Pensiero
Mons. Viganò: Messaggio alle Forze dell’Ordine

Renovatio 21 pubblica questo messaggio di Mons. Carlo Maria Viganò.
Messaggio
di Mons. Carlo Maria Viganò, Arcivescovo e Nunzio Apostolico
alle Forze dell’Ordine
Ciascuno di voi, cari fratelli delle Forze dell’Ordine, ha prestato giuramento all’inizio del proprio incarico, e ad ogni promozione esso è stato da voi rinnovato con la convinzione di chi è consapevole del proprio ruolo in difesa della Legge e del bene comune.
Questo giuramento si fonda su valori antichi, quali l’onore e il rispetto della parola data, chiamando Dio a vostro testimone. Ma nel giurare fedeltà alla Costituzione, come in passato si giurava fedeltà al Re, voi non vi siete privati delle vostre facoltà: rimanete esseri pensanti, dotati di un intelletto e di una volontà, in grado di discernere il bene dal male, poiché è questo che fa di voi degli esseri umani e non degli automi.
In questi due anni, come tutti i cittadini, avete assistito ad un colpo di stato globale, progettato e realizzato col pretesto di una pandemia, nel quale i più elementari principi del diritto, della scienza e dell’etica professionale sono stati calpestati impunemente da persone che, come voi, avevano giurato: i governanti e i magistrati, di rispettare le leggi naturali e positive per il bene della Patria; i medici, di curare i malati e adoperarsi per salvare loro la vita; i giornalisti, di divulgare la verità.
Dinanzi a quanto vediamo accadere in tutto il mondo, comprendiamo quanti abbiano tradito il giuramento prestato, quanti abbiano rinnegato gli impegni assunti, quanti si siano dimostrati corrotti e asserviti al potere.
Ora molti di voi, che nella fase iniziale dell’emergenza erano rimasti disorientati dall’incoerenza e dalla contraddittorietà delle informazioni, dei decreti, dei provvedimenti nominalmente volti al contenimento del contagio, hanno compreso di essere stati usati come strumenti di repressione delle legittime proteste dei cittadini, come se non aveste anche voi dei genitori anziani ricoverati in ospedale, dei figli che non possono frequentare le scuole, dei parenti privati del lavoro a causa della loro libera e legittima decisione di non sottoporsi all’inoculazione del siero genico sperimentale.
Vi hanno usati come automi, pensando che foste disposti a un’obbedienza cieca e irrazionale verso un potere sempre più autoritario, repressivo e tirannico.
Nessuno vi ha chiesto cosa pensaste dell’assurdità di certi decreti, né se foste disposti a calpestare la Costituzione per eseguire ordini che hanno come solo scopo quello di distruggere il tessuto sociale, morale ed economico della Nazione.
Nessuno ha tenuto in considerazione il vostro senso di frustrazione nel vessare i vostri concittadini per le ragioni più assurde, esponendo voi e il Corpo che rappresentate al disprezzo delle persone oneste, colpevoli di non volersi sottoporre a una vaccinazione di massa sperimentale di cui iniziamo a vedere i risultati devastanti. E mentre eravate impegnati a multare l’anziana disabile o lo studente senza mascherina; mentre disperdevate la folla dei manifestanti con gli idranti e gli operai licenziati con i manganelli, i criminali erano deliberatamente lasciati liberi di rubare, aggredire, violentare gli Italiani.
Quante volte, mentre imponete il rispetto di regole illegittime e incostituzionali, vi siete sentiti rimproverare per questo tradimento del vostro ruolo e del giuramento che avete fatto?
E quante volte avete pensato che le proteste dei cittadini erano giustificate, così come è giustificata la delusione che essi provano nel vedervi eseguire ordini degni di un regime totalitario?
Quante volte avreste voluto dire loro: «Sono dalla vostra parte, la penso come voi, mi vergogno di ciò che mi è stato ordinato»?
Molti di voi, liberamente e in conformità col diritto naturale e con le leggi vigenti, hanno scelto di non essere vaccinati: la vostra libera scelta vi ha privati del lavoro e della retribuzione; altri sono stati emarginati e costretti a consumare i pasti sui gradini della Questura o all’esterno della caserma; molti hanno ceduto, sotto la pressione psicologica dei superiori e dei colleghi, al ricatto infame di chi ha deciso, contro la Costituzione e le convenzioni internazionali, di discriminare una parte della popolazione.
Era questo che vi sareste aspettati, quando in alta uniforme avete gridato «Lo giuro», all’inizio della vostra carriera?
Oggi questo colpo di stato, la cui evidenza è provata dalla premeditazione del disegno criminale in tutto il mondo e da un unico copione sotto un’unica regia, sembra vacillare in molti Stati; in Italia, dove un governo non eletto tradisce impunemente le basi del vivere civile e del diritto nel silenzio dei magistrati, i cittadini sono ostaggio di un’autorità autoreferenziale asservita a poteri sovranazionali e che agisce contro il popolo, impossibilitato a opporre resistenza alla sopraffazione e indifeso dalle Forze dell’Ordine, anzi da queste ulteriormente oppresso e punito.
Questa ingiustizia grida vendetta al cospetto di Dio e chiede una presa di posizione netta e determinata. Il silenzio, l’obbedienza cieca-pronta-assoluta, il rispetto delle regole per quieto vivere o per paura di ritorsioni non può costituire una giustificazione al protrarsi di una situazione ormai insostenibile. Ricordatevi di Norimberga, e di quanto sia valso ai condannati il giustificarsi con «eseguivo gli ordini».
Vi esorto tutti, cari fratelli delle Forze dell’Ordine, a ricordarvi che non siete automi, come qualcuno vorrebbe farvi credere; che non siete droni senz’anima nelle mani di sconsiderati e traditori della Patria.
Siete persone capaci di gesti eroici, siete professionisti che hanno dedicato la propria vita alla difesa degli onesti e alla repressione del crimine, siete Cristiani che nel servizio della comunità devono conquistare il Cielo e diventare santi.
Pensate ai vostri colleghi che, in epoche che credevamo lontane, hanno saputo dire di no agli abusi e alla violenza della dittatura, rifiutandosi di collaborare con un potere tirannico nel perseguitare e discriminare i propri concittadini, anche a prezzo della loro vita.
Pensate agli atti eroici dei vostri compagni contro il crimine organizzato, e a quale sarebbe il loro giudizio sul vostro operato di oggi, sulla vostra connivenza a norme assurde e illegittime.
Pensate al discredito che il vostro comportamento getta sulla vostra immagine, e chiedetevi se esso non sia voluto da chi, invocando l’istituzione di un esercito europeo, cerca di destabilizzare la sicurezza nazionale e di indebolire le istituzioni ad essa preposte.
Perché è evidente che, nella perpetua rivoluzione imposta dall’alto, la distruzione dell’autorità inizia proprio nel renderla odiosa alle masse, nell’utilizzarla contro i cittadini e non contro i criminali, nello screditarla agli occhi degli onesti.
Tra le vostre fila, in grandissima maggioranza, vi sono persone oneste a cui noi tutti guardiamo con rispetto e con gratitudine. Ricordatevi del giuramento prestato, della parola data, dell’onore di servire la Patria e soprattutto del giudizio di Dio, che vi chiederà conto di ciò che avete fatto come servitori dello Stato, come rappresentanti delle Forze dell’Ordine, come Cristiani.
Ricevete la mia paterna Benedizione, con la speranza che sappiate ritrovare l’orgoglio della vostra professione e la pace che potrete avere solo compiendo il bene e operando per la giustizia.
+ Carlo Maria Viganò
Arcivescovo
29 Gennaio 2022
Pensiero
Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.
Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.
Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…
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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.
L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.
Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)
Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)
Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.
È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.
Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).
Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.
A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.
Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.
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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.
Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.
Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.
Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.
La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).
Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)
Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.
Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).
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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.
La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.
La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.
Roberto Dal Bosco
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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic
Bizzarria
Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese


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Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0






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Geopolitica
«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».
Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.
«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».
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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».
Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».
L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».
L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».
La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».
«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».
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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.
Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».
Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.
Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.
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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)
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