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Geopolitica

Nuove tensioni anche tra Kirghizistan e Tagikistan

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Come in un effetto domino delle rivendicazioni russe sulla Crimea, oltre al Nagorno Karabach anche in altri luoghi rimasti in sospeso dai tempi del regime sovietico si riaccendono le divergenze sulle frontiere. La minaccia del Kirghizistan al Tagikistan: «se non rinuncerete alle vostre pretese riveleremo documenti scottanti appena ritrovati».

 

Sullo sfondo della guerra senza fine tra Russia e Ucraina, e del nuovo capitolo dello scontro tra azeri e armeni sul Nagorno Karabakh, anche il Kirghizistan e il Tagikistan rilanciano le proprie divergenze sulle questioni di frontiera, un altro problema aperto rimasto dalla fase post-imperiale sovietica.

 

In questo caso, l’occasione è data dalle dichiarazioni del presidente dei servizi di sicurezza del GKNB di Biškek, Kamčybek Tašiev, secondo il quale se il Tagikistan non rinuncerà alle proprie pretese, i kirghisi potrebbero avvalersi di documenti scottanti appena ritrovati.

 

Rispondendo alle domande dei giornalisti, Tašiev ha detto che le autorità di Biškek hanno trovato dei testi che riguardano proprio la tanto contesa questione delle frontiere, sulla base dei quali si può dimostrare che molte terre kirghise sono state assegnate in maniera irregolare al Paese confinante. Secondo le sue parole, «il nostro vicino continua ad avanzare pretese territoriali nei confronti del Kirghizistan, ma noi sappiamo che non ne ha diritto… nei documenti appare chiaro che molti nostri terreni sono stati assegnati illegalmente al Tagikistan, e lo possiamo dimostrare».

 

Se Dušanbe non rinuncerà alle proprie pretese, continua Tašiev, «noi dimostreremo le nostre ragioni a livello storico e giuridico, e potremo far presente le nostre aspirazioni, che non si potranno confutare». Il rappresentante speciale del governo kirghiso per le questioni di delimitazione e ridefinizione delle frontiere, Nazyrbek Borubaev, ha confermato le parole di Tašiev, ribadendo che i documenti di cui si parla sono codificati negli archivi di Stato. Non si capisce, in realtà, di quali territori si stia effettivamente parlando.

 

Le autorità di Dušanbe hanno inizialmente snobbato le dichiarazioni di Tašiev, e in passato i tagichi hanno a loro volta accusato i vicini di aver messo le mani sulle proprie terre. Un anno fa, il vice-capo del ministero degli esteri del Tagikistan, Sodik Imomi, aveva voluto tenere una presentazione davanti agli ambasciatori occidentali a Dušanbe, per dimostrare invece che la città di Vorukh non era mai stata «un’enclave kirghisa», e tutte le strade che la raggiungono sono sotto il controllo dei tagiki, che la considerano «un proprio territorio».

 

La frontiera del Tagikistan con il Kirghizistan si estende per 972 chilometri, e le diatribe per la sua demarcazione vanno avanti dal 2002. Finora gli accordi fra le due repubbliche hanno raggiunto 664 chilometri, ma ne rimangono da definire ancora più di 300, e gli scontri tra soldati e popolazioni locali non sembrano arrivare alla fine, con tanto di vittime.

 

Il ministero degli esteri di Dušanbe ha comunque convocato l’ambasciatore kirghiso, Erlan Abdyldaev, dopo le dichiarazioni di Tašiev, rilasciando un comunicato per cui «dopo lo scambio di opinioni, si è fatto presente che tali dichiarazioni possono arrecare un danno ingente al processo di trattative per la definizione delle frontiere, e in generale alla fiducia reciproca». Tašiev sovrintende anche alla commissione per la demarcazione dei confini, e insiste nel proclamare che «noi abbiamo le forze e le possibilità per far valere le nostre ragioni».

 

Il rappresentante speciale governativo kirghiso Nazyrbek Borubaev ha confermato il ritrovamento dei documenti sbandierati da Tašiev, ma anch’egli non ha voluto precisare di quali effettivamente si tratti, per «non creare ulteriori ostacoli nel periodo delle trattative ufficiali».

 

Finora era sempre stato il Tagikistan a rivendicare terre proprie occupate dai kirghisi, che oggi cercano di capovolgere le accuse a proprio favore. (…)

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Immagine di Ninara via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)

 

 

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Geopolitica

La Colombia accusa gli Stati Uniti di aver iniziato una «guerra»

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Il presidente colombiano Gustavo Petro ha accusato gli Stati Uniti di cercare di provocare una guerra nei Caraibi usando come pretesto una campagna antidroga, sottolineando che cittadini colombiani sono stati uccisi nei recenti attacchi al largo delle coste del Venezuela.   In un post sui social media di mercoledì, Petro ha sostenuto che la campagna non ha come obiettivo il narcotraffico, ma piuttosto il controllo delle risorse della regione. La Casa Bianca ha definito l’accusa «infondata», secondo Reuters.   Gli Stati Uniti hanno effettuato attacchi aerei contro presunte imbarcazioni coinvolte nel traffico di droga vicino al Venezuela, descrivendoli come un tentativo di contrastare il traffico di stupefacenti nei Caraibi. Washington accusa da tempo il presidente venezuelano Nicolas Maduro di legami con i cartelli della droga. Maduro ha smentito le accuse, sostenendo che gli attacchi siano parte di un piano per destituirlo.   Nelle ultime settimane, gli Stati Uniti hanno distrutto almeno quattro imbarcazioni che, a loro dire, trasportavano stupefacenti al largo delle coste del Venezuela, causando la morte di oltre 20 persone. Come riportato da Renovatio 21, Trump ha definito gli attacchi alle barche della droga come un «atto di gentilezza».

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«Le prove dimostrano che l’ultima imbarcazione bombardata era colombiana, con cittadini colombiani a bordo», ha scritto Petro.   Il presidente colombiano ha ribadito che la campagna statunitense non riguarda la lotta alla droga, ma il controllo delle risorse naturali. «Non c’è una guerra contro il contrabbando; c’è una guerra per il petrolio», ha dichiarato, definendo gli attacchi «un’aggressione contro tutta l’America Latina e i Caraibi».   Per anni, la Colombia è stata considerata il principale alleato di Washington in Sud America. Attraverso il Plan Colombia, un’iniziativa di aiuti multimiliardaria avviata dagli Stati Uniti nel 2000, i governi colombiani successivi hanno concesso alle forze armate statunitensi l’accesso alle basi locali e hanno appoggiato gli sforzi guidati dagli Stati Uniti per isolare il Venezuela. Questa politica è cambiata con l’elezione di Petro nel 2022, che ha lavorato per ristabilire le relazioni diplomatiche con Caracas e ha promosso una politica estera più indipendente e una maggiore cooperazione regionale.   Come riportato da Renovatio 21, la scorsa estate il Petro aveva dichiarato che la Colombia deve interrompere i legami con la NATO perché i leader del blocco atlantico sostengono il genocidio dei palestinesi. Bogotà la settimana scorsa ha espulso tutti i diplomatici israeliani, dopo aver rotto i rapporti con lo Stato Ebraico un anno fa e chiesto alla Corte Penale Internazionale di emettere un mandato di arresto per Netanyahu.

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia  
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Geopolitica

Svelato il profilo dell’accordo tra Israele e Hamas

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Il piano di cessate il fuoco per Gaza proposto dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump prevede il ritiro delle forze israeliane da vaste aree dell’enclave palestinese e la liberazione degli ostaggi rimanenti da parte di Hamas entro pochi giorni. Lo riportano varie testate giornalistiche internazionali.

 

Una fonte egiziana coinvolta nei negoziati ha dichiarato a Sky News Arabia che i mediatori hanno raggiunto un accordo per un «cessate il fuoco completo» e un «ritiro graduale dell’esercito israeliano dal 70% di Gaza».

 

Nel frattempo, la testata israeliana Ynet ha riportato che le forze israeliane dovrebbero ritirarsi entro 24 ore lungo una linea prestabilita, lasciando a Israele il controllo di circa il 53% dell’enclave. Questo includerebbe il ritiro delle IDF da Gaza City e da diverse altre aree centrali, secondo l’articolo.

 

L’agenzia Reuters scrive che Hamas rilascerebbe tutti gli ostaggi vivi entro 72 ore dall’approvazione del governo israeliano. In cambio, Israele libererebbe 250 palestinesi condannati all’ergastolo e 1.700 abitanti di Gaza detenuti dal 2023, incluse tutte le donne e i minori. Hamas detiene ancora circa 48 ostaggi, di cui Israele ritiene che circa 20 siano ancora in vita.

 

Dopo aver annunciato un progresso significativo nei negoziati, Trump ha dichiarato a Fox News che gli ostaggi saranno probabilmente rilasciati lunedì, promettendo che Gaza «sarà ricostruita».

 

«Gaza… diventerà un posto molto più sicuro… altri Paesi della zona aiuteranno la ricostruzione perché hanno enormi quantità di ricchezza e vogliono che ciò accada», ha affermato Trump, senza specificare quali nazioni siano coinvolte.

 

Nonostante l’apparente passo avanti, rimangono diverse questioni irrisolte, come la governance di Gaza nel dopoguerra e il destino di Hamas, che Israele ha giurato di eliminare completamente. Il piano di pace originale di Trump prevedeva un ruolo amministrativo limitato per l’Autorità Nazionale Palestinese, che governa parti della Cisgiordania, ma solo dopo significative riforme.

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Immagine di Jaber Jehad Badwan via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International

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Geopolitica

Il Cremlino: i colloqui Russia-USA sull’Ucraina sono in «seria pausa». Nessun incontro Trump-Putin in agenda

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Il dialogo tra Russia e Stati Uniti per risolvere il conflitto in Ucraina si trova in una «seria pausa», ha dichiarato ai giornalisti il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov.   Le sue parole seguono l’affermazione del viceministro degli Esteri Sergey Rjabkov, secondo cui lo slancio generato dal vertice in Alaska tra i presidenti Vladimir Putin e Donald Trump si è esaurito.   Giovedì Peskov ha ribadito la posizione di Rjabkov, sottolineando l’assenza di progressi verso una soluzione pacifica del conflitto con Kiev.   Le delegazioni russa e ucraina si sono incontrate più volte all’inizio dell’anno. Nell’ultimo incontro a Istanbul a luglio, le parti hanno deciso di creare tre gruppi di lavoro per sviluppare un piano di risoluzione che affronti questioni politiche, militari e umanitarie.

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Tuttavia, Peskov ha dichiarato che «non si sta muovendo nulla», suggerendo che Kiev non sia propensa a perseguire un processo di pace, aggrappandosi a false speranze di poter ribaltare la situazione sul campo di battaglia, una convinzione che ha definito irrealistica.   Peskov ha osservato che la posizione di Kiev è sostenuta dai suoi alleati europei. In precedenza, aveva notato che l’Occidente continua a spingere l’Ucraina a rifiutare il dialogo, alimentando una «isteria militarista» che ostacola gli sforzi di pace.   Rjabkov ha affermato all’inizio della settimana che i «sostenitori di una “guerra all’ultimo ucraino”, soprattutto tra gli europei», sono responsabili dell’esaurimento del «potente impulso» per trovare una soluzione al conflitto, generato durante il vertice di Anchorage ad agosto.   Poco dopo l’incontro tra Trump e Putin, diversi leader dell’UE hanno visitato Washington insieme al presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj, cercando di persuadere il presidente americano ad allinearsi alla posizione europea sul conflitto.   Mosca ha ribadito la sua disponibilità a un accordo di pace, sottolineando però che qualsiasi intesa dovrà rispettare gli interessi di sicurezza nazionale della Russia e le attuali realtà territoriali sul campo.   Attualmente non è previsto un ulteriore incontro tra Putin e Trump, ha dichiarato ai giornalisti Peskov.   I due leader si sono incontrati l’ultima volta a metà agosto in Alaska, dove le discussioni si sono concentrate sugli sforzi di Washington per mediare la fine del conflitto in Ucraina. Tuttavia, Peskov ha sottolineato che un nuovo vertice «semplicemente non è all’ordine del giorno in questo momento».   Il portavoce del Cremlino ha affermato che il processo diplomatico è in stallo, accusando Kiev di aver abbandonato gli sforzi di pace per perseguire obiettivi militari.

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«Credono che qualcosa potrebbe cambiare in prima linea e che la situazione potrebbe volgere a loro favore», ha dichiarato Peskov, citato dai media russi. «Ma la realtà indica il contrario».   Il blocco diplomatico segue un cambiamento nella retorica di Trump, che il mese scorso ha dichiarato che, con sufficienti finanziamenti europei, l’Ucraina potrebbe riconquistare tutti i territori rivendicati, una posizione che Mosca ha definito irrealistica.   Zelens’kyj ha rinnovato le richieste per i missili Tomahawk a lungo raggio di fabbricazione statunitense. Putin ha avvertito che la consegna di armi con capacità nucleare rappresenterebbe una «grave escalation».

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)
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