Pensiero
La marcia della Wagner su Kiev e la macchina che crea la realtà
Ci ho pensato a lungo, come tutti. Chiunque conservi un po’ di attenzione per la cronaca, e un minimo di scetticismo sulle narrazioni ufficiali, si è ritrovato, magari in ora tarda, a tentare di rispondersi alla domanda: l’intera rivolta della Wagner è stata una scenata.
Un po’ lo ho scritto nell’articolo precedente, quello sul «golpe gobbo» alla wagnerita.
Potrebbe essere una grande maskirovka, come da dottrina militare russa del XX secolo. La parola inizialmente significava semplicemente il camuffamento di mezzi e truppe, per poi andare a significare, più ampiamente tutte le manovre di inganno condotte sul nemico: esche, disinformazione, manipolazioni di ogni tipo.
Già nel 1944 L’Enciclopedia militare sovietica definiva la maskirovka come costituita dai «mezzi per garantire le operazioni di combattimento e le attività quotidiane delle forze; una complessità di misure, dirette a fuorviare il nemico riguardo alla presenza e alla disposizione delle forze». Esempi di maskirovka sarebbero riscontrabili nella battaglia di Stalingrado, nella battaglia di Kursk (1943), nella crisi cubana dei missili (quando Kennedy ordinò il blocco navale, ma testate atomiche sovietiche erano già sull’isola di Castro) e, qualcuno sostiene, durante l’annessione della Crimea, quando comparvero quelli che chiamarono «gli omini verdi», mentre Mosca negava ogni coinvolgimento.
Nelle ultime ore quantità di personaggi del fandom incondizionato di Vladimir Putin ha optato ciecamente per la versione della maskirovka, che ancora una volta dimostrerebbe la superpotenza strategica del personaggio. I mistici putiniani dicono che si tratta solo di una grande manovra, un colpo da maestro per portare truppe in Bielorussia.
Sarà vero? Potrebbe esserlo.
Partiamo dal fatto che dell’evento scatenante, cioè l’attacco contro la Wagner condotto dall’aviazione russa, non si sono avute immagini, ma solo i famosi tre audio di Prigozhin usciti venerdì sera, poche ore prima che occupasse il quartier generale militare di Rostov. Se sono usciti nel frattempo documenti visivi dell’attacco non lo sappiamo, ma lì per lì abbiamo considerato la cosa bizzarra: il Wagner boss ama le telecamere, e negli ultimi mesi non si tirato indietro mai quando c’era da farsi riprendere con fondali incredibili ed indicativi, cioè in ambienti che dicevano tutto: eccolo che insulta Shoigu e Gerasimov mostrando i cadaveri freschi dei suoi combattenti, eccolo che porta mandarini ai prigionieri ucraini, eccolo con alle spalle Bakhmut che chiede la resa di Zelens’kyj, eccolo che sfida il presidente ucraino mentre vola con un MiG, eccolo che si fa fotografare nelle tenebre di una miniera di sale…
Stavolta, invece, niente video. Solo audio. I media russi hanno usato l’assenza di video per smontare l’accusa dei bombardamenti; a noi sembra invece altro.
Ma allora, hanno finto tutto? Da certe scene viste in giro, verrebbe da pensarlo: lo spazzino che continua il suo lavoro tra i carrarmati, senza percepire minimamente la tensione del momento. La folla che acclama i wagneriani, i genitori che danno ai mercenari i bambini perché facciano la foto sul tank, Prigozhin che lascia tra selfie e strette di mano di folle di giovani in visibilio.
C’è la faccenda dei velivoli abbattuti, però: sono sei elicotteri e un grande aereo da trasporto. Hanno parlato di 15 piloti morti. Questa, in teoria, è la prova che non si tratta neanche lontanamente di una scenata. In realtà, abbiamo visto qualche video o qualche foto dei mezzi abbattuti, ma niente di dirimente. E verificare è, ovviamente, impossibile. Possibile cedere all’ipotesi, invero dal cospicuo sapore complottista, per cui gli aerei abbattuti sarebbero state simulazioni, parti integranti della maskirovka?
È un pensiero che abbiamo paura a fare. Tuttavia, è il momento di ricordare al lettore che egli con probabilità ha già veduto, nel corso della propria esistenza, un’altra maskirovka, e di proporzioni molto, molto maggiori: l’11 settembre 2001?
Ricordate? Degli aerei di linea centrarono perfettamente le due Torri di Nuova York: a pilotarli, in una manovra che riuscirebbe sì e no ad un Top Gun, dei sauditi che avevano malamente cercato di imparare i rudimenti del volo con dei CESSNA ad elica nelle settimane precedenti, tutti personaggi peraltro, è stato confermato di recente, che erano nelle liste dei controllati dei servizi americani.
Ebbene, le Twin Tower cascano verticalmente su loro stesse, e per soprammercato cade pure un palazzo limitrofo, la Torre 7, così, senza essere colpito nemmeno da un aereo di carta. Chi scrive ricorda di averlo visto in diretta, e sul momento non c’era da cercare tante spiegazioni, al massimo avrebbero detto poi cosa era stato a cagionarne il crollo. Così, lo sapete, non è stato…
Ora, non vogliamo tornare sui dettagli dell’11 settembre, una storia che quasi è oramai sepolta dalla storia e dai nostri cuori oberati dalle mille altre catastrofi delle ultime due decadi.
Tuttavia, vale la pena di ricordare cosa seguì all’atto megaterrorista del World Trade Center: trilioni di dollari vennero spostati verso il budget della Difesa americana, guerre sanguinarie ed inutili vennero combattute in Asia, dove perirono forse uno o forse due milioni di locali, con diaspore lancinanti (quella dei cristiani, ad esempio, spariti dall’Iraq) e creazioni di mostri ulteriori come l’ISIS e il nuovo Emirato d’Afghanistan.
Insomma, se era una mascherata, ha funzionato: le operazioni sono andate avanti come volevano i padroni del mondo, che spesso sono molto disinteressati degli effetti finali, e soprattutto del costo in termini di vite umane.
E quale era il fine a breve termine, quindi? Cosa c’era in gioco? Semplice: con la dimostrazione del suo potere distruttivo, l’America definiva una volta per tutte l’assetto unipolare del pianeta. Avrebbe comandato Washington, nella libertà di distruggere qualsiasi Paese e prenderne le risorse per sé e i suoi vassalli sviluppati, come previsto dalla purtroppo mai abbastanza citata dottrina Rumsfeld-Cebrowski.
Mi preme a questo punto ricordare la posizione espressa da un anonimo alto funzionario americano durante il lancio delle guerre post-9/11, che si espresse con parole terribili e visionarie.
Uscì nel 2004 un articolo sul New York Times Magazine, dove il giornalista premio Pulitzer Ron Suskind faceva parlare questa allora anonima figura dell’amministrazione Bush.
«Siamo un impero ora, e quando agiamo, creiamo la nostra realtà» diceva il personaggio. «E mentre studiate quella realtà, con giudizio, come volete, noi agiremo di nuovo, creando altre nuove realtà, che potete studiare anche voi ed è così che le cose si sistemeranno. Siamo gli attori della storia… e voi, tutti voi, sarete lasciati solo a studiare quello che facciamo»
In pratica, gli USA imperiali avevano ottenuto la macchina della realtà. Non si trattava più di conquistare il mondo, da di creare direttamente l’universo in cui vivono gli uomini, e poi ricrearlo, e crearne altri ancora.
Le Torri Gemelle, e la devastazione globale che ne seguì, avevano fornito allo Stato profondo americano strumenti di onnipotenza. Così almeno pensava il personaggio, che, sarebbe poi emerso, altri non era se non Karl Rove, fedelissimo dei Bush e vice capo dello staff di Dubya, neocon che ancora vediamo ad abundantiam su Fox News. Per intenderci: fu lui ad avvertire George Bush dell’attacco alle Twin Tower mentre il presidente si trovava in visita ad una scuola elementare della Florida.
A questo punto ci viene alla mente, per riflesso chirale, un’altra figura, in Russia però. Vladislav Surkov è oggi considerato un personaggio fuori dai giochi. Tre lustri fa, o più, uno stilista russo mi fece per la prima volta il suo nome, in una conversazione il cui tema erano le figure che davvero hanno potere in Russia. «È un oligarca?» chiesi. «No, è molto di più. È una specie di mago. E pure si diverte». Surkov è uno dei nomi sparati da Prigozhin negli ultimi giorni nelle sue tirate populiste contro i gerarchi moscoviti che si sono arricchiti in questi anni. È stato vicepremier di Medvedev, e assistente del presidente Putin dal 2013 al 2020.
Appassionato di musica hip hop e di arte astratta (teorizza l’inesistenza della libertà democratica, ma la verità della «libertà artistica»), oggetto di sanzioni americane da un decennio e oltre, Surkov, il «Karl Rove di Putin», è anagraficamente di origine cecena, parente, a quanto dice, di Dzhokar Dudaev, il primo presidente della Repubblica separatista di Ichkeria, assassinato da due missili a guida laser mentre parlava al telefono satellitare nel 1996: al film non manca davvero niente.
Molti chiamano Surkov una sorta di demiurgo in grado di plasmare la realtà secondo i suoi disegni, precisi quanto apparentemente incoerenti.
«Il suo scopo è minare la percezione del mondo da parte delle persone, in modo che non sappiano mai cosa sta realmente accadendo» dice il cineasta britannico Adam Curtis in un suo articolo del 2014. «Surkov ha trasformato la politica russa in uno sconcertante pezzo di teatro in continua evoluzione. Ha sponsorizzato tutti i tipi di gruppi, dagli skinhead neonazisti ai gruppi liberali per i diritti umani. Ha anche sostenuto i partiti contrari al presidente Putin».
Tuttavia «la cosa fondamentale è stata che Surkov ha poi fatto sapere che questo era quello che stava facendo, il che significava che nessuno era sicuro di cosa fosse vero o falso. Come ha affermato un giornalista: “È una strategia di potere che mantiene costantemente confusa qualsiasi opposizione”».
«Un incessante mutare forma, inarrestabile perché indefinibile. È esattamente ciò che Surkov avrebbe fatto quest’anno in Ucraina» scrive il pezzo che, ricordiamo, e del 2014 – i tempi di piazza Maidan e della Crimea riannessa. «In modo tipico, all’inizio della guerra, Surkov pubblicò un racconto su qualcosa che chiamò guerra non lineare. Una guerra in cui non sai mai cosa stiano realmente facendo i nemici, o anche chi siano. Lo scopo di fondo, dice Surkov, non è vincere la guerra, ma utilizzare il conflitto per creare uno stato costante di percezione destabilizzata, al fine di gestire e controllare».
Ad un certo punto, la faccenda assunse le tinte della fantascienza, anche grottesca. I giornali occidentali, BBC e Corriere della Sera inclusi, iniziarono a parlare di un dispositivo misterico e totipotente che sarebbe caduto nelle mani di Putin, il «nooscopio», una macchina che può attingere alla coscienza globale e «rilevare e registrare i cambiamenti nella biosfera e nell’attività umana». Ci sarebbe da ridere, e se qualcuno sghignazzava dietro le quinte, quello era Surkov – l’uomo che aveva capito che poteva disporre davvero di armi creatrici di mondi, di macchinari di magia imperiale in grado di produrre la realtà. Ecco che subentra il divertimento, l’ironia di livello meta: i giornaloni mondiali se la bevono tutta – Putin ha in mano la macchina che cambia l’universo.
Surkov nell’aprile 2020, a pochi giorni dall’operazione russa in Ucraina, è stato messo agli arresti domiciliari, con l’accusa di appropriazione indebita fondi per il Donbass. Nonostante questo, la sua lezione potrebbe essere rimasta.
La rivolta della Wagner rientra nella categoria della «guerra non-lineare» surkoviana? Della creazione di mondi come strumento politico?
E quindi, più in concreto cosa avrebbe in gioco la Russia con una simile sceneggiata? Specularmente all’11 settembre, qui si tratta di far finire una volta per tutte ogni parvenza di mondo unipolare, stabilendo una volta per tutte la multipolarità come stato delle cose globali. E ci si gioca, ovviamente, molto altro: la dedollarizzazione, per esempio, che è un cambiamento di assetto della geopolitica planetaria di cui ancora nessuno ha davvero preso le misure.
Se quindi fosse tutto vero, Prigozhin – come un bad boy, come una bad bank – si è agglutinato ogni negatività per procedere spedito lasciando al Cremlino la totale plausible deniability (concetto tipico della CIA: la possibilità di negare in maniere plausibile). Ad ogni nuova mossa della Wagner, Mosca potrà dire al mondo: «noi non li controlliamo! È un pazzo! È un animale! Ha tentato pure di attaccare noi»…
Ecco che quindi ogni rivolgimento, capovolgimento strategico diventa possibile.
I Wagner potrebbero marciare da Nord su Kiev, anche senza una vera capacità di conquista, obbligando la coperta ucraina ad essere tirata verso la capitale, lasciando libero il Sud, così magari da lasciar libero l’esercito russo di entrare, finalmente, ad Odessa, la città più russa del Mar Nero, della cui presa però, strambamente mai si è parlato davvero, anche se questa significherebbe in pratica la risoluzione della questione della Transnistria, che verrebbe definitivamente riannessa alla Russia (facendo partire il domino moldavo-romeno, dove di mezzo c’è la NATO…)
E se non fosse Odessa? Kharkov, la seconda maggiore città del Paese, dove pure non c’è stata la penetrazione che pareva esserci a inizio conflitto, dove perfino i Tinder delle ragazze kharkovite pullulavano di soldatini da Belgorod o da Grozny che ci provavano spudoratamente.
E se non fosse nemmeno Kharkov?
A fianco della Bielorussia c’è proprio la Polonia, che già è preoccupata per le armi atomiche che Putin sposterà ai suoi confini tra circa dieci giorni. Possibile che la Russia attacchi un Paese NATO? Con quello che ne consegue?
A questo punto, turlupinati dalle narrative magiche e sconvolti dagli eventi degli ultimi anni, possiamo pure dire che non lo riteniamo impossibile. Avete visto come gli intellettuali russi ora inizino a parlare di utilizzo delle armi atomiche contro i Paesi occidentali: fine del tabù dell’atomo, e Finestra di Overton termonucleare spalancata. Avete visto quanto il Cremlino abbia sorpreso tutti il 24 febbraio 2022, e in tante altre occasioni. Avete visto Medvedev annunciare la possibilità di spazzare via l’«avversario in eterno», la Gran Bretagna, con uno tsunami radiattivo generato da droni Poseidon. Avete visto che la realtà è illeggibile, irrazionale, irricevibile. Forse è programmata per essere così, per disorientarci.
Di certo, sappiamo che mai saremo arrivati qui se non fosse stata per la follia di Washington – dove, invece che un impero creatore di realtà, ci sono dei dementi che dalla realtà hanno divorziato, e sul serio.
La guerra ucraina è stata provocata da individui che credono che un uomo possa diventare femmina, che il clima possa essere modificato dalle virtù civiche, che uccidere feti in massa rientri nella salute delle donne, che castrare bambini faccia loro bene, che i nazisti siano democratici, che predare gli organi a persone incoscienti sia salvarle, che obbligare la popolazione a farmaci di alterazione genica sia una forma di libertà, che uccidere gli anziani, i deboli, i depressi e i poveri sia giusto, che un vecchio demente e corrotto possa vincere le elezioni con una decina di milioni di voti di scarto.
Questa è la vera maskirovka lanciata verso di noi, è la realtà che vogliono farci vivere, che hanno prodotto per noi, ma a cui per fortuna un certo segmento della società non crede più, né crederà mai più.
Ciò non toglie il fatto che siamo a un passo dall’abisso: ed è verità, realtà materiale, non illusione, menzogna, malìa.
È la nostra vita, e quella della nostra prole, che dobbiamo difendere dall’inganno e dai fabbricanti di realtà fatte per sterminarci.
Perché l’ora presente non è un Götterdämmerung, non è il «crepuscolo degli dei» di Wagner – è il crepuscolo nostro e della nostra umanità. In qualsiasi direzione andrà a finire questa guerra.
Roberto Dal Bosco
Pensiero
Di tabarri e boomerri. Pochissimi i tabarri
Abbiamo lanciato su queste colonne un mese fa una dura condanna dei cosiddetti Baby Boomer, cioè i nati dal 1946 al 1964, definendoli come «generazione perduta nel suo egoismo». In altri articoli, come quello sulle gemelle suicide Kessler, abbiamo definito sempre più il tiro riguardo la cifra utilitaristico-mortifera di questa fetta della popolazione.
Molti dei problemi che stiamo vivendo, crediamo, derivano da questo gruppo generazionale, cui tutto è stato concesso senza che nulla fosse dato in cambio. I boomer con il loro narcisismo tossico, la loro avarizia, il loro edonismo autistico hanno mandato alla malora il mondo, portandolo sull’orlo del collasso. I boomer come volenterosi carnefici della Necrocultura, come agenti di decadenza, come soldati della fine della Civiltà. Questa è un’analisi che non ci togliamo dalla testa.
Tuttavia, il lettore deve sapere come il direttore di Renovatio 21 abbia visto rimbalzare il concetto del male boomerro ad un evento, forse più prosaico di questi pensieri, cui ha partecipato di recente.
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Il vostro affezionatissimo un paio di mesi fa è andato a dare una mano a degli amici che producono tabarri durante una piccola fiera che si tiene in un castello medievale sperduto nel deserto padano piacentino. Nella piattezza della campagna emiliana (o… lombarda?) si tiene questa rassegna che dovrebbe essere incentrata sulla frutta antica, ma a cui partecipano vari artigiani.
Gli amici facitori di tabarri vi avevano allestito, con sforzo non indifferente, un piccolo banchetto ricchissimo: diecine di capi, il banchetto, lo specchio, il mobile per i cappellacci, manichini, locandine, foto, registratore di cassa e bancomatto. Lo scrivente era lì per aiutare: come presidente della Civiltà del Tabarro mica posso esimermi dall’opera di evangelizzazione, cioè di tabarrizzazione del mondo: convertire le moltitudini del paganesimo giubbotto per portarle verso la luce della verità vestimentaria, del gusto immortale, della storia umana, della Civiltà, del Tabarro.
Sono stati due giorni di fatica impressionante. In piedi per una diecina e più di ore, interazioni con centinaia di persone (non sempre piacevoli: ci arriveremo), una caviglia dolente perché rottasi cadendo a settembre per le scale dell’Università di Scampia (un’altra storia, un’altra volta).
Già dopo qualche ora abbiamo cominciato a percepire che forse gli avventori della fiera non rappresentavano esattamente il nostro target, ma in fondo non era vero – c’era qualcosa di diverso, di più sottile, che ci turbava.
Accanto a noi, c’era, appena separato da una colonna e dai nostri appendi-abiti, il banchetto di un ragazzotto oltre i cinquanta, simpatico e gentile, che vendeva un unico prodotto specifico: copertine di lana. Tali copertine non incontravano, diciamo, il gusto nostro e dei nostri amici: fatte di lana grezza, con fiorelloni e altri motivi non irresistibili…. e poi, l’idea che quelle sembravano coperte, più che da letto, da ginocchia, da divano, cioè da televisione.
Non riuscivo ad immaginarne altro uso: uno che guarda la TV (immagine che dentro di me è quasi divenuta antica, come un bisnonno che si scalda un pentolone d’acqua per lavarsi) e che, nel culmine della narcosi catodica, vuole riscaldarsi le gambe, divenute inutili, proprio come accade agli astronauti in assenza di gravità: la televisione non prevede l’uso degli arti, trasforma i suoi utenti in tronchetti mutilati, quindi è normale che si senta la necessità di riscaldarsi davanti al fuoco freddo del palinsesto televisivo.
Eppure, il ragazzotto aveva lo stand pieno, strapieno. Sempre. Noi no. E quelle copertine, mica le vendeva a poco. La ressa attorno al suo banchetto era totale, continua. «Pare che venda gelati» dice il mio amico, che ha fatto il commerciante dagli anni Sessanta, e usa questa espressione spesso per dire che un negozio è pieno di clienti.
Il lettore avrà capito chi fossero gli infiniti clienti della copertineria. Erano, senza eccezione, tutti boomer. Un’esercito, un’armata, che sgomitava assiepata per comprarsi la calda copertina di lana. «Quanto costa questa»…? Altre domande non mi è parso di sentirne, anche perché probabilmente non era possibile farle. Il boomerro compra un prodotto monodimensionale, e l’unico dato con cui si misura davvero è il prezzo.
Da noi, tra i tabarri più belli del mondo, invece, poche persone. Sicuramente molte, molte meno del nostro vicino copertinista. Tuttavia, nelle interazioni che abbiamo avuto, ha cominciato a svilupparsi un pattern.
Entrava spesso qualche boomer, giubbottino di ordinanza, che in realtà era diretto poco più in là. Se avvicinava al punto al bancone che non era possibile registrarlo come semplice curioso: ti tocca, a quel punto alzarti (se sei riuscito a sederti un minuto), avvicinarti, salutare, ricevere, e fargli la domanda più cordiale che si possa fare: «vuole provare un tabarro?»
Risposta: «assolutamente no. Volevo solo dire che ce lo aveva mio padre». Tale replica è stata ottenuta praticamente identica in forse una dozzina di diversi occasioni – ripetiamo: è un pattern riconoscibile. Dicevano proprio: «assolutamente no». Assolutamente. Detto dalla generazione che l’assoluto lo ha perso per strada, è un bel segno di rifiuto, probabilmente non solo del tabarro.
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Subito dopo averci edotto del tabarro paterno, e averci fatto capire quando si sente diverso dal genitore, il boomer medio, rifiutato di provare il capo (nemmeno per fare qualcosa di particolare, ad una fiera), si dirige – indovinate, indovinate – a comprarsi la copertina lì a fianco. Lì spende, tocca, prova, è il suo prodotto. Con evidenza, ne vede l’utilità esistenziale: si immagina subito con il telo lanoso di fiorelloni variopinti steso sopra le gambette mentre guarda Rete 4.
Vi è tuttavia un ulteriore pattern che dà speranza, e completa l’analisi. L’avventore volontario, entusiasta, che chiede del tabarro, lo tocca, lo prova, si guarda e riguarda allo specchio mentre lo indossa in tutte le sue varianti (aperto, chiuso, intabarrato a destra, intabarrato a sinistra, colletto su, colletto giù), gli vedi che in testa gli macina l’immaginazione: come sarebbe uscire con gli amici con il tabarro? Senti, talvolta, delle domande sussurrate: «ma quanto figo sono, così?».
Il giovane aspirante tabarrista ascolta ammirato il suono dell’intabarrata, l’atto di coprirsi con il tabarro – unico indumento che ha un suo effetto sonoro, romantico e notturno come nient’altro. Il ragazzo, la ragazza rimirano ammirati e riproducono estasiati la sequenza di gesti classici per la vestizione: tabarro preso a rovescio dinanzi a sé, colpo d’anca, il manto che gira dietro le spalle… più fluido e raffinato di un kata di un’arte marziale giapponese.
E quando gli dici che il tabarro è per sempre, perché non solo non passerà di moda, ma potrà essere trasmesso ai propri figli, nipoti, pronipoti – ad una conferenza di Renovatio 21 a Modena sei anni fa uno mi si presentò con un tabarro la cui etichetta diceva 1907! – ai giovani brillano gli occhi, sia che la prole la abbiano o sia che non la abbiano ancora. Quei pochi che ne hanno memoria famigliare – del nonno, bisnonno, o persino più indietro – non ne parlano come un ricordo da cui separarsi: il nonno, il bisnonno, il trisavolo, riconoscono i giovani, avevano una dignità superiore alla nostra, una dimensione esistenziale fatta di sacrificio e semplicità, di compostezza e determinazione cui non è possibile non anelare.
Quando ai ragazzi dici il prezzo – certamente più di un giubbino di Decathlon, epperò assai meno di un giubbotto parafirmato, di un Moncler, di qualsiasi brand tiri per qualche ragione quest’anno – non si scompongono. Li vedi calcolare a mente come fare per permetterselo: aspettare il prossimo stipendio, sfruttare il Natale o il compleanno, rompere il porcellino che da qualche in parte è in casa.
Il ragazzo veniva, provava, e si lanciava con il pensiero: questa cosa se la metteva addosso per uscire, non per chiudersi in casa. Per portare fuori la morosa, per trovarsi con le amiche o per (caso di una serie di signorine che, senza che si conoscessero, sono capitate tutte da noi) per andare a cavallo. Il tabarro come catapulta dell’essere, veicolo per incontrare, nella materia, le persone, il mondo.
Capite da voi cosa invece rappresentino le copertine boomer: la contrazione nel non-essere del tinello televisivo, la chiusura verso la realtà della gente, del consorzio umano, del proprio corpo. La copertina è l’addobbo per l’essere umano che ha abdicato alla sua dignità di creatura vivente e creatrice, che ha appaltato la gestione del cervello a qualcun altro, che ha accettato per decadi la propria mummificazione catodica.
È, in tutta chiarezza, uno scontro metafisico, ontologico, apocalittico: l’espansione contro la contrazione, l’essere contro il non-essere… la vita contro la morte.
Una volta realizzato questo, bisogna andare avanti con la disamina, e considerare i concreti effetti sociopolitici di quanto stiamo notando.
Nonostante il loro lavoro, non tutti i giovani che volevano acquistare un tabarro avevano i danari per farlo. Al contrario, tutti i boomer che sono entrati per rifiutarsi di indossare il tabarro i soldi per il tabarro li avevano, accumulati nell’età dell’oro dell’economia mondiale, quando era possibile, senza essere imprenditori d’alto bordo, farsi una casa, una seconda casa, la macchina e pure mettere via qualche soldo in banca.
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Tutti i boomer che finiscono ricoperti a guardare Barbara D’Urso e Mentana hanno conti in banca che permettono loro di vivere benissimo, e pensioni che moltiplicano tale benessere. Ecco quindi la settimana in crociera, il weekend alle terme, il sole a Sharm el-Sheik, il giretto in Nepal, la vacanzetta all’isola d’Elba, etc. Tutti questi non hanno avuto problemi a cambiare l’auto – di più, non hanno avuto necessità di farlo, ma senza problemi si sono presi l’ultima Toyota, Audi, Hyundai, FIAT, etc.
Il giovane, al contrario, non ha i soldi per niente di tutto questo, e l’auto, o la vacanza, o il tabarro, devono essere calcolati a dovere in un paradigma che è l’opposto di quello della generazione precedente: non più abbondanza, ma carenza, scarsità anche negli ambiti più basilari. Quanti, della generazione dei boomer, hanno avuto problemi a riscaldare la propria casa? Per quanti il costo del gas o della benzina sono stati un problema tale da indurre rinunzie drastiche, come quella di lasciare mezza casa, o una casa intera, al freddo?
È chiaro, quindi, il blocco storico del presente: tutte le risorse sono in mano ad una generazione vecchia, sterile, priva di valori che non siano di consumo continuo e distruttivo. Le generazioni successive, che pure hanno dalla loro la spinta della vita che non ancora sono riusciti a spegnere, hanno niente o poco più – e di fatto pagano per le gozzoviglie degli anziani parassiti. I mezzi economici sono concentrati su una fetta della popolazione votata allo spreco e – in ultima analisi – alla morte e alla sua cultura. A chi manda avanti la società, a chi continua la vita, invece non è lasciato nulla. Non ci è chiaro quanto questa situazione sarà considerata tollerabile, di certo i suoi effetti sono già visibili e devastanti.
Secondariamente, c’è il rilievo psico-sociale: se compri una coperta per il divano e non un mantello per uscire e vivere stai di fatto amalgamando il tuo essere al programma del potere costituito che è, lo abbiamo visto con i nostri occhi col lockdown, chiuderti in casa. In casa sei controllabile in ogni modo possibile, in casa non creerai mai alcun problema, in casa ti puoi spegnere senza sporcare, levarti di torno senza che nemmeno si oda il tuo lamento – il vertice della piramide vede il tuo appartamento come luogo di esistenza pre-tombale a bassa intensità.
Qui, nel loculo domestico, non puoi far altro che ricevere gli ordini che ti arrivano dalla TV (o dai grandi canali internet, che abbiamo visto essere manipolati dagli stessi poteri che producevano la psicopolizia dei palinsesti televisivi). Chi si mette al calduccio per guardare il televisore accetta di farsi lavare il cervello, e quindi divenire servitore dell’agenda mondialista.
Sì, l’esistenza stessa di un fenomeno come quello della pandemia COVID parte proprio dai divani di una generazione stravaccata e satolla che si è fatta indottrinare nel modo più rivoltante, accettando la clausura, la siringa genica obbligatoria, le ore quotidiane di odio verso i no-vax… Di lì avanti, ancora, la stessa gente ha accettato di pagare bollette folli e rischiare una guerra termonucleare globale perché la TV gli ha detto è ripetuto che Putin è cattivo.
La società, la geopolitica mondiale, la storia presente sono impattate da questo blocco umano immenso, e in maniera presente.
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È stata consentita qualsiasi cosa, ai boomer, perfino l’essere gustibus soluti: il loro schifo non è solo metafisico e morale, è pure estetico. Il giubbino in piuma d’oca, il cappottino peloso, sono lì a testimoniarcelo con più forze del nano da giardino.
La rivolta contro il boomer moderno passa, quindi, da dimensioni come quella del tabarro, che ti avvolge spingendo in faccia agli aridi e narcisi il loro essere senza bellezza e senza radice.
Renovatio 21 si offre di dare una mano a coloro che vorranno partecipare a questa riscossa cosmica. Se volete un tabarro, non avete che da comunicarcelo.
Non siete soli. Il network della resistenza è più grande di quello che potete pensare. E contiene, ovvio, pure vari boomer anagrafici non piegati ai diktat entropici del sistema.
Un tabarro alla volta, rovesceremo l’impero delle copertine di lana. Chi scrive già da anni opera in questo senso.
Riscriveremo l’etica del secolo passando per l’estetica, e non poteva che essere così. Dimenticandoci una volta per tutti di quelli che hanno vissuto con indolenza distruttiva, offendendo la meraviglia della Vita e della Civiltà.
Roberto Dal Bosco
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Foto di Silvano Pupella; modificata
Pensiero
Trump e la potenza del tacchino espiatorio
🦃 America’s annual tradition of the Presidential Turkey Pardon is ALMOST HERE!
THROWBACK to some of the most legendary presidential turkeys in POTUS & @FLOTUS history before the big moment this year. 🎬🔥 pic.twitter.com/QT2Oal12ax — The White House (@WhiteHouse) November 24, 2025
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Civiltà
Da Pico all’Intelligenza Artificiale. Noi modernissimi e la nostra «potenza» tecnica
Se Pico della Mirandola fosse vissuto nel nostro secolo felice, non avrebbe avuto di certo le grane che gli procurò la Chiesa del suo tempo.
Avrebbe potuto discutere tranquillamente le sue 900 tesi, tutte più o meno volte a dimostrare la grandezza dello spirito e dell’ingegno umano. Soprattutto avrebbe venduto in ogni filiale Mondadori milioni di copie del proprio best seller sulla superiorità dell’uomo e della sua creatività benefica, ben rappresentata in Sistina dall’ eloquente immagine delle mani di un possente Adamo e del suo creatore, che si sfiorano e dove, in effetti, non si sa bene quale sia quella dell’ essere più potente.
Insomma Pico non avrebbe dovuto darsela a gambe nottetempo da Roma per finire prematuramente i propri giorni nelle terre avite, raggiunto da una febbre malsana di origine sconosciuta, manco gli fosse stato iniettato a tradimento un vaccino anti-COVID. Eppure era stato frainteso, o a Roma si era temuto che potesse essere frainteso dai suoi contemporanei e dai posteri. Che avrebbero potuto interpretare quella sbandierata superiorità dell’uomo come una divinizzazione capace di escludere la sua condizione di creatura.
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Ma oggi proprio così fraintesa, quella affermata superiorità dell’uomo faber serve ad alimentare la accettazione compiaciuta di qualunque gabbia tecnologica in cui ci si consegna per essere tenuti volontariamente in ostaggio. Sullo sfondo, l’ambizione tutta moderna ad essere liberati dalla condizione involontaria di creature, e dall’inconveniente di una fatale finitezza. Non per nulla la prima cosa di cui si incarica la scuola è quella di rassicurare i bambini circa la loro consolante discendenza dalle scimmie.
Ed è con questa superiorità che hanno a che fare le meraviglie abbaglianti della tecnica.
Dopo la navigazione di bolina e la scoperta dell’America, dopo il telaio meccanico e la ghigliottina, l’idea della onnipotenza umana ha trovato conferma definitiva in quella che a suo tempo è apparsa la conquista più ingegnosa della tecnica moderna: la capacità di uccidere il maggior numero di individui nel minor tempo possibile. Gaetano Filangeri annotava infatti già alla fine del Settecento come fosse proprio questo il massimo motivo di compiacimento che emergeva dai discorsi di tutti i politici incontrati in Europa.
Di qui, di meraviglia in meraviglia, si è capito che non solo si possono fare miracoli, prescindendo dalla natura, ma che è possibile un’altra natura, prodotta dall’uomo creatore. E se Dio il settimo giorno riconobbe che quanto aveva creato era anche buono, non si vede perché non lo debba pensare anche l’evoluto tecnico, o il legislatore o il giudice che si scopra signore della vita e della morte.
Sia che crei la pecora Dolly, o inventi il figlio della «madre intenzionale», o renda una coppia di maschi miracolosamente fertile, oppure stabilisca chi e come debba essere soppresso perché inutile o semplicemente desideroso di morire per mano altrui.
O, ancora, applichi a scatola chiusa quel criterio della morte cerebrale che serve a dare qualcuno per morto anche se è vivo. Una trovata perfetta capace di salvare capra e cavoli: perché mentre soddisfa la sacrosanta aspirazione del cliente ad ottenere un pezzo di ricambio per il proprio organo in disuso, appone sull’operazione il sigillo altrettanto sacrosanto della scientificità, che tranquillizza tutti e preserva dalle patrie galere.
Con la tecnica si manipolano le cose ma anche i linguaggi e quindi le coscienze. Si può mettere pubblicamente a tema se sterminare una popolazione inerme etnicamente individuata seppellendola sotto le sue case, costituisca o meno genocidio. Con la logica conseguenza che, se la risposta fosse negativa, la cosa dovrebbe essere considerata politicamente corretta mentre l’eventuale giudizio morale può essere lasciato tranquillamente sui gusti personali.
Tuttavia senza l’approdo ultimo alla cosiddetta «Intelligenza Artificiale», tutte le meraviglie del nostro tempo non avrebbero potuto elevare il moderno creatore tecnologico alla odierna apoteosi, molto vicina a quella con cui i romani presero a divinizzare i loro imperatori, senza andare troppo per il sottile.
Anzi, dopo più di un secolo di riflessione filosofica, di scrupoli, timori, ansie e visioni apocalittiche, di pessimismo sistematico e speranze di redenzione, di fughe in avanti e pentimenti inconsolabili come quello di chi dopo avere donato al mondo la bomba atomica ne aveva verificato meravigliato gli effetti, dopo tanta fatica di pensiero, le acque sembrano tornate improvvisamente tranquille proprio attorno all’oasi felice della cosiddetta «Intelligenza Artificiale».
Ogni dubbio antico e nuovo su dominio della tecnica ed emancipazione umana potere e libertà, civiltà e barbarie, sembra essersi dissolto in un compiacimento che non risparmia pensatori pubblici e privati, di qualunque fascia accademica, e di qualunque canale televisivo. Anche l’antico monito di Prometeo che diceva di avere dato agli uomini «le false speranze» ha perso di significato, di fronte a questo nuovissimo miracolo che entusiasma quanti, quasi inebriati, toccano con mano i vantaggi di questa nuova manna. Mentre le più ovvie distinzioni da fare e la riflessione doverosa sui problemi capitali di fondo che il fenomeno pone, sembrano sparire da ogni orizzonte speculativo.
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Dunque si può tornare a dire «In principio fu la meraviglia» ovvero lo stupore e il timore reverenziale di fronte alla potenze soverchianti della natura che portarono il primo uomo a venerare il sole e la madre terra e a riconoscere una volontà superiore davanti alla quale occorreva prostrasi. Eppure allora iniziò anche qualche non insignificante riflessione sull’essere umano e sul suo destino.
Oggi lo stupore induce al riconoscimento ottimistico di una nuova forza creatrice tutta umana e quindi controllabile e allo affidamento alle sorti progressive che comunque si ritengono assicurate.
Incanta il miracolo nuovo che eliminando la fatica di fare e pensare induce compiacimento e fiducia. Il discorso attorno a questo miracolo non ha alcuna pretesa filosofica perché assorbito dalla meraviglia si blocca sulla categoria dell’utile. La prepotenza della funzione utilitaristica assorbe la riflessione critica. Non ci si preoccupa perché la tecnica «non pensa» come vedeva Heidegger alludendo alla indifferenza dei suoi creatori circa la qualità delle conseguenze. La constatazione trionfalistica dell’utile fornito in sovrabbondanza dalla tecnica basta a fugare ogni scrupolo, ogni dubbio, ogni timore, ogni preoccupazione sui risvolti esistenziali non più e non solo derivanti dalla volontà di dominio delle centrali di potere che la governano.
Viene eluso in modo sorprendente il nodo centrale del fatale immiserimento delle capacità critiche logiche e speculative, in particolare di quelle del tutto indifese, perché non ancora formate, dei più giovani, esposti ad un progressivo e forse irrecuperabile deterioramento intellettuale. Eppure questa avrebbe dovuto essere la preoccupazione principale sentita da una civiltà evoluta.
Come accadde in tempi lontanissimi all’avvento della scrittura, quando ci si chiese se essa avrebbe mortificato le capacità mnemoniche di popolazioni che avevano fondato la propria cultura sulla tradizione orale.
Noi ci compiaciamo dell’avvento della scrittura, che ci ha permesso di tesaurizzare quanto del pensiero umano altrimenti sarebbe andato perduto. Ma ciò non toglie che quella coscienza arcaica avesse chiaro il senso dei propri talenti e avesse la preoccupazione della possibile perdita di una capacità straordinaria acquisita nel tempo, dello straordinario patrimonio accumulato grazie ad essa e in virtù della quale quel patrimonio avrebbe potuto essere trasmesso, pur con altri mezzi.
la mancanza di questa preoccupazione prova una inconsapevoleza e un arretramento culturale senza precedenti, ed è lecito chiedersi se tutto questo non sia già il frutto avvelenato proprio delle acquisizioni tecnologiche già incorporate nel recente passato.
La riflessione dell’uomo sulle proprie possibilità ha accompagnato la «consapevolezza della propria ignoranza e le domande fondamentali sull’origine dell’universo e sul significato dell’essere». Ma presto, il pensiero greco aveva messo in guardia l’homo faber dalla tracotante volontà di potenza di fronte alla natura e alle sue leggi, e aveva eletto a somma virtù la misura. Esortava a quella conoscenza del limite oltre il quale c’è l’ignoto. Hic sunt leones! Come avrebbero scritto gli antichi cartografi.
Del resto la saggezza antica suggeriva anche di tenere ben distinto il mondo dei mortali da quello incorruttibile degli dei che ai primi rimaneva precluso. La stessa divinizzazione degli imperatori romani era una messinscena politico demagogica sulla quale si poteva anche imbastire una satira feroce.
Il valore dell’uomo si misurava sulle imprese di quelli che erano capaci di lasciare il segno in una storia che inghiottiva tutti gli altri, senza residui.
Poi per gli umanisti in generale, a destare meraviglia fu l’uomo in se’, ovvero l’essere superiore capace di dotarsi di pensiero filosofico e speculativo, e di un bagaglio culturale elevato, in cui vedere riflessa la propria superiorità. Pico scrive il manifesto di questo riconoscimento intitolandolo Oratio Hominis dignitate. La grandezza dell’uomo non si esprime in opere dell’ingegno ma nella capacità di rigenerarsi come essere superiore. Attraverso la ragione può diventare animale celeste, grazie all’intelletto, angelo e figlio di Dio. È la potenza del pensiero a farne il signore dell’universo accanto all’Altissimo. Del quale però rimane creatura. Precisazione indispensabile per Pico, che doveva salvarsi l’anima, se non la vita. Gli artisti cominciavano a firmare le proprie opere ma l’arte era ancora la scintilla divina che essi riconoscevano nel proprio creare.
Col tempo, la vertiginosa progressione tecnica fino alla impennata tecnologica contemporanea ha invece condotto l’uomo contemporaneo, ad un senso di sé che si declina come volontà di potenza espressa nelle opere dell’ingegno di cui egli è creatore e fruitore.
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Tuttavia, se la tecnica serve per uccidere il maggior numero di uomini nel minor tempo possibile, si capisce come da nuova meraviglia e nuova natura, possa farsi problema. Si è presa coscienza vera delle sue applicazioni e implicazioni economiche, politiche, e antropologiche in senso ampio, della mercificazione umana di cui diventa portatrice. Ma anche della necessità di risalire alla matrice prima di questo processo, ovvero alla ragione, la dote distintiva dell’uomo che da guida luminosa può degenerare in mezzo di autodistruzione.
Giovanbattista Vico aveva visto nelle sue degenerazioni il germe di una seconda barbarie. Quella stessa ragione che ha scoperto i mezzi per vincere l’ostilità della natura, procurare condizioni più favorevoli di vita, e controllare la paura dell’ignoto, ha sviluppato la tecnica, soprattutto nella modernità occidentale, secondo una progressione geometrica. Ma questa stessa ragione umana da fattore di liberazione si rovescia in strumento di dominio, proprio attraverso la tecnica.
Tale rovesciamento, come è noto, è stato al centro della Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno che lo hanno fissato genialmente nell’incipit memorabile: «L’illuminismo ha sempre perseguito il fine di togliere all’uomo la paura dell’ignoto, ma la terra interamente illuminata, splende all’insegna di trionfale sventura». Dove per illuminismo si allude appunto all’impiego della ragione calcolante, e al suo sforzo primigenio per vincere lo smarrimento e la sottomissione indotte dalle forze della natura. Ma il mondo creato attraverso il processo di razionalizzazione diventa a sua volta naturale e quindi domina i rapporti umani, ne produce la reificazione, e a sua volta risulta ingovernabile. Dunque la ragione è creatrice degli strumenti di dominio sotto la maschera della liberazione.
Questi autori hanno visto da vicino, anche per esperienza personale, come l’avanzata incessante del progresso tecnico possa diventare incessante regressione verso quella seconda barbarie preconizzata da Vico tre secoli prima. Hanno visto la barbarie ideologica e pratica prodotta dai sistemi totalitari. E poi, una volta emigrati negli Stati Uniti, lo imbarbarimento di una società che dal di fuori era ritenuta politicamente più evoluta. Avevano constatato come l’umanità del XX secolo avesse potuto regredire a «livelli antropologici primitivi che convivevano con stadi più evoluti del progresso».
E infine, come in questo orizzonte regressivo i capi avessero «l’aspetto di parrucchieri, attori di provincia, giornalisti da strapazzo», «al vuoto di un capo, corrispondesse una massa vuota, e alla coercizione quella adesione generalizzata che rende la prima quasi irreversibile». Inutile dire che di questi fenomeni abbiamo ora sotto gli occhi la forma più compiuta.
Con la modernità la ragione che per Pico avvicinava l’uomo a Dio, è diventata irrimediabilmente strumentale e soggettiva. Non si mette in discussione la qualità dei fini ma si adotta in ogni campo e senza riserve, fraintendendone il senso, la lezione di Machiavelli. Non per nulla, nella versione Reader’s Digest, questo rimane l’autore di riferimento, dei teorici dell’espansionismo imperiale e americano fino ai giorni nostri.
Ma se con la ragione strumentale si impone la logica dei rapporti di forza, questa, portata alle estreme conseguenze,, fa cadere anche il limite e il discrimine tra bene e male, secondo la filosofia di De Sade, che sembra farsi largo in una società ormai nichilista. Così negli ospedali londinesi si possono sopprimere impunemente i neonati troppo costosi per il sistema sanitario, a dispetto dei genitori. Si possono destabilizzare i governi a dispetto dei popoli, si possono roversciare i canoni etici, estetici, religiosi e logico razionali.
Dunque, quella diagnosi pessimistica, dovrebbe tornare quanto mai attuale oggi che l’approdo alla cosiddetta intelligenza artificiale si è compiuto, ed essa è già diabolicamnete applicata all’insaputa delle vittime, o trionfalmente accolta dai suoi ammirati fruitori. Torna attuale per avere messo a tema la torsione della ragione liberatrice in strumento di dominio anche se non era ancora possibile intravedere il rovesciamento ulteriore, l’Ultima Thule della autoschiavizzazione che avviene con la sottomissione spontanea e felice alla sovraestensione tecnologica.
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Invece sembra che si sia dimenticata, per incanto, tutta la riflessione intorno alla tecnica , che ha affaticato il pensiero di un intero secolo. Ora che le metamorfosi di una intera Civiltà, diventate presto di dimensioni planetarie, mostrano più che mai la necessità di riprendere il tema filosofico per eccellenza, sulla essenza e sul destino dell’uomo.
Ed è con questo tema che noi abbiamo a che fare più che mai. Infatti non si tratta più o non solo di prendere coscienza della esistenza di centri di potere che hanno in mano le redini degli strumenti con cui siamo dominati. Perché questa, bene o male, è diventata coscienza abbastanza diffusa almeno in quella parte di dominati che hanno la capacità di riflettere sulla propria condizione di sudditanza.
Tutti più o meno si sono accorti della manipolazione del consenso e della potenza della pubblicità e della forza della propaganda. Nonché della dipendenza dalla tecnologia e delle sue controindicazioni. Anche se ogni diffidenza e ogni riconoscimento di dipendenza viene poi spesso temperato dalla convinzione che si possa comunque controllare lo strumento.
Il salto di qualità l’ha prodotto la meraviglia. Questa volta non turbata dal timore della propria impotenza. L’utile immediato è metafisico, e il miracolo salvifico non megtte in discussione la bontà della volontà che lo genera. Il miracolo crea fedeli e discepoli confortati. Gli agnostici tutt’al più vogliono toccare con mano, anche Tommaso diventa il più convinto dei credenti di fronte alla evidenza dei risultati. Ogni aspetto problematico della faccenda viene messo da parte perché è comunque meglio una gallina oggi che un uovo domani.
Sotto a tanta meravigliosa e meravigliata fiducia c’è la rinnovata fede nella divinità del genio umano che comunque appare lavorare per il bene dei mortali. Un bene tangibile, pronto e tutto svelato, nonché senz’altro proficuo per le nuove generazioni sollevate dalla fatica inutile di imparare a leggere, scrivere e fare di conto, e soprattutto da quella pericolosa attitudine a pensare, ricordare, esplorare e guardare al di là del proprio particulare.
Ancora una volta è dunque la ragione calcolante che dopo avere rinchiuso gli uomini nella gabbia dell’utile materialmente ponderabile tenuta dal potere, fa sì che essi vi si rinchiudano con rinnovato entusiaimo e di propria iniziativa. Insomma non si tratta più di un ingranaggio di dominio e manipolazione subito e del quale non tutti e non sempre hanno acquistato chiara consapevolezza. Si tratta della rinuncia volontaria alla propria capacità di autonomia e di sviluppo delle facoltà speculative destinate ad immiserirsi e isterilirsi per abbandono progressivo, e infine per non uso.
Di certo la difficoltà di uscire dall’ingranaggio, di fronte alla prepotenza dell’ordigno e alla accondiscendenza crescente degli stessi entusiasti utilizzatori diventa oggi drammatica quanto sottovalutata. Gli stessi Horkheimer e Adorno avevano esitato a proporre una soluzione per il problema, più oggettivamnete contenuto, che avevano affrontato allora con tanta acribia. Non bisogna però sottovalutare il suggerimento che essi formularono alla fine, ipotizzando la possibilità di riportare proprio la ragione calcolante alla autoriflessione sul proprio invasivo precipitato tecnologico.
Una soluzione utopica , si è detto, perché la ragione rinnegando se stessa dovrebbe paradossalmente rinunciare a tutto quello che ha anche fornito all’uomo come mezzi di sopravvivenza e di emancipazione dai condizionamenti della natura. Tuttavia non è insensato pensare che la autoriflessione possa condurre a stabilire il confine invalicabile oltre il quale il costo umano capovolge il senso stesso del calcolo razionale togliendo ad esso ogni giustificazione logica. Si tratta di vedere con disincanto tutta la realtà dei nuovi giocattoli antropofagi. Perché di questo si tratta: quella innescata dalle nuove frontiere della tecnica altro non è che autodistruzione morale e materiale, consegna senza scampo all’arbitrio incontrollabile di una potenza che fugge anche al controllo di chi la mette in moto.
Se «dialettica dell’illuminismo» significava nella riflessione dei suoi autori, rovesciamento della promessa di emancipazione della ragione in dominio e schiavizzazione sotto mentite spoglie, di questo rovesciamento la cosiddetta Intelligenza Artificiale è il compimento funesto e pericolosissimo perché capace non soltanto di neutralizzare attualmente ogni difesa, ma anche di isterilire nel tempo ogni potenzialità critica e speculativa. E appare del tutto irrisorio obiettare che è possibile controllare il processo perchè si è consapevoli che in ogni caso il meccanismo è un prodotto umano. Come se la valanga provocata dalla dinamite fosse per ciò stesso anche arrestabile.
Converrebbe piuttosto ricordare il monito di Benedetto XVI sulla necessità di allargare un concetto di ragione oramai ridotta a ragione calcolante per riconoscere di nuovo ad essa la funzione di guidare gli uomini verso l’ orizzonte spiritualmente ed eticamente più ampio ed elevato della cura e della vita buona, della consapevolezza e della corrispondenza tra il pensiero e il bene che va oltre l’immediatamente utile.
Per questo forse non basta lo sforzo di autoriflessione suggerito nella Dialettica dell’illuminismo, occorre ritrovare quel senso della trascendenza che allarga la mente oltre il vicolo cieco e le secche di un pensiero senza la luce di fini più grandi dell’utile contabile ed immediato.
Quell’uomo non a caso tanto presto dimenticato, perchè incompatibile con la miseria dei tempi, aveva compreso perfettamente, dall’alto di una grande intelligenza e di una solida fede, che sul ciglio del baratro occorre tornare indietro e buttare al macero «le false speranze».
Patrizia Fermani
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