Pensiero
Nelson Mandela e il green pass

Crediamo che il green pass – e il passaporto vaccinale, e il 2G, e ogni altro nome con cui i vari Paesi danno un nome al lasciapassare COVID – costituisca un’apartheid vera. Su questo sito la chiamiamo spesso con l’espressione «apartheid biotica». Ci sembra incredibile che ci venga ora venduto un concetto di «libertà» che passa attraverso la segregazione di una parte della popolazione. Ma è così.
Si tratta di una prima assoluta per la triste storia della discriminazione umana: non si è discriminati per colore della pelle, lingua, appartenenza etnica, ideologia – si è discriminati ad un livello biologico, perfino, subcellulare, biomolecolare.
Abbiamo tutti visti i parossismi a cui si è arrivati. Come se niente fosse, Paesi interi hanno diviso supermercati e bar tra un segmento biotico della popolazione e l’altro – i vaccinati hanno i loro tavolini, magari fuori, e in tanti posti non possono entrare. «Come i fumatori una volta», minimizza qualcuno. No, in realtà i fumatori in piscina potevano andare, bastava che non vi fumassero.
Siamo dinanzi ad un progetto di ingegneria sociale sacrificale: la cancellazione delle minoranze
Come se niente fosse, si è stabilito quello che qualcuno potrebbe definire un nuovo razzismo, basato sulla marchiatura mRNA. Il genetista Lee Silver, un entusiasta di quella che battezzò «riprogenetica», cioè la creazione sempre più artificiale di bambini bioingegnerizzati, disse nel suo libro di fine anni Novanta Il paradiso clonato che la società si sarebbe presto divisa in due tronconi: da una parte i GenRich, la popolazione geneticamente arricchita, creature con DNA manipolato per essere più belli, più sani, più funzionali; dall’altro i Natural, coloro che, per fede religiosa, arretratezza, o anche solo per sfortuna sono venuti al mondo attraverso gestazione e concepimento naturali.
Silver sosteneva che queste due classi sociali si sarebbero distinte al punto tale che i Natural sarebbero finiti giocoforza a fare i lavori domestici in casa dei GenRich. Non solo: andando avanti nel tempo, la diversità genetica dei due gruppi sarebbe diventata tale che incroci tra le due «razze» sarebbero diventati biologicamente impossibili.
Ebbene, non siamo ancora passati per l’ingegneria genetica (ma, il lettore di Renovatio 21 lo sa, ci stiamo arrivando), ma siamo pienamente davanti ad una società divisa oramai in due classi biologiche – e, per inciso, a dividerle c’è appunto una tecnica genetica, il mRNA.
L’apartheid dei non vaccinati è una realtà che si farà sentire in modo sempre più osceno. Al momento, in Austria e in Germania abbiamo il lockdown per i soli non vaccinati, quindi i lager, già attivi in Australia e, a quanto consta da una legge appena votata a Vienna, di possibile prossima apertura in un Paese limitrofo.
Tuttavia, è stato notato, se guardiamo all’apartheid esperito dai neri africani, le differenze balzano all’occhio. Ai neri sudafricani non veniva impedito di uscire di casa. Ai neri sudafricani non veniva impedito di lavorare. Ai neri sudafricani non era chiesta un’alterazione genetica. Ai neri sudafricani non era orrendamente concesso di prendere gli autobus dei bianchi, ma gli autobus per i neri c’erano.
In pratica, le condizioni dei neri sotto l’apartheid sudafricano erano migliori di quelle di tanti non vaccinati sotto il regime della tirannide sanitaria.
In pratica, le condizioni dei neri sotto l’apartheid sudafricano erano migliori di quelle di tanti non vaccinati sotto il regime della tirannide sanitaria
A questo punto, è impossibile non tirare fuori la storia dell’icona della lotta all’apartheid, Nelson Mandela.
Non ci è possibile provare simpatia per quello che è stato preconfezionato dal mondo «laico» (cioè massonico e globalista) come un santo «laico» (cioè massonico e globalista) del XX secolo, al pari di Gandhi e Martin Luther King – il fondatore di Renovatio 21 ha scritto a riguardo un ebook, e ne ha parlato anche in un capitolo di un altro libro.
Mandela era un terrorista: così era considerato, e a ragione, dal governo sudafricano dell’apartheid. Venne imprigionato perché il suo partito, l’ANC (che era pesantemente influenzato dall’URSS e dai suoi satelliti) aveva abbandonato i metodi costituzionali e intrapreso la via della lotta armata: sabotaggi, con morti e feriti, e addestramento di un ala militare per futuro uso.
Nelson Mandela, l’idolo celebrato da coloro che oggi impongono la tirannide biotica, avrebbe qualcosa da raccontare. Qualcosa che interroga, nel profondo, il senso stesso della democrazia
Sugli attentati da loro perpetrati, con morti innocenti, si potrebbe scrivere a lungo, così come dell’orrido modo in cui giustiziavano i loro stessi uomini – una copertone in fiamme intorno al collo e via, con tanto di canzoncina che celebrava il necklacing, la cosiddetta «collana»: «With our boxes of matches, and our necklaces, we shall liberate this country», con la nostra scatola di fiammiferi, e le nostre collane, libereremo questo Paese…
Tuttavia, proprio Nelson Mandela, l’idolo celebrato da coloro che oggi impongono la tirannide biotica, avrebbe qualcosa da raccontare. Qualcosa che interroga, nel profondo, il senso stesso della democrazia.
Mandela fu arrestato nel 1962. Seguì il cosiddetto Rivonia Trial, il processo, durato dall’ottobre 1963 al giugno 1964, che terminò con la condanna all’ergastolo comminata a Mandela per cospirazione per rovesciare lo Stato.
«Sono accusato di aver incitato le persone a commettere un reato in segno di protesta contro la legge, una legge nella cui preparazione né io né alcun membro del mio popolo abbiamo avuto voce in capitolo»
Mandela, al termine del processo, tenne un discorso divenuto storico, considerato oggi uno dei momenti fondanti del Sudafrica attuale, sorto dopo 27 anni di prigionia del leader. Era il 20 aprile 1964.
Vengono citate spesso, e a ragione, la bellezza e la poesia del suo idealismo civile:
«Durante la mia vita ho dedicato me stesso a questa lotta del popolo africano. Ho combattuto contro la dominazione bianca e ho combattuto contro la dominazione nera. Ho coltivato l’ideale di una società democratica e libera in cui tutte le persone vivranno insieme in armonia e con pari opportunità. È un ideale per il quale spero di vivere e di vedere realizzato. Ma, mio Signore, se è necessario, è un ideale per il quale sono pronto a morire».
Gli avvocati di Mandela erano contrari all’inserzione di questo riferimento alla morte: temevano che avrebbe potuto portare la sentenza verso la pena capitale. Mandela volle includere lo stesso queste parole.
È possibile per una larga fetta della popolazione, subire una legge sulla quale non ha avuto alcuna voce in capitolo?
Tuttavia, politicamente e filosoficamente più significativo fu la prima dichiarazione in tribunale, nel 1962.
«Sono accusato di aver incitato le persone a commettere un reato in segno di protesta contro la legge, una legge nella cui preparazione né io né alcun membro del mio popolo abbiamo avuto voce in capitolo».
«Nel soppesare la decisione sulla pena da infliggere per un simile reato, il giudice deve tener conto della questione della responsabilità, se sono io responsabile o se, di fatto, gran parte della responsabilità non ricade sulle spalle del governo che ha promulgato quella legge, sapendo che il mio popolo, che costituisce la maggioranza della popolazione di questo Paese, si è opposto a quella legge, e sapendo inoltre che ogni mezzo legale per dimostrare tale opposizione è stato ad esso precluso dalla legislazione precedente e dall’azione amministrativa del governo».
Mandela parla dell’impasse definitivo della democrazia: una parte della popolazione non ha più alcun canale per esprimersi.
Ma più ancora, il leader sudafricano nelle righe dà respiro ad uno dei più grandi temi della democrazia, quello che il politologo di Yale Ian Shapiro chiama «principle of affected interest», il «principio dell’interesse colpito».
È possibile per una larga fetta della popolazione, subire una legge sulla quale non ha avuto alcuna voce in capitolo?
Oggigiorno, ci troviamo esattamente nella posizione di Mandela. Leggi terrificanti – leggi di apartheid peggiore di quello sudafricano – vengono implementate senza che né nel governo né in Parlamento vi sia la benché minima rappresentazione di una una percentuale di popolazione a doppia cifra che rifiuta completamente le politiche in atto
«La posizione di Mandela era che il principio dell’interesse colpito era stato violato» sostiene Shapiro. «Questa nozione è molto vicina alla più fondamentale idea procedurale della teoria democratica, cioè che le persone i cui interessi sono colpiti da una decisione, presumibilmente dovrebbero avere qualche voce in capitolo nel prendere quella decisione».
Ciò è particolarmente vero nei casi in cui la popolazione non abbia un’espressione di rappresentanza democratica – la scintilla che fece scoccare l’ora della Rivoluzione Americana, quel «No taxation without representation» inovato dal Tea Party. Se ci vuoi tassare, vogliamo avere una rappresentazione all’interno del processo decisionale sulle tasse.
Siamo praticamente nel cuore della giustizia democratica. Senza rappresentazione di vaste porzioni della popolazione — specialmente quelle in dissenso con il potere! – non vi è giustizia e non vi è, come da etimo, potere del popolo. La forma di governo risultante è sola una forma di tirannide che si fa chiamare cosmeticamente «democrazia».
A questi milioni di dissidenti senza alcuna rappresentazione, senza alcuna voce del processo decisionale, è chiesto il sacrificio del proprio corpo biologico e della propria morale
Oggigiorno, ci troviamo esattamente nella posizione di Mandela. Leggi terrificanti – leggi di apartheid peggiore di quello sudafricano – vengono implementate senza che né nel governo né in Parlamento vi sia la benché minima rappresentazione di una una percentuale di popolazione a doppia cifra che rifiuta completamente le politiche in atto.
Di più: a questi milioni di dissidenti senza alcuna rappresentazione, senza alcuna voce del processo decisionale, è chiesto il sacrificio del proprio corpo biologico e della propria morale. Leggi, ripetiamo con Mandela, «di cui né io né alcun membro del mio popolo abbiamo avuto voce in capitolo nella preparazione».
Cosa diviene quindi la democrazia?
I governi di tutto il mondo, oggi, perseguono l’esatto contrario: la disintegrazione degli individui dotati di ragione, e la preservazione di masse di persone irrazionali e manipolabili a piacimento, sia che li si chiuda in casa per mesi che gli si innesti una sostanza di alterazione genica
«La democrazia può essere il peggiore dei mali, la peggiore delle tirannie. Perché non c’è una tirannia peggiore della massa irrazionale, della folla dei linciatori». Lo abbiamo sentito in un articolo pubblicato ieri, il grande discorso di Lyndon Larouche sulla Legge Naturale come unica vera patria dell’essere umano.
«La democrazia come alcuni la definiscono è la democrazia della folla linciatrice, nei confronti della quale è importante non avere il colore della pelle sbagliato, o non avere il colore d’opinione sbagliato, entro la quale l’individuo non ha altro diritto all’infuori del diritto di essere d’accordo con ciò che sembra essere l’opinione dominante».
È esattamente così, come con Mandela: l’unico diritto che abbiamo è quello di essere d’accordo con l’opinione dominante, che oggi chiamano, sempre più sfacciatamente, «narrazione». Devi credere a tutto quello che ti dicono, anche quanto ciò che ti viene inculcato è spudoratamente privo di logica, e quello che ti viene iniettato è privo di garanzie di sicurezza (non per nulla, te lo portano i militari…). Altrimenti: scherno, emarginazione, magari pure l’espulsione dal discorso pubblico, la damnatio memoriae odierna che passa per i social media. Magari, poi, anche qualche manganellata, o un cane che vi sbrana davanti a tutti, o finanche un paio di pallottole.
Siamo dinanzi ad un progetto di ingegneria sociale sacrificale: la cancellazione delle minoranze.
Ci troviamo quindi ad un impasse storico – o forse, ad una mutazione politica epocale. La democrazia non rappresenta più i cittadini – solo, programmaticamente, alcuni di essi. Gli altri sono ignorati, o combattuti fino ad avvenuta sottomissione
Lo Stato democratico dovrebbe, in teoria, includere il dissenso, quando esso è basato non sulla barbarie irrazionale, ma sulla ragione. Lo Stato dovrebbe fornire la possibilità di parola, di ragione – di Logos – a tutti gli uomini che del Logos sono figli.
«La difesa dell’individuo che desideri ragionare, che intenda essere governato dalla Legge Naturale e dalla ragione, è il compito più sacro della società» diceva Larouche. «La difesa e lo sviluppo di tali individui è il compito della società».
I governi di tutto il mondo, oggi, perseguono l’esatto contrario: la disintegrazione degli individui dotati di ragione, e la preservazione di masse di persone irrazionali e manipolabili a piacimento, sia che li si chiuda in casa per mesi che gli si innesti una sostanza di alterazione genica.
Ci troviamo quindi ad un impasse storico – o forse, ad una mutazione politica epocale. La democrazia non rappresenta più i cittadini – solo, programmaticamente, alcuni di essi. Gli altri sono ignorati, o combattuti fino ad avvenuta sottomissione.
La democrazia, nata con l’intento di lasciare libera l’espressione dell’individuo, ora è divenuta censura e violenza. La democrazia è divenuta tirannide e schiavitù. La libertà è divenuta apartheid. Apartheid biotica.
La democrazia, pensata per includere le minoranze, ora progetta la loro eliminazione, politica e forse non solo politica.
La democrazia, nata con l’intento di lasciare libera l’espressione dell’individuo, ora è divenuta censura e violenza.
La democrazia è divenuta tirannide e schiavitù.
La libertà è divenuta apartheid. Apartheid biotica.
Roberto Dal Bosco
Immagine Laurel di via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 2.0 Generic (CC BY-SA 2.0), immagine modificata.
Pensiero
Putin: il futuro risiede nella «visione sovrana del mondo»

Le nazioni devono basarsi sulle proprie tradizioni storiche e spirituali, oltre che su una «visione sovrana del mondo», mentre plasmano il loro avvenire, ha dichiarato il presidente russo Vladimir Putin in un messaggio scritto ai partecipanti del II Simposio Internazionale «Inventare il Futuro» a Mosca. L’evento, in programma il 7 e 8 ottobre, accoglierà oltre 7.000 partecipanti provenienti da quasi 80 Paesi.
Discussioni aperte e innovative sul futuro dell’umanità supportano i governi nel rispondere adeguatamente alle nuove sfide, ha osservato il presidente russo. «Le conclusioni e i risultati di un dialogo così profondo e sostanziale sono di grande valore», ha aggiunto Putin. «Sono fiducioso che dobbiamo creare il nostro futuro sulla base di una visione del mondo sovrana».
Promosso su iniziativa del presidente russo, il simposio comprende circa 50 eventi, organizzati in tre aree tematiche: società, tecnologia e cooperazione globale. Il forum ospiterà oltre 200 relatori provenienti da Russia, Cina, Stati Uniti, Italia e da Paesi di Africa, America Latina, Medio Oriente e Sud-est asiatico, che discuteranno di temi che spaziano dalle sfide demografiche all’intelligenza artificiale (IA) e all’esplorazione spaziale.
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Nel primo giorno del simposio si è svolta una tavola rotonda incentrata sul futuro delle tecnologie di intelligenza artificiale e sul loro potenziale di diventare non solo uno strumento professionale di nicchia, ma una base per un’infrastruttura globale e un nuovo «linguaggio della realtà» per governi e imprese private.
Un altro dibattito tenutosi martedì si è concentrato sulle prospettive di collaborazione tra Russia e Africa nei prossimi decenni, fino al 2063. Mosca mira a rafforzare i legami con il continente, promuovendo attivamente la condivisione di tecnologie con le nazioni africane, contribuendo a garantire la sicurezza regionale e sostenendo la sovranità degli attori locali, oltre a favorire un approccio più equo nelle relazioni internazionali.
Al forum del Club Valdai, a Sochi, giorni prima Putin aveva parlato dei «valori tradizionali» anche in merito alla «disgustosa atrocità» dell’assassinio di Charlie Kirk.
«Sapete, questa disgustosa atrocità, e ancora di più, dal vivo», ha detto Putin a un forum organizzato dal Valdai Discussion Club a Sochi, in Russia. «In effetti, l’abbiamo vista tutti, ma non so, è davvero disgustoso. Era orribile». «Prima di tutto, naturalmente, porgo le mie condoglianze alla famiglia del signor Kirk e a tutti i suoi cari», ha continuato il leader russo. «Siamo solidali e solidali, soprattutto perché ha difeso quei valori tradizionali».
Putina aveva aggiunto che la sparatoria mortale è il segno di una «profonda frattura nella società», secondo Reuters. «Negli Stati Uniti, non credo ci sia bisogno di aggravare la situazione all’esterno, perché la leadership politica del Paese sta cercando di ristabilire l’ordine a livello nazionale», ha affermato Putin.
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Pensiero
La questione di Heidegger

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Civiltà
«Pragmatismo e realismo, rifiuto della filosofia dei blocchi». Il discorso di Putin a Valdai 2025: «la Russia non mostrerà mai debolezza o indecisione»

Renovatio 21 pubblica il discorso del presidente della Federazione Russa Vladimir Putin all’edizione 2025 del Club Valdai.
È improbabile che io possa formulare linee guida o istruzioni, e non è questo il punto, perché spesso le persone chiedono istruzioni o consigli solo per poi non seguirli. Questa formula è ben nota.
Vorrei esprimere la mia opinione su ciò che sta accadendo nel mondo, sul ruolo del nostro Paese in tutto questo e su come ne vediamo le prospettive di sviluppo.
Il Valdai International Discussion Club si è riunito per la 22a volta e questi incontri sono diventati più di una semplice tradizione. Le discussioni sulle piattaforme Valdai offrono un’opportunità unica per valutare la situazione globale in modo imparziale e completo, per individuare i cambiamenti e comprenderli.
Indubbiamente, la forza unica del Club risiede nella determinazione e nella capacità dei suoi partecipanti di guardare oltre il banale e l’ovvio. Non si limitano a seguire l’agenda imposta dallo spazio informativo globale, dove internet fornisce il suo contributo – sia positivo che negativo, spesso difficile da discernere – ma pongono domande non convenzionali, offrono la propria visione dei processi in corso, cercando di sollevare il velo che nasconde il futuro. Non è un compito facile, ma qui a Valdai ci si riesce spesso.
Abbiamo ripetutamente notato che viviamo in un’epoca in cui tutto sta cambiando, e molto rapidamente; direi addirittura radicalmente. Naturalmente, nessuno di noi può prevedere appieno il futuro. Tuttavia, questo non ci esonera dalla responsabilità di essere preparati. Come il tempo e gli eventi recenti hanno dimostrato, dobbiamo essere pronti a tutto. In tali periodi storici, ognuno ha una responsabilità speciale per il proprio destino, per il destino del proprio Paese e per quello del mondo in generale. La posta in gioco oggi è estremamente alta.
Come già accennato, il rapporto del Valdai Club di quest’anno è dedicato a un mondo multipolare e policentrico. Il tema è da tempo all’ordine del giorno, ma ora richiede un’attenzione particolare; su questo punto concordo pienamente con gli organizzatori. La multipolarità che di fatto è già emersa sta plasmando il quadro entro cui agiscono gli Stati. Vorrei provare a spiegare cosa rende unica la situazione attuale.
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In primo luogo, il mondo odierno offre uno spazio molto più aperto – anzi, si potrebbe dire creativo – per la politica estera. Nulla è predeterminato; gli sviluppi possono prendere direzioni diverse. Molto dipende dalla precisione, dall’accuratezza, dalla coerenza e dalla ponderatezza delle azioni di ciascun partecipante alla comunicazione internazionale. Eppure, in questo vasto spazio è anche facile perdersi e perdere l’orientamento, cosa che, come possiamo vedere, accade piuttosto spesso.
In secondo luogo, lo spazio multipolare è altamente dinamico. Come ho detto, il cambiamento avviene rapidamente, a volte all’improvviso, quasi da un giorno all’altro. È difficile prepararsi e spesso impossibile prevederlo. Bisogna essere pronti a reagire immediatamente, in tempo reale, come si dice.
In terzo luogo, e di particolare importanza, è il fatto che questo nuovo spazio è più democratico. Apre opportunità e percorsi per un’ampia gamma di attori politici ed economici. Forse mai prima d’ora così tanti Paesi hanno avuto la capacità o l’ambizione di influenzare i processi regionali e globali più significativi.
Poi. Le specificità culturali, storiche e di civiltà dei diversi Paesi giocano oggi un ruolo più importante che mai. È necessario cercare punti di contatto e convergenza di interessi. Nessuno è disposto a giocare secondo le regole stabilite da qualcun altro, da qualche parte lontano – come cantava un chansonnier molto noto nel nostro Paese, «al di là delle nebbie», o al di là degli oceani, per così dire.
A questo proposito, il quinto punto: qualsiasi decisione è possibile solo sulla base di accordi che soddisfino tutte le parti interessate o la stragrande maggioranza. Altrimenti, non ci sarà alcuna soluzione praticabile, ma solo frasi ad alta voce e un infruttuoso gioco di ambizioni. Pertanto, per ottenere risultati, armonia ed equilibrio sono essenziali.
Infine, le opportunità e i pericoli di un mondo multipolare sono inscindibili l’uno dall’altro. Naturalmente, l’indebolimento del diktat che ha caratterizzato il periodo precedente e l’espansione della libertà per tutti rappresentano innegabilmente uno sviluppo positivo. Allo stesso tempo, in tali condizioni, è molto più difficile trovare e stabilire questo solido equilibrio, il che rappresenta di per sé un rischio evidente ed estremo.
Questa situazione sul pianeta, che ho cercato di delineare brevemente, è un fenomeno qualitativamente nuovo. Le relazioni internazionali stanno subendo una trasformazione radicale. Paradossalmente, la multipolarità è diventata una conseguenza diretta dei tentativi di stabilire e preservare l’egemonia globale, una risposta del sistema internazionale e della storia stessa al desiderio ossessivo di organizzare tutti in un’unica gerarchia, con i paesi occidentali al vertice. Il fallimento di un simile tentativo era solo questione di tempo, qualcosa di cui, tra l’altro, abbiamo sempre parlato. E, per gli standard storici, è avvenuto piuttosto rapidamente.
Trentacinque anni fa, quando il confronto della Guerra Fredda sembrava volgere al termine, speravamo nell’alba di un’era di autentica cooperazione. Sembrava che non ci fossero più ostacoli ideologici o di altra natura che potessero impedire la risoluzione congiunta dei problemi comuni all’umanità o la regolazione e la risoluzione di inevitabili controversie e conflitti sulla base del rispetto reciproco e della considerazione dei reciproci interessi.
Concedetemi qui una breve digressione storica. Il nostro Paese, nel tentativo di eliminare i motivi di scontro di blocco e di creare uno spazio comune di sicurezza, ha dichiarato due volte la propria disponibilità ad aderire alla NATO. La prima volta nel 1954, durante l’era sovietica. La seconda volta durante la visita del presidente degli Stati Uniti Bill Clinton a Mosca nel 2000 – ne ho già parlato – quando abbiamo discusso anche di questo argomento con lui.
In entrambe le occasioni, abbiamo ricevuto un rifiuto netto e netto. Lo ripeto: eravamo pronti a un lavoro congiunto, a passi non lineari nell’ambito della sicurezza e della stabilità globale. Ma i nostri colleghi occidentali non erano disposti a liberarsi dalle catene degli stereotipi geopolitici e storici, da una visione semplificata e schematica del mondo.
Ne ho parlato pubblicamente anche quando ne ho discusso con il signor Clinton, con il presidente Clinton. Lui ha detto: «sai, è interessante. Penso che sia possibile». E poi la sera ha detto: «mi sono consultato con i miei collaboratori: non è fattibile, non è fattibile ora». «Quando sarà fattibile?» E questo è tutto, è svanito tutto.
In breve, avevamo una reale opportunità di orientare le relazioni internazionali in una direzione diversa e più positiva. Eppure, ahimè, prevalse un approccio diverso. I paesi occidentali cedettero alla tentazione del potere assoluto. Era davvero una tentazione potente, e resistervi avrebbe richiesto una visione storica e una solida preparazione, intellettuale e storica. Sembra che coloro che presero le decisioni in quel momento semplicemente non avessero entrambe le caratteristiche.
In effetti, il potere degli Stati Uniti e dei suoi alleati raggiunse l’apice alla fine del XX secolo. Ma non c’è mai stata, né ci sarà mai, una forza in grado di governare il mondo, dettando a tutti come agire, come vivere, persino come respirare. Tentativi del genere sono stati fatti, ma sono tutti falliti.
Tuttavia, dobbiamo riconoscere che molti trovavano accettabile e persino conveniente il cosiddetto ordine mondiale liberale. È vero, una gerarchia limita fortemente le opportunità per coloro che non si trovavano in cima alla piramide, o, se preferite, in cima alla catena alimentare. Ma coloro che si trovavano in fondo erano sollevati da ogni responsabilità: le regole erano semplici: accettare i termini, inserirsi nel sistema, ricevere la propria quota, per quanto modesta, ed essere contenti. Altri avrebbero pensato e deciso per noi.
E non importa cosa si dica ora, non importa quanto si cerchi di mascherare la realtà: è andata così. Gli esperti qui riuniti lo ricordano e lo capiscono perfettamente.
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Alcuni, nella loro arroganza, si ritenevano autorizzati a fare la predica al resto del mondo. Altri si accontentavano di assecondare i potenti come obbedienti pedine di scambio, desiderosi di evitare inutili problemi in cambio di un bonus modesto ma garantito. Ci sono ancora molti politici di questo tipo nella parte vecchia del mondo, in Europa.
Coloro che osavano opporsi e cercavano di difendere i propri interessi, diritti e opinioni, venivano, nella migliore delle ipotesi, liquidati come eccentrici e, in pratica, veniva loro detto: «non ce la farete, quindi arrendetevi e accettate che, in confronto al nostro potere, siete una nullità». Quanto ai veri testardi, venivano «educati» dai sedicenti leader globali, che non si prendevano nemmeno più la briga di nascondere le loro intenzioni. Il messaggio era chiaro: resistere era inutile.
Ma questo non ha portato nulla di buono. Nessun problema globale è stato risolto. Al contrario, se ne moltiplicano costantemente di nuovi. Le istituzioni di governance globale create in un’epoca precedente hanno cessato di funzionare o hanno perso gran parte della loro efficacia. E non importa quanta forza o risorse uno Stato, o anche un gruppo di Stati, possa accumulare, il potere ha sempre i suoi limiti.
Come sa il pubblico russo, in Russia esiste un detto: «non c’è risposta a un piede di porco, se non un altro piede di porco», ovvero non si porta un coltello a una sparatoria, ma un’altra pistola. E in effetti, quell’«altra pistola» si può sempre trovare. Questa è l’essenza stessa degli affari mondiali: emerge sempre una controforza. E i tentativi di controllare tutto generano inevitabilmente tensione, minando la stabilità interna e spingendo la gente comune a porre una domanda molto legittima ai propri governi: «perché abbiamo bisogno di tutto questo?»
Una volta ho sentito qualcosa di simile dai nostri colleghi americani, che dicevano: «abbiamo guadagnato il mondo intero, ma abbiamo perso l’America». Posso solo chiedere: ne è valsa la pena? E avete davvero guadagnato qualcosa?
È emerso un netto rifiuto delle eccessive ambizioni dell’élite politica delle principali nazioni dell’Europa occidentale, che si sta diffondendo sempre più nelle società di quei paesi. Il barometro dell’opinione pubblica lo indica in modo generalizzato. L’establishment non vuole cedere il potere, osa ingannare direttamente i propri cittadini, aggrava la situazione a livello internazionale, ricorre a ogni sorta di stratagemmi all’interno dei propri paesi, sempre più spesso ai margini della legge o addirittura oltre.
Tuttavia, trasformare continuamente le procedure democratiche ed elettorali in una farsa e manipolare la volontà dei popoli non funzionerà. Come è successo in Romania, ad esempio, ma non entreremo nei dettagli. Questo sta accadendo in molti paesi. In alcuni di essi, le autorità stanno cercando di mettere al bando i loro oppositori politici che stanno guadagnando maggiore legittimità e maggiore fiducia da parte degli elettori. Lo sappiamo per esperienza personale, in Unione Sovietica. Ricordate le canzoni di Vladimir Vysotskij: «Anche la parata militare è stata cancellata! Presto metteranno al bando tutti e tutti!». Ma non funziona, i divieti non funzionano.
Nel frattempo, la volontà del popolo, la volontà dei cittadini di quei Paesi è chiara e semplice: lasciare che i leader di quei Paesi si occupino dei problemi dei cittadini, si prendano cura della loro sicurezza e della loro qualità di vita, e non inseguire chimere. Gli Stati Uniti, dove le richieste della gente hanno portato a un cambiamento sufficientemente radicale nel vettore politico, ne sono un esempio lampante. E possiamo dire che è noto che questi esempi sono contagiosi per altri Paesi.
La subordinazione della maggioranza alla minoranza, insita nelle relazioni internazionali durante il periodo della dominazione occidentale, sta cedendo il passo a un approccio multilaterale e più cooperativo. Esso si basa su accordi tra i principali attori e sulla considerazione degli interessi di tutti. Ciò non garantisce certamente armonia e assoluta assenza di conflitti. Gli interessi dei Paesi non si sovrappongono mai completamente e l’intera storia delle relazioni internazionali è, ovviamente, una lotta per il loro raggiungimento.
Tuttavia, il clima globale fondamentalmente nuovo in cui i paesi della Maggioranza Globale stanno sempre più imponendo il loro tono, promette che tutti gli attori dovranno in qualche modo tenere conto degli interessi reciproci nella ricerca di soluzioni alle questioni regionali e globali. Dopotutto, nessuno può raggiungere i propri obiettivi da solo, isolato dagli altri. Nonostante l’escalation dei conflitti, la crisi del precedente modello di globalizzazione e la frammentazione dell’economia globale, il mondo rimane integrato, interconnesso e interdipendente.
Lo sappiamo per esperienza personale. Sapete quanti sforzi i nostri oppositori abbiano profuso negli ultimi anni per, diciamolo apertamente, estromettere la Russia dal sistema globale e spingerci verso l’isolamento politico, culturale, informativo e l’autarchia economica. Per numero e portata delle misure punitive imposteci, che vergognosamente chiamano «sanzioni», la Russia è diventata il detentore del record assoluto nella storia mondiale: 30.000, o forse anche di più, restrizioni di ogni tipo immaginabile.
E allora? Hanno raggiunto il loro obiettivo? Credo sia ovvio per tutti i presenti: questi sforzi sono completamente falliti. La Russia ha dimostrato al mondo il massimo grado di resilienza, la capacità di resistere alla più potente pressione esterna che avrebbe potuto spezzare non un solo Paese, ma un’intera coalizione di Stati. E a questo proposito, proviamo un legittimo orgoglio. Orgoglio per la Russia, per i nostri cittadini e per le nostre Forze Armate.
Ma vorrei parlare di qualcosa di più profondo. A quanto pare, lo stesso sistema globale da cui volevano espellerci si rifiuta semplicemente di lasciar andare la Russia. Perché ha bisogno della Russia come parte essenziale dell’equilibrio globale: non solo per il nostro territorio, la nostra popolazione, la nostra difesa, il nostro potenziale tecnologico e industriale o la nostra ricchezza mineraria – sebbene, ovviamente, tutti questi siano fattori di fondamentale importanza.
Ma soprattutto, l’equilibrio globale non può essere costruito senza la Russia: né l’equilibrio economico, né quello strategico, né quello culturale o logistico. Nessuno. Credo che coloro che hanno cercato di distruggere tutto questo abbiano iniziato a rendersene conto. Alcuni, tuttavia, cercano ancora ostinatamente di raggiungere il loro obiettivo: infliggere, come si dice, una «sconfitta strategica» alla Russia.
Ebbene, se non riescono a vedere che questo piano è destinato a fallire e a persistere, spero ancora che la vita stessa dia una lezione anche al più testardo di loro. Hanno fatto molto rumore molte volte, minacciandoci con un blocco totale. Hanno persino detto apertamente, senza esitazione, di voler far soffrire il popolo russo. Questa è la parola che hanno scelto. Hanno elaborato piani, uno più fantasioso dell’altro. Credo che sia giunto il momento di calmarsi, di guardarsi intorno, di orientarsi e di iniziare a costruire relazioni in un modo completamente diverso.
Sappiamo anche che il mondo policentrico è altamente dinamico. Appare fragile e instabile perché è impossibile correggere in modo permanente lo stato delle cose o determinare l’equilibrio di potere a lungo termine. Dopotutto, i partecipanti a questi processi sono molteplici e le loro forze sono asimmetriche e complesse. Ciascuno ha i suoi aspetti vantaggiosi e punti di forza competitivi, che in ogni caso creano una combinazione e una composizione uniche.
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Il mondo odierno è un sistema eccezionalmente complesso e sfaccettato. Per descriverlo e comprenderlo correttamente, le semplici leggi della logica, le relazioni di causa ed effetto e i modelli che ne derivano non sono sufficienti. Ciò di cui abbiamo bisogno è una filosofia della complessità, qualcosa di simile alla meccanica quantistica, più saggia e, per certi versi, più complessa della fisica classica.
Eppure è proprio a causa di questa complessità del mondo che la capacità complessiva di accordo, a mio avviso, tende comunque ad aumentare. Dopotutto, le soluzioni unilaterali lineari sono impossibili, mentre le soluzioni non lineari e multilaterali richiedono una diplomazia molto seria, professionale, imparziale, creativa e a volte non convenzionale.
Sono quindi convinto che assisteremo a una sorta di rinascita, a una rinascita dell’alta arte diplomatica. La sua essenza risiede nella capacità di dialogare e raggiungere accordi, sia con i vicini e i partner che condividono gli stessi ideali, sia – non meno importante ma più impegnativo – con gli avversari.
È proprio in questo spirito – lo spirito della diplomazia del XXI secolo – che si stanno sviluppando nuove istituzioni. Tra queste, la comunità BRICS in espansione, organizzazioni di grandi regioni come l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, organizzazioni eurasiatiche e associazioni regionali più compatte ma non meno importanti. Molti di questi gruppi stanno emergendo in tutto il mondo – non li elencherò tutti, poiché li conoscete già.
Tutte queste nuove strutture sono diverse, ma sono unite da una qualità cruciale: non operano secondo il principio di gerarchia o subordinazione a un singolo potere dominante. Non sono contro nessuno; sono per se stesse. Vorrei ribadirlo: il mondo moderno ha bisogno di accordi, non dell’imposizione della volontà di qualcuno. L’egemonia – di qualsiasi tipo – semplicemente non può e non vuole far fronte alla portata delle sfide.
Garantire la sicurezza internazionale in queste circostanze è una questione estremamente urgente, con numerose variabili. Il crescente numero di attori con obiettivi, culture politiche e tradizioni distintive crea un contesto globale complesso che rende lo sviluppo di approcci per garantire la sicurezza un compito molto più intricato e difficile da affrontare. Allo stesso tempo, apre nuove opportunità per tutti noi.
Le ambizioni basate su blocchi pre-programmati per esacerbare il confronto sono diventate, senza dubbio, un anacronismo privo di senso. Vediamo, ad esempio, con quanta diligenza i nostri vicini europei stiano cercando di rattoppare e stuccare le crepe che attraversano la costruzione dell’Europa. Eppure, vogliono superare le divisioni e consolidare la traballante unità di cui un tempo si vantavano, non affrontando efficacemente le questioni interne, ma gonfiando l’immagine di un nemico. È un vecchio trucco, ma il punto è che la gente in quei paesi vede e capisce tutto. Ecco perché scendono in piazza nonostante l’escalation esterna e la continua ricerca di un nemico, come ho detto prima.
Stanno ricreando l’immagine di un vecchio nemico, quello che hanno creato secoli fa, ovvero la Russia. La maggior parte delle persone in Europa fa fatica a capire perché debba avere così tanta paura della Russia da dover stringere ulteriormente la cinghia, abbandonare i propri interessi, semplicemente rinunciarvi, e perseguire politiche chiaramente dannose per loro stesse. Eppure, le élite al potere nell’Europa unita continuano a fomentare l’isteria. Affermano che la guerra con i russi è quasi alle porte. Ripetono questa assurdità, questo mantra, ancora e ancora.
Francamente, quando a volte li guardo e li ascolto, penso che non possano crederci. Non possono crederci quando dicono che la Russia sta per attaccare la NATO. È semplicemente impossibile crederci. Eppure lo stanno facendo credere al loro stesso popolo. Quindi, che tipo di persone sono? O sono completamente incompetenti, se ci credono davvero, perché credere a simili assurdità è semplicemente inconcepibile, o semplicemente disonesti, perché non ci credono loro stessi ma stanno cercando di convincere i loro cittadini che è vero. Quali altre opzioni ci sono?
Francamente, sarei tentato di dire: calmatevi, dormite sonni tranquilli e affrontate i vostri problemi. Guardate cosa sta succedendo nelle strade delle città europee, cosa sta succedendo all’economia, all’industria, alla cultura e all’identità europea, agli enormi debiti e alla crescente crisi dei sistemi di sicurezza sociale, alle migrazioni incontrollate e alla violenza dilagante – inclusa la violenza politica – alla radicalizzazione di gruppi di sinistra, ultraliberali, razzisti e altri gruppi marginali.
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Prendete nota di come l’Europa stia scivolando ai margini della competizione globale. Sappiamo perfettamente quanto siano infondate le minacce sui cosiddetti piani aggressivi della Russia, con cui l’Europa si spaventa. L’ho appena accennato. Ma l’autosuggestione è pericolosa. E semplicemente non possiamo ignorare ciò che sta accadendo; non abbiamo il diritto di farlo, per il bene della nostra sicurezza, per ribadirlo, per il bene della nostra difesa e incolumità.
Ecco perché stiamo monitorando attentamente la crescente militarizzazione dell’Europa. È solo retorica o è giunto il momento di reagire? Abbiamo sentito, e anche voi lo sapete, che la Repubblica Federale di Germania afferma che il suo esercito deve tornare a essere il più forte d’Europa. Bene, stiamo ascoltando attentamente e seguendo attentamente tutto per capire cosa si intenda esattamente con questo.
Credo che nessuno abbia dubbi sul fatto che la risposta della Russia non tarderà ad arrivare. Per usare un eufemismo, la risposta a queste minacce sarà estremamente convincente. E sarà davvero una risposta: noi stessi non abbiamo mai avviato uno scontro militare. È insensato, superfluo e semplicemente assurdo; distrae dai problemi e dalle sfide reali. Prima o poi, le società chiederanno inevitabilmente conto ai loro leader e alle loro élite di ignorare le loro speranze, aspirazioni e bisogni.
Tuttavia, se qualcuno si sente ancora tentato di sfidarci militarmente – come diciamo in Russia, la libertà è per chi è libero – provi pure. La Russia ha dimostrato più volte che quando sorgono minacce alla nostra sicurezza, alla pace e alla tranquillità dei nostri cittadini, alla nostra sovranità e ai fondamenti stessi del nostro Stato, reagiamo prontamente.
Non c’è bisogno di provocazioni. Non c’è stato un solo caso in cui la situazione si sia conclusa positivamente per il provocatore. E non ci si dovrebbero aspettare eccezioni in futuro: non ce ne saranno.
La nostra storia ha dimostrato che la debolezza è inaccettabile, poiché crea tentazione: l’illusione che si possa usare la forza per risolvere qualsiasi questione con noi. La Russia non mostrerà mai debolezza o indecisione. Che questo sia ricordato da coloro che si risentono del fatto stesso della nostra esistenza, da coloro che coltivano sogni di infliggerci questa cosiddetta sconfitta strategica. A proposito, molti di coloro che ne hanno parlato attivamente, come diciamo in Russia, «Alcuni non ci sono più, altri sono lontani». Dove sono ora queste cifre?
Ci sono così tanti problemi oggettivi nel mondo, derivanti da fattori naturali, tecnologici o sociali, che spendere energie e risorse in contraddizioni artificiali, spesso inventate, è inammissibile, uno spreco e semplicemente sciocco.
La sicurezza internazionale è ormai diventata un fenomeno così sfaccettato e indivisibile che nessuna divisione geopolitica basata sui valori può frammentarlo. Solo un lavoro meticoloso e completo, che coinvolga partner diversi e si basi su approcci creativi, può risolvere le complesse equazioni della sicurezza del XXI secolo. In questo quadro, non ci sono elementi più o meno importanti o cruciali: tutto deve essere affrontato in modo olistico.
Il nostro Paese ha costantemente sostenuto – e continua a sostenere – il principio della sicurezza indivisibile. L’ho detto molte volte: la sicurezza di alcuni non può essere garantita a scapito di quella di altri. Altrimenti, non c’è alcuna sicurezza – per nessuno. L’affermazione di questo principio si è rivelata infruttuosa. L’euforia e la sfrenata sete di potere tra coloro che si consideravano vincitori dopo la Guerra Fredda – come ho ripetutamente affermato – hanno portato a tentativi di imporre a tutti nozioni unilaterali e soggettive di sicurezza.
Questa, di fatto, è diventata la vera causa principale non solo del conflitto ucraino, ma anche di molte altre gravi crisi della fine del XX secolo e del primo decennio del XXI secolo. Di conseguenza, proprio come avevamo avvertito, oggi nessuno si sente veramente al sicuro. È tempo di tornare alle basi e correggere gli errori del passato.
Tuttavia, la sicurezza indivisibile oggi, rispetto alla fine degli anni Ottanta e all’inizio degli anni Novanta, è un fenomeno ancora più complesso. Non si tratta più solo di equilibrio militare e politico e di considerazioni di interesse reciproco.
La sicurezza dell’umanità dipende dalla sua capacità di rispondere alle sfide poste dai disastri naturali, dalle catastrofi provocate dall’uomo, dallo sviluppo tecnologico e dai rapidi processi sociali, demografici e informativi.
Tutto questo è interconnesso e i cambiamenti avvengono in gran parte da soli, spesso, l’ho già detto, in modo imprevedibile, seguendo una propria logica e regole interne e, a volte, oserei dire, persino al di là della volontà e delle aspettative delle persone.
In una situazione del genere, l’umanità rischia di diventare superflua, un semplice osservatore di processi che non sarà mai in grado di controllare. Cos’è questa se non una sfida sistemica per tutti noi e un’opportunità per tutti noi di lavorare insieme in modo costruttivo?
Non ci sono risposte pronte, ma credo che la soluzione alle sfide globali richieda, in primo luogo, un approccio libero da pregiudizi ideologici e da pathos didascalici, del tipo «Ora ti dico cosa fare». In secondo luogo, è importante capire che si tratta di una questione veramente comune e indivisibile, che richiede sforzi congiunti di tutti i paesi e le nazioni.
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Ogni cultura e civiltà dovrebbe dare il suo contributo perché, ripeto, nessuno conosce la risposta giusta separatamente. Questa può essere generata solo attraverso una ricerca costruttiva congiunta, combinando – non separando – gli sforzi e le esperienze nazionali dei vari Paesi.
Vorrei ripeterlo ancora una volta: conflitti e collisioni di interessi sono esistiti e, naturalmente, rimarranno per sempre: la questione è come risolverli. Un mondo policentrico, come ho già detto oggi, è un ritorno alla diplomazia classica, quando la risoluzione richiede attenzione, rispetto reciproco, ma non coercizione.
La diplomazia classica era in grado di tenere conto delle posizioni dei diversi attori internazionali, della complessità del «concerto» composto dalle voci di diverse potenze. Tuttavia, a un certo punto, è stata sostituita dalla diplomazia di stampo occidentale, fatta di monologhi, interminabili prediche e ordini. Invece di risolvere i conflitti, alcune parti hanno iniziato a far prevalere i propri interessi egoistici, considerando gli interessi di tutti gli altri indegni di attenzione.
Non c’è da stupirsi che, invece di trovare una soluzione, i conflitti siano stati ulteriormente esacerbati, fino a trasformarsi in una sanguinosa fase armata che ha portato a un disastro umanitario. Agire in questo modo significa non riuscire a risolvere alcun conflitto. Gli esempi degli ultimi 30 anni sono innumerevoli.
Uno di questi è il conflitto palestinese-israeliano, che non può essere risolto seguendo le ricette di una diplomazia occidentale sbilanciata, che ignora grossolanamente la storia, le tradizioni, l’identità e la cultura dei popoli che vi abitano. Né contribuisce a stabilizzare la situazione in Medio Oriente in generale, che anzi sta rapidamente peggiorando. Ora stiamo conoscendo più approfonditamente le iniziative del Presidente Trump. Mi sembra che in questo caso si possa ancora intravedere una luce in fondo al tunnel.
Anche la tragedia ucraina ne è un esempio orribile. È un dolore per gli ucraini e i russi, per tutti noi. Le ragioni del conflitto ucraino sono note a chiunque si sia preso la briga di approfondire i retroscena della sua attuale, più acuta fase. Non le ripeterò. Sono certo che tutti in questo pubblico le conoscano bene, così come la mia posizione su questo tema, che ho già espresso più volte.
Anche un’altra cosa è ben nota. Coloro che hanno incoraggiato, incitato e armato l’Ucraina, che l’hanno spinta a inimicarsi la Russia, che per decenni hanno alimentato un nazionalismo dilagante e un neonazismo in quel Paese, francamente – mi si perdoni la franchezza – se ne sono fregati degli interessi della Russia o, se è per questo, dell’Ucraina. Non provano nulla per il popolo ucraino. Per loro – globalisti ed espansionisti in Occidente e i loro tirapiedi a Kiev – sono materiale sacrificabile. I risultati di un simile avventurismo sconsiderato sono sotto gli occhi di tutti, e non c’è nulla da discutere.
Sorge un’altra domanda: le cose sarebbero potute andare diversamente? Lo sappiamo anche noi, e torno a ciò che disse una volta il Presidente Trump. Disse che se fosse stato in carica allora, questo si sarebbe potuto evitare. Sono d’accordo. Anzi, si sarebbe potuto evitare se il nostro lavoro con l’amministrazione Biden fosse stato organizzato diversamente; se l’Ucraina non fosse stata trasformata in un’arma distruttiva nelle mani di qualcun altro; se la NATO non fosse stata usata a questo scopo mentre avanzava verso i nostri confini; e se l’Ucraina avesse infine preservato la sua indipendenza, la sua autentica sovranità.
C’è un’altra domanda. Come avrebbero dovuto essere risolte le questioni bilaterali russo-ucraine, che erano la naturale conseguenza della disgregazione di un vasto paese e di complesse trasformazioni geopolitiche? A proposito, credo che la dissoluzione dell’Unione Sovietica fosse legata alla posizione dell’allora leadership russa, che cercava di liberarsi dal confronto ideologico nella speranza che ora, con la fine del comunismo, saremmo diventati fratelli. Non è successo nulla del genere. Sono entrati in gioco altri fattori, sotto forma di interessi geopolitici. Si è scoperto che le differenze ideologiche non erano il vero problema.
Quindi, come si dovrebbero risolvere questi problemi in un mondo policentrico? Come si sarebbe affrontata la situazione in Ucraina? Credo che se ci fosse stata multipolarità, i diversi poli avrebbero, per così dire, messo alla prova il conflitto ucraino. Lo avrebbero misurato in base ai potenziali focolai di tensione e fratture nelle proprie regioni. In tal caso, una soluzione collettiva sarebbe stata molto più responsabile ed equilibrata.
L’accordo si sarebbe basato sulla consapevolezza che tutti i partecipanti a questa difficile situazione hanno interessi propri, fondati su circostanze oggettive e soggettive che semplicemente non possono essere ignorate. Il desiderio di tutti i Paesi di garantire sicurezza e progresso è legittimo. Senza dubbio, questo vale per l’Ucraina, la Russia e tutti i nostri vicini. I Paesi della regione dovrebbero avere un ruolo guida nella definizione di un sistema regionale. Hanno le maggiori possibilità di concordare un modello di interazione accettabile per tutti, perché la questione li riguarda direttamente. Rappresenta il loro interesse vitale.
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Per altri Paesi, la situazione in Ucraina è solo una carta da gioco in un gioco diverso, molto più ampio, un gioco a sé stante, che di solito ha poco a che fare con i problemi reali dei paesi coinvolti, incluso questo in particolare. È solo una scusa e un mezzo per raggiungere i propri obiettivi geopolitici, per espandere la propria area di controllo e per trarre profitti dalla guerra. Ecco perché hanno portato le infrastrutture della NATO fino alla nostra porta, e da anni guardano con faccia seria alla tragedia del Donbass e a quello che è stato essenzialmente un genocidio e uno sterminio del popolo russo sulla nostra terra storica, un processo iniziato nel 2014 sulla scia di un sanguinoso colpo di stato in Ucraina.
In contrasto con tale condotta dimostrata dall’Europa e, fino a poco tempo fa, dagli Stati Uniti sotto la precedente amministrazione, si distinguono le azioni dei paesi appartenenti alla maggioranza mondiale. Si rifiutano di schierarsi e si impegnano sinceramente per contribuire a stabilire una pace giusta. Siamo grati a tutti gli stati che negli ultimi anni si sono sinceramente impegnati per trovare una via d’uscita dalla situazione.
Tra questi figurano i nostri partner, i fondatori dei BRICS: Cina, India, Brasile e Sudafrica. Tra questi rientrano anche la Bielorussia e, tra l’altro, la Corea del Nord. Sono nostri amici nel mondo arabo e islamico, soprattutto Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Egitto, Turchia e Iran. In Europa, tra questi figurano Serbia, Ungheria e Slovacchia. E molti altri paesi simili si trovano in Africa e America Latina.
Purtroppo, le ostilità non sono ancora cessate. Tuttavia, la responsabilità non ricade sulla maggioranza per non essere riuscita a fermarle, bensì sulla minoranza, in primo luogo l’Europa, che continua ad aggravare il conflitto – e a mio avviso, oggi non si intravede alcun altro obiettivo. Ciononostante, credo che la buona volontà prevarrà e, a questo proposito, non c’è il minimo dubbio: credo che anche in Ucraina si stiano verificando dei cambiamenti, seppur graduali – lo stiamo vedendo. Per quanto le menti delle persone possano essere state manipolate, si stanno comunque verificando dei cambiamenti nella coscienza pubblica, e in effetti nella stragrande maggioranza delle nazioni del mondo.
In effetti, il fenomeno della maggioranza globale rappresenta una novità negli affari internazionali. Vorrei spendere qualche parola anche su questo argomento. Qual è la sua essenza? La stragrande maggioranza degli Stati in tutto il mondo è orientata al perseguimento dei propri interessi di civiltà, tra cui spicca il loro sviluppo equilibrato e progressivo. Sembrerebbe naturale: è sempre stato così. Ma in epoche precedenti, la comprensione di questi stessi interessi è stata spesso distorta da ambizioni malsane, egoismo e dall’influenza di un’ideologia espansionistica.
Oggi, la maggior parte dei Paesi e dei popoli – proprio questa maggioranza globale – riconosce i propri veri interessi. Fondamentalmente, ora sentono la forza e la fiducia necessarie per difenderli dalle pressioni esterne – e aggiungerò che, nel promuovere e difendere i propri interessi, sono pronti a collaborare con i partner, trasformando così le relazioni internazionali, la diplomazia e l’integrazione in fonti di crescita, progresso e sviluppo. Le relazioni all’interno della maggioranza globale rappresentano un prototipo delle pratiche politiche essenziali ed efficaci in un mondo policentrico.
Questo è pragmatismo e realismo: un rifiuto della filosofia dei blocchi, un’assenza di obblighi rigidi, imposti dall’esterno, o di modelli che prevedano partner senior e junior. Infine, è la capacità di conciliare interessi che raramente si allineano completamente, ma che raramente si contraddicono fondamentalmente. L’assenza di antagonismo diventa il principio guida.
Ora sta sorgendo una nuova ondata di decolonizzazione, poiché le ex colonie stanno acquisendo, oltre alla sovranità statale, anche quella politica, economica, culturale e di visione del mondo.
Un’altra data è importante a questo proposito. Abbiamo recentemente celebrato l’80° anniversario dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Non è solo un’organizzazione politica universale e la più rappresentativa al mondo, ma anche un simbolo dello spirito di cooperazione, alleanza e persino fratellanza combattiva, che ci ha aiutato a unire le forze nella prima metà del secolo scorso nella lotta contro il peggior male della storia: una spietata macchina di sterminio e schiavitù.
Il ruolo decisivo nella nostra comune vittoria sul nazismo, di cui andiamo fieri, è stato ovviamente svolto dall’Unione Sovietica. Basta dare un’occhiata al numero di vittime per ciascun membro della coalizione anti-Hitler per capirlo.
L’ONU è l’eredità della vittoria nella Seconda Guerra Mondiale e, finora, l’esperienza di maggior successo nella creazione di un’organizzazione internazionale volta a risolvere gli attuali problemi globali.
Si dice spesso, ormai, che il sistema delle Nazioni Unite sia paralizzato e stia attraversando una crisi. È diventato un luogo comune. Alcuni sostengono addirittura che sia ormai superato e che dovrebbe essere quantomeno radicalmente riformato. Sì, ci sono molte, moltissime carenze nelle operazioni delle Nazioni Unite. Eppure, finora non c’è stato nulla di meglio delle Nazioni Unite, e dobbiamo ammetterlo.
In realtà, il problema non è l’ONU, che ha un potenziale immenso. Il problema sta nel modo in cui noi, le Nazioni Unite che si sono disunite, stiamo utilizzando questo potenziale.
Non c’è dubbio che l’ONU debba affrontare delle sfide. Come qualsiasi altra organizzazione, dovrebbe adattarsi alle mutevoli realtà. Tuttavia, è estremamente importante preservare l’essenza fondamentale dell’ONU durante la sua riforma e il suo ammodernamento, non solo l’essenza che era insita in essa fin dalla sua nascita, ma anche l’essenza che ha acquisito nel complesso processo del suo sviluppo.
Vale la pena ricordare a questo proposito che il numero degli Stati membri delle Nazioni Unite è quasi quadruplicato dal 1945. Negli ultimi decenni, l’organizzazione, istituita su iniziativa di diversi grandi Paesi, non solo si è ampliata, ma ha anche assorbito numerose culture e tradizioni politiche diverse, acquisendo diversità e diventando una struttura realmente multipolare molto prima che il mondo diventasse multipolare. Il potenziale del sistema delle Nazioni Unite ha appena iniziato a manifestarsi e sono fiducioso che questo processo si completerà molto rapidamente nella nuova era che si sta delineando.
In altre parole, i paesi della maggioranza globale costituiscono ormai una maggioranza schiacciante presso l’ONU e la sua struttura e i suoi organi di governo dovrebbero quindi essere adattati a questo fatto, il che sarebbe anche molto più in linea con i principi fondamentali della democrazia.
Non lo nego: oggi non esiste un consenso unanime su come il mondo dovrebbe essere organizzato, su quali principi dovrebbe basarsi negli anni e nei decenni a venire. Siamo entrati in un lungo periodo di ricerca, spesso procedendo per tentativi ed errori. Quando un nuovo sistema stabile prenderà finalmente forma – e quale sarà la sua struttura – rimane un mistero. Dobbiamo essere pronti al fatto che, per un periodo considerevole, lo sviluppo sociale, politico ed economico sarà imprevedibile, a volte persino turbolento.
Per rimanere sulla rotta giusta e non perdere l’orientamento, tutti hanno bisogno di solide basi. A nostro avviso, queste basi sono, soprattutto, i valori maturati nel corso dei secoli all’interno delle culture nazionali. Cultura e storia, norme etiche e religiose, geografia e spazio: questi sono gli elementi chiave che plasmano civiltà e comunità durature. Definiscono l’identità nazionale, i valori e le tradizioni, fornendoci la bussola che ci aiuta a resistere alle tempeste della vita internazionale.
Le tradizioni sono sempre uniche; ogni nazione ha le sue. Il rispetto delle tradizioni è la prima e più importante condizione per relazioni internazionali stabili e per risolvere le sfide emergenti.
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Il mondo ha già vissuto tentativi di unificazione, di imporre modelli cosiddetti universali che si scontravano con le tradizioni culturali ed etiche della maggior parte dei popoli. L’Unione Sovietica una volta commise questo errore imponendo il suo sistema politico – lo sappiamo e, francamente, non credo che nessuno lo contesterebbe. In seguito gli Stati Uniti raccolsero il testimone, e anche l’Europa ci provò. In entrambi i casi, fallì. Ciò che è superficiale, artificiale, imposto dall’esterno non può durare. E chi rispetta le proprie tradizioni, di regola, non invade quelle degli altri.
Oggi, sullo sfondo dell’instabilità internazionale, si attribuisce particolare importanza alle fondamenta dello sviluppo di ogni nazione: quelle che non dipendono dalle turbolenze esterne. Vediamo paesi e popoli rivolgersi a queste radici. E questo sta accadendo non solo nella maggioranza globale, ma anche nelle società occidentali. Quando ognuno si concentra sul proprio sviluppo senza inseguire ambizioni inutili, diventa molto più facile trovare un terreno comune con gli altri.
Ad esempio, possiamo guardare alla recente esperienza di interazione tra Russia e Stati Uniti. Come sapete, i nostri Paesi hanno molti disaccordi; le nostre opinioni su molti dei problemi mondiali differiscono. Ma questo non è insolito per le grandi potenze; anzi, è assolutamente naturale. Ciò che conta è come risolvere questi disaccordi e se riusciremo a risolverli pacificamente.
L’attuale amministrazione della Casa Bianca è molto schietta riguardo ai propri interessi, dichiarando ciò che vuole direttamente – a volte anche bruscamente, come sono certo concorderete – ma senza inutili ipocrisie. È sempre preferibile essere chiari su ciò che l’altra parte vuole e cosa sta cercando di ottenere. È meglio che cercare di indovinare il vero significato dietro una lunga serie di equivoci, linguaggio ambiguo e vaghi accenni.
Possiamo constatare che l’attuale amministrazione statunitense è guidata principalmente dai propri interessi nazionali, così come li intende. E credo che questo sia un approccio razionale.
Ma poi, se mi permettete, la Russia ha anche il diritto di essere guidata dai propri interessi nazionali. Uno dei quali, tra l’altro, è il ripristino di relazioni pienamente consolidate con gli Stati Uniti. A prescindere dai nostri disaccordi, se due parti si trattano con rispetto, i loro negoziati – anche quelli più difficili e ostinati – saranno comunque volti a trovare un terreno comune. E questo significa che alla fine si potranno raggiungere soluzioni reciprocamente accettabili.
Multipolarità e policentrismo non sono solo concetti; sono una realtà destinata a durare. Quanto presto e con quanta efficacia potremo costruire un sistema mondiale sostenibile in questo contesto dipende ora da ciascuno di noi. Questo nuovo ordine internazionale, questo nuovo modello, può essere costruito solo attraverso sforzi universali, un’impresa collettiva a cui tutti partecipano. Voglio essere chiaro: l’era in cui un gruppo selezionato di potenze più forti poteva decidere per il resto del mondo è finita, ed è finita per sempre.
Questo è un punto che ricorderanno soprattutto coloro che provano nostalgia per l’epoca coloniale, quando era consuetudine dividere i popoli tra coloro che erano uguali e coloro che erano, per usare la famosa frase di Orwell, «più uguali degli altri». Conosciamo tutti questa citazione.
La Russia non ha mai preso in considerazione questa teoria razzista, non ha mai condiviso questo atteggiamento nei confronti di altri popoli e culture, e non lo faremo mai.
Noi rappresentiamo la diversità, la polifonia, una vera sinfonia di valori umani. Il mondo, come sono certo concorderete, è un luogo noioso e incolore quando è monotono. La Russia ha avuto un passato molto turbolento e difficile. La nostra stessa statualità è stata forgiata attraverso il continuo superamento di colossali sfide storiche.
Non intendo insinuare che altri Stati si siano sviluppati in condizioni di serra – ovviamente no. Eppure, l’esperienza della Russia è unica sotto molti aspetti, così come lo è il paese che ha creato. Sia chiaro: questa non è una pretesa di eccezionalità o superiorità; è semplicemente una constatazione di fatto. La Russia è un Paese unico.
Abbiamo attraversato numerosi sconvolgimenti tumultuosi, ognuno dei quali ha offerto al mondo spunti di riflessione su una vasta gamma di questioni, sia negative che positive. Ma è proprio questo bagaglio storico che ci ha preparati meglio alla situazione globale complessa, non lineare e ambigua in cui ci troviamo tutti ora.
Attraverso tutte le sue prove, la Russia ha dimostrato una cosa: è stata, è e sarà sempre. Sappiamo che il suo ruolo nel mondo sta cambiando, ma rimane invariabilmente una forza senza la quale la vera armonia e il vero equilibrio sono difficili – e spesso impossibili – da raggiungere. Questo è un fatto provato, confermato dalla storia e dal tempo. È un fatto incondizionato.
Nel mondo multipolare odierno, questa stessa armonia ed equilibrio possono essere raggiunti solo attraverso uno sforzo comune e congiunto. E voglio assicurarvi oggi che la Russia è pronta per questo compito.
Grazie mille. Grazie.
Vladimir Vladimirovich Putin
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