volta divise in due tronconi diversi, con un gruppo che continuava a far riferimento a un altro amministratore diocesano clandestino, mons. Giuseppe Lin Yuantuan.
Fuzhou è un luogo fondamentale nella storia dell’evangelizzazione in Cina: nel 1624 proprio qui il gesuita e matematico Giulio Aleni (1582-1649) – discepolo di Matteo Ricci – fu pioniere dell’incontro con la cultura cinese nella tarda dinastia dei Ming. I suoi dieci anni di dialoghi a Fuzhou con un gruppo di letterati confuciani convertiti al cristianesimo e poi raccolti nel Kuoduo richao (il «Diario delle ammonizioni orali») sono una testimonianza unica del primo cristianesimo cinese, come anche delle domande che l’annuncio del Vangelo suscitava da parte di quanti vi si accostavano.
Ma Fuzhou fu anche la prima frontiera del martirio dei cristiani sotto la dinastia dei Qing: nel 1747 fu in questa città che venne incarcerato e decapitato il vescovo domenicano mons. Pedro Sans i Jordà, già allora vicario apostolico del Fujian. E dei 120 martiri cinesi proclamati santi da papa Giovanni Paolo II il 1 ottobre 2000 nella cerimonia duramente contestata come una «provocazione» dal Partito comunista cinese, i primi sei – quelli che furono uccisi prima del XIX secolo – sono tutti missionari domenicani che hanno versato il loro sangue per l’annuncio del Vangelo in questa provincia cinese.
Il Fujian è un’area particolarmente importante anche nello sguardo sulla Cina di oggi: è una delle zone economicamente più dinamiche del Paese (e in realtà del mondo intero) e insieme è una frontiera particolarmente sensibile dal punto di vista politico (è stato iniziando da qui che Xi Jinping ha costruito la sua ascesa al vertice del Partito comunista cinese). Ma soprattutto è la prima linea del confronto con Taiwan, che nel tratto più vicino si trova ad appena 120 chilometri di mare.
Su questo ultimo punto c’è un episodio interessante che riguarda proprio mons. Cai: quando venne ordinato vescovo nel 2010 a Xiamen in una cerimonia presieduta da mons. Zhan Silu, tuttora vescovo di Mindong (ai tempi non ancora in comunione con Roma), fu presente anche il vescovo emerito di Taipei mons. Giuseppe Cheng Tsai-fa. E interpellato su questo da AsiaNews mons. Cai allora raccontò che la sua diocesi riceveva da molto tempo visite da parte dei cattolici della vicina isola di Taiwan e che sperava di continuare il dialogo e lo scambio con la Chiesa dall’altro lato dello Stretto.
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Oggi a lui spetterà il compito di continuare a Fuzhou il cammino di ricomposizione della sua comunità ecclesiale. Nelle ore in cui veniva resa nota la nomina, anche l’anziano presule «sotterraneo» Giuseppe Lin Yuantuan ha diffuso un biglietto in cui dice che la Santa Sede «auspica la sua collaborazione attiva nel guidare il clero, le suore e i fedeli di Fuzhou affinché siano obbedienti e sostengano il vescovo Cai Bingrui». Il che – però – è anche un modo per ricordare che, al di là delle nomine, l’unità è un cammino ancora da compiere fino in fondo nel Fujian, come mostrato negli anni scorsi a Mindong dalla sofferta vicenda del vescovo mons. Guo Xijin.
In un contesto del genere vanno lette anche le parole che il comunicato «ufficiale» di China Catholic mette in bocca al neo-vescovo di Fuzhou. Presentandosi oggi alla diocesi mons. Cai si sarebbe impegnato a tenere «sempre alta la bandiera del patriottismo e dell’amore per la Chiesa, aderendo al principio dell’indipendenza e dell’autogestione, alla direzione della sinicizzazione del cattolicesimo nel Paese, unendo e guidando i sacerdoti e i fedeli della diocesi di Fuzhou ad aderire a un percorso compatibile con la società socialista».
Le immancabili parole d’ordine di Xi Jinping, sulla frontiera del Fujian.
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Immagine di Good Old Pete via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International; immagine modificata
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