Bizzarria
La polizia smantella una falsa ambasciata vicino a Nuova Delhi

La polizia della città indiana di Ghaziabad, nei pressi di Nuova Delhi, ha arrestato un uomo di 45 anni che sosteneva di essere l’ambasciatore di una serie di nazioni inesistenti.
Harsh Vardhan Jain si è presentato come un «diplomatico giramondo» e ambasciatore o console dei falsi paesi di West Arctica, Poulvia, Lodonia e Saborga (che non è chiaro se si tratti di una storpiatura di Seborga, località ligure dove da decadi vi sono aspirazioni al separatismo micronazionale) ha detto giovedì ai media locali un funzionario della task force speciale di polizia dello Stato indiano dell’Uttar Pradesh.
Secondo il quotidiano Indian Express, una piccola targa dorata su una casa in affitto lo descriveva come «Sua Eccellenza Harsh Vardhan Jain, Royale Consigliere, Principato di Seborga», sostenendo di essere il «Consigliere Reale» di Seborga, una micronazione nella provincia italiana della Liguria non riconosciuta dalla comunità internazionale.
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Il balcone e il tetto della casa esponevano bandiere finte, tra cui una con una croce bianca su sfondo blu e un’altra con una corona reale e uno scudo, aggiunge il giornale.
La polizia sostiene che Jain abbia messo in atto una truffa sofisticata dall’edificio a due piani, utilizzando documenti falsi e sostenendo di avere contatti internazionali.
La task force di polizia ha sequestrato quattro veicoli con targhe diplomatiche, altre 20 targhe false, 12 passaporti diplomatici falsi, timbri e sigilli con false credenziali del ministero degli Esteri indiano e altri documenti. È stato inoltre recuperato denaro contante, composto da 5.200 dollari in valuta indiana, 17.000 euro, 14.000 dollari e 5.200 sterline, tra le altre valute.
L’elaborata macchinazione di Jain, che includeva foto manipolate che lo ritraevano con leader mondiali, sarebbe stata utilizzata negli ultimi due anni per ingannare uomini d’affari e riciclare denaro.
Secondo quanto riportato dai media locali, Jain ha sfruttato il suo presunto status diplomatico per guadagnarsi la fiducia degli imprenditori, promettendo loro l’accesso ai mercati globali e gestendo una rete illecita di riciclaggio di denaro attraverso società fittizie.
Secondo l’Hindustan Times, la falsa ambasciata è stata operativa per sette anni.
BIG 🚨: Fake Embassy being run in Ghaziabad, Uttar Pradesh of India has been busted by UP STF.
How he managed to CREATE new countries and made people even believe it to be true is BEYOND my comprehension! pic.twitter.com/rJbPAQ93eS
— Priyanshi Bhargava (@PriyanshiBharg7) July 23, 2025
🚨🔵BREAKING: Fake Embassy Busted Near Delhi :- UP STF (Noida Unit) has busted a fake embassy operating from a rented house in Kavinagar, Ghaziabad pic.twitter.com/872vaWDnpF
— THE UNKNOWN MAN (@Theunk13) July 23, 2025
Indian police arrest man accused of running bogus embassy from rented residential building near capital, New Delhi, and recover cars with fake diplomatic plates pic.twitter.com/IWh7e8UtPc
— TRT World Now (@TRTWorldNow) July 24, 2025
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Non si tratta del primo incredibile caso di autorità fasulla che mette radici in una città indica.
Come riportato da Renovatio 21, tre anni fa le autorità della città indiana di Banka arrestarono una banda che gestiva una falsa stazione di polizia nello Stato del Bihar. La polizia, quella vera, affermò quindi che i suoi imitatori sono riusciti a estorcere denaro a centinaia di persone durante una eccezionale truffa durata quasi otto mesi.
Secondo il vero capo della polizia di Banka Shambhu Yadav, i falsi policemen avevano aperto una sede all’interno di un hotel a soli 500 metri dall’attuale stazione di polizia della città. Apparentemente la banda è riuscita a ingannare tutti indossando uniformi dall’aspetto autentico e portando vere armi da fuoco.
I funzionari affermarono che il gruppo ha gestito la truffa sfruttando la gente del posto che è entrata nella stazione falsa per presentare reclami e casi. I criminali-poliziotti avevano anche preso soldi da persone a cui avevano promesso di aiutare a garantire un alloggio sociale o di trovare un lavoro nelle forze di polizia. Secondo quanto riferito, il gruppo richiedeva pagamenti fino a 70.000 rupie, equivalenti a circa 900 euro, per «commissioni».
Sempre in termini di nazioni inesistenti di matrice indiana, va ricordato assolutamente il caso del ministro dell’Agricoltura del Paraguay, il quale aveva licenziato il suo capo di gabinetto, Arnaldo Chamorro, dopo che era stato firmato un memorandum d’intesa con gli «Stati Uniti del Kailasa» (USK), un Paese inesistente retto da un guru indiano.
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Nel memorandum firmato il Chamorro riconosceva come sovrano anche il «Supremo Pontefice indù Nithyananda Paramashivam». Secondo i media paraguagi, quest’ultimo è un guru indù, autoproclamato dio, ricercato in India per reati sessuali e rapimenti, e per questo fuggito all’estero dove ha fondato l’immaginaria nazione induista, che secondo quanto dicono ha bandiera, passaporti e pure una Banca Centrale (!).
In passato vi erano state voci sull’acquisto da parte del guru di un’isola al largo della costa dell’Ecuador e quindi la sua nazione si troverebbe effettivamente in una delle isole ecuadoriane. Tuttavia, l’amministrazione ecuadoriana poco dopo aveva confermato che tale Paese non esiste. Più recentemente, l’USK aveva affermato di fungere da nazione per la sua popolazione di «due miliardi di indù».
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Immagine screenshot da Twitter
Bizzarria
La polizia di Nuova York sgombra Macron per far passare il corteo di Trump. Presidente francese a piedi

Priceless: Police in New York stops Macron’s car, because the street is closed for Trump’s convoy.
Macron calls Trump to allow him to pass, but Trump humiliates Macron and tells him to walk instead, which he does 🤣 pic.twitter.com/K1cnWUOBrB — Dr. Eli David (@DrEliDavid) September 23, 2025
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Secondo quanto riferito, il presidente francese ha dovuto attendere diversi minuti e poi ha proseguito a piedi verso l’ambasciata. Si dice che Trump abbia fornito il suo numero di telefono privato a leader stranieri per incoraggiare chiamate e messaggi diretti. Politico ha osservato a luglio che Macron era tra coloro che avevano contatti regolari. L’episodio può far ricordare quando, ad un UNGA del 2019 (la volta che ringhiò «How dare you…»), in una sala del Palazzo di vetro un’attonita Greta Thunberga fu messa da parte per far passare Donald Trump e la sua scorta.French President Macron phoned US President Trump after being stopped at a New York street blocked off for his US counterpart’s motorcade during the United Nations General Assembly pic.twitter.com/dIk13aIu7I
— Reuters (@Reuters) September 23, 2025
Un’immagine indelebile. Quasi quanto quella di Greta, cresciuta e inserita nella flottilla pro-palla, con look stile He-Man. Va detto pure che a Jair Messias Bolsonaro, giunto a Nuova York per l’UNGA 2021, andò peggio: con la città blindata dal green pass, il presidente del Brasile, non munito (e ostile al vaccino) fu costretto a mangiare un trancio di pizza con i collaboratori per strada.I will never forget the look on Greta Thunberg’s face after Trump passed near her in 2019. pic.twitter.com/aj5HFRyBoZ
— Defiant L’s (@DefiantLs) October 24, 2024

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Bizzarria
Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese

Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).
La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.
Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.
Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.
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Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0
Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.
Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.
Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.
Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.
Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.
Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».
La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…
Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.
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L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).
Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.
L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.
Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.
Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.
Taro Negishi
Corrispondete di Renovatio 21 da Tokyo
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Immagine di Mr.ちゅらさん via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International; immagine tagliata
Bizzarria
Chirurgo del servizio sanitario pubblico britannico si è fatto amputare le gambe per «gratificazione sessuale»

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