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Stato

Islamizzazione dello Stato in Malesia: entro fine anno l’omologazione tra sharia e Costituzione

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

La scadenza fissata dal governo per il 31 dicembre 2024. Molti sollevano dubbi su una data sin troppo ravvicinata e sulle possibilità di intervento del Parlamento in una materia delicata. In gioco due visioni opposte fra laicità dello Stato e islamizzazione.

 

Per cercare di superare le difficoltà da tempo evidenziate nel percorso di adeguamento della legge coranica al dettato costituzionale, il governo malaysiano ha indicato il 31 dicembre come termine ultimo per omologare l’applicazione della sharia alla Costituzione nei vari Stati della Federazione.

 

Molti sollevano dubbi sulla scadenza ritenuta troppo ravvicinata, ma l’iniziativa ufficiale contribuirà a riaccende il dibattito sulla congruità fra legge dello Stato e quella religiosa, sempre rischioso in un Paese attraversato da diverse faglie di natura etnica, sociale e religiosa.

 

Come segnalato sulla stampa malaysiana, il 18 febbraio il ministro per gli Affari religiosi Mohd Na’im Mokhtar si è impegnato a spianare la strada a un rapporto più certo e meno problematico fra legge civile e religiosa entro l’anno in corso. In questo avrà la cooperazione del sovrano dello Stato di Selangor, Sharafuddin Idris Shah, che presiede il Consiglio nazionale degli Affari religiosi islamici (National Council of Islamic Religious Affairs).

 

Un contributo dovrebbe arrivare dal comitato speciale guidato da un ex presidente della Corte suprema, che ha iniziato i lavori lo scorso anno, incaricato di valutare le possibilità di estendere le competenze del Parlamento per potere intervenire in questa delicata materia.

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A evidenziarne la necessità, la sentenza dei giudici supremi emessa il 9 febbraio sull’incostituzionalità di 16 leggi in vigore nello Stato nord-occidentale di Kelantan. Le norme riguardano numerosi reati punibili secondo la legge religiosa, dalla sodomia agli abusi sessuali, dal possesso di false informazioni alla dipendenza da droghe e alcool, fino ai criteri applicati nei giudizi.

 

Tutti argomenti coperti dalla legge dello Stato, su cui il Parlamento federale ha giurisdizione ma in parte modificati dalle leggi locali in senso più aderente agli ideali religiosi.

 

Se la comunicazione del ministro ha avviato un dibattito sui tempi, altri rilevano come intervenire in questa materia sia un elemento nodale per la stessa identità del Paese. Le modifiche alla legge includono potenzialmente emendamenti alla Costituzione e la revisione di leggi a livello federale e degli Stati; tuttavia, il punto focale e spesso eluso per evitare ripercussioni politiche e sociali è se sia necessario adattare le leggi di ispirazione religiosa in sintonia con la Costituzione oppure modificare la Costituzione secondo principi religiosi.

 

In buona sostanza viene riproposto il dualismo persistente dall’indipendenza tra laicità dello Stato e islamizzazione di una società oggi composta al 60% di malesi musulmani.

 

Ogni soluzione potrebbe essere invisa a una delle parti e mettere in discussione la stessa Costituzione che nell’articolo 121 (1A) prevede che le questioni legate all’identità vengano giudicate dai tribunali della sharia nei vari Stati.

 

Il sistema in vigore prevede che il Diritto penale e di famiglia sia applicato ai musulmani secondo la tradizione islamica recepita da leggi approvate dalle assemblee legislative dei singoli Stati; per i non musulmani valgono il codice civile e penale di pertinenza del Parlamento centrale.

 

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Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Immagine di Gordon via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic

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Eutanasia

Suicidio assistito, diritto manipolato e distruzione della società

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La legge sul suicidio assistito di recente approvata dalla Regione Toscana, è di certo l’approdo di fattori concomitanti e connessi.   Fattori che hanno a che fare, nella società contemporanea omogeneizzata, sia con la perdita dei principi etici fondamentali e con l’allontanamento da quelli religiosi che ne erano interpreti privilegiati, sia con le manipolazioni e le distorsioni di un’opinione pubblica sempre più in balia di suggestioni indotte mediaticamente, con le inclinazioni individualistiche e nichilistiche che hanno offuscato, fino quasi alla cancellazione, il senso e la idea stessa del bene comune ormai totalmente fagocitata da quella della priorità dei desideri e delle esigenze individuali.   Ma l’impoverimento culturale diffuso e generalizzato, ha travolto inevitabilmente, insieme alla politica, all’etica e all’estetica, in modo particolare anche il diritto, sotto ogni profilo formale e sostanziale, E bisogna subito mettere in luce come la sua crisi sia anzitutto una crisi di identità, cioè di sfaldamento delle sue basi concettuali, di ‘offuscamento delle sue finalità costitutive, della sua tecnica costitutiva, e dei confini entro i quali è chiamato ad operare.

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La crisi del diritto si dispiega inoltre, sia all’interno, nello scadimento della sua funzione regolatrice della società, sia all’esterno, nella percezione distorta che di quella funzione si fa strada nel sentire comune. Mentre la distorsione investe tanto il diritto soggettivo, cioè la pretesa individuale riconosciuta meritevole di tutela nell’interesse della collettività (ecco la creazione di «diritti» che non possono essere considerati tali proprio perché non hanno nulla a che fare con il diritto soggettivo), quanto il diritto oggettivo, cioè l’insieme delle norme che costituiscono l’ordinamento giuridico, di cui la società si dota per proteggersi, consolidarsi ed espandersi culturalmente e materialmente.   Questa crisi del diritto che investe sia la sua produzione e attuazione, sia la sua percezione generalizzata, si avvale del fenomeno dello slittamento semantico anch’ esso generalizzato, spesso forgiato ad arte, per cui sono le parole a creare la realtà e non viceversa, e sotto la loro cortina fumogena viene eliminato l’ingombro del pensiero.   Su questo sfondo va letta dunque la vicenda che qui ci interessa, del cosiddetto «suicidio assistito» nella quale tutti questi aspetti si riassumono in modo esemplare: la degenerazione normativa, la distorta percezione del fenomeno giuridico, il travisamento dei suoi contenuti e delle sue finalità nel comune sentire, ovvero in quel senso comune di manzoniana memoria, venutosi a creare sotto la pressione della rieducazione mediaticamente imposta.   Occorre perciò richiamare alcuni concetti elementari quanto fondamentali.   Il diritto, e quello penale in particolare, è lo strumento che una società organizzata si dà per potersi garantire una convivenza ordinata e pacifica.   La legge penale in primo luogo assolve questa funzione ordinatrice e pacificatrice individuando i valori fondamentali che debbono essere tutelati per consolidare i fondamenti etici irrinunciabili su cui si può reggere la società.   La tutela come è noto avviene attraverso la minaccia di una sanzione che andrà a colpire chi mette in pericolo questi valori, che chiamiamo «beni giuridici» perché appunto riconosciuti meritevoli di tutela dalla legge penale, in quanto fondativi di una convivenza pacifica e ordinata.   Fra questi va individuata altresì la rosa dei «diritti indisponibili», ovvero di quei valori, quali la vita, la integrità fisica, la libertà personale etc. che sono ritenuti tali per la loro importanza capitale, e vanno difesi ad oltranza erga omnes, anche nei confronti di chi ne sia titolare particolare, perché stanno a presidio della conservazione e persino della stessa sopravvivenza della intera comunità organizzata.   Etiamsi deus non daretur, secondo la locuzione di Grozio ricordata più volte da Benedetto XVI, a proposito dei «valori non negoziabili».   Qui bisogna sottolineare, appunto, come l’indisponibilità da parte del titolare particolare sancita dall’ordinamento, deve essere riconosciuta da ogni società che non voglia votarsi alla autodistruzione.   Inoltre la necessità di una difesa avanzata di questi beni, è bene sottolinearlo, opera non soltanto nei confronti di chi fra i consociati li possa aggredire, ma anche nei confronti dello stesso potere politico che potrebbe violarli abusando degli strumenti di coercizione di cui dispone.   In altre parole, la tutela dei valori fondamentali rappresenta anche un baluardo nei confronti della entità statuale che, attraverso un uso arbitrario del potere, operi non per il bene comune ma per la propria perpetuazione, violando proprio le norme destinate a regolare i comportamenti del cittadino comune. Il potere politico può utilizzare gli apparati di cui dispone, per fini contra legem.

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Sicché quanto più strette sono le maglie della norma penale in tema di diritti indisponibili, tanto più forte sarà la funzione difensiva della legge anche nei confronti del potere politico, in quel quadro di stato di diritto che tanto viene invocato a sproposito nei giorni nostri da chi ne ignora proprio il significato.   Alla luce di queste considerazioni dovrebbe essere letta l’esigenza di non ammettere deroghe di sorta alla punibilità delle violazioni delle norme poste a difesa della vita umana con la sola eccezione della legittima difesa, che introduce il criterio del bilanciamento degli interessi, dove il valore della vita di chi si è messo al di fuori delle regole dell’ordinamento, cede il passo al valore della vita messa in pericolo dall’aggressore.   Se passiamo a considerare la norma dell’articolo 580 C.P., che punisce con la reclusione da uno a cinque anni, «chiunque determina altri al suicidio, o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, se il suicidio avviene» vediamo come il legislatore abbia inteso difendere l’attacco al valore della vita umana anche quando esso sia portato dal soggetto che ne è titolare particolare.   Proprio perché si tratta della difesa oggettiva di un bene al quale l’ordinamento assegna un valore superiore al valore attribuitogli dal singolo che ne è portatore. In altre parole non viene lasciato spazio alla considerazione soggettiva di questi, perché si tratta di un bene che riguarda l’intera comunità e come tale viene tutelato oggettivamente.   La punizione dell’omicidio del consenziente conferma in modo incontrovertibile questa base concettuale, infatti il consenso della vittima non esclude l’omicidio anche se ne attenua la sanzione ad un massimo di quindici anni di reclusione.   Ma ecco che l’irrompere del soggettivismo e del nichilismo adottato da forze diventate culturalmente più prepotenti che dominanti, diventa l’ariete volto a scardinare non soltanto un assetto etico, ma anche il sistema giuridico che dovrebbe concorrere a tenerlo saldo. Perché il diritto, se deve essere tenuto concettualmente distinto dalla morale, ha pur tuttavia una funzione etica fondamentale, e che dovrebbe essere salvaguardata per la tenuta stessa della società.   La locuzione, «suicidio assistito», divenuta corrente, tradisce già l’aggiramento della norma di cui all’articolo 580 che è già stata aggredita dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 243 del 2019.   Da questa ha preso le mosse la recente legge regionale toscana, salutata dal governatore Giani, come «un forte messaggio di civiltà». Non si tratta di negare che il divenire dei tempi comporti mutamenti oggettivi del comune sentire di cui si deve tenere conto. Ma questi mutamenti, che possono interessare aspetti secondari e a volte quasi folcloristici della vita comunitaria, come il sempre fluttuante e frivolo mutare dell’abbigliamento e delle abitudini quotidiane, non ha nulla a che fare con i fondamenti della vita comunitaria. Qui infatti, anche piccole incrinature sono destinate ad allargarsi fino alla distruzione totale di un edificio che è indispensabile tenere saldo per la sopravvivenza di una qualunque società umana civilizzata.   Come nella antica favola del piccolo buco nella diga olandese che il bambino tenta di chiudere col proprio ditino, conscio dell’immane pericolo che da quella falla può derivare. Ma ecco che, e qui entriamo nel vivo del nostro tema, la falla viene prodotta e poi allargata proprio dagli organi che dovrebbero mirare alla salvaguardia del sistema normativo.   E non possiamo non fare riferimento alla Corte Costituzionale, istituita per assicurare l’aderenza delle leggi dello Stato ai principi fondamentali fissati come intangibili dalla Carta Fondamentale.   La Corte ha elaborato nel tempo, in perfetta e intoccabile autonomia, l’autopotenziamento, ovvero lo allargamento dei propri poteri decisori che dal controllo sulla legittimità delle leggi esistenti ha finito per sconfinare, e continua a sconfinare sempre più vistosamente, verso l’appropriazione di poteri sostanzialmente legislativi. Non senza il farisaico e immancabile richiamo alla necessità di un intervento diretto da parte di quel Parlamento al quale risparmia la fatica di legiferare con generosità democraticamente ostentata.

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La Corte Costituzionale come è noto ha elaborato accanto alla tipologia di sentenze previste dalla legge istitutiva, anche le sentenze cosiddette non per nulla «manipolative» con le quali introduce novità normative dichiarandola incostituzionale per quello che non c’è (sentenze additive), cioè quello che ritiene un vuoto illegittimo. Ma anche aggiungendo direttamente qualcosa a quello che c’è (sentenze sostitutive).   Insomma un paradosso che, al di là delle critiche sparse, è stato accettato per quello che è, sicché una invenzione sostanzialmente arbitraria si è trasformata in prassi riconosciuta. Questo a partire dai lontani anni Sessanta del Novecento quando attraverso una sentenza di tal fatta si estesero all’istruzione sommaria del Pubblico Ministero i diritti già garantiti all’imputato nella istruzione formale tenuta dal giudice istruttore, secondo il rito di allora.   Forse la benevolenza con cui fu accolta la trovata della Corte Costituzionale, mise in ombra la finestra che si apriva su una vera e propria usurpazione di potere nei confronti del Parlamento. E oggi sappiamo berne come il principio della separazione dei poteri consacrato da Montesquieu quale antidoto all’arbitrio, sia diventato un superato pezzo di antiquariato nella contemporaneità del caos istituzionale e istituzionalizzato.   Va aggiunto che se la Corte Costituzionale si sostituisce di fatto al Parlamento, pur invocando farisaicamente un suo successivo intervento «riparatore», mostra di fare da cassa di risonanza di istanze provenienti dalla collettività e quindi rappresentative di esigenze profonde e generalizzate. Quando sappiamo che certi orientamenti, enfatizzati dai mezzi di comunicazione e dettati da poteri sovraordinati impegnati ad imporre idee fittizie spesso in conflitto col sentire comune.   Veniamo dunque alla iniziativa legislativa della Regione Toscana, che il governatore ha definito con orgogliosa sicurezza «un forte messaggio di civiltà».   La Corte Costituzionale con la sentenza 242 del 2019, ha risposto prontamente alle spinte propagandistiche di una ben orchestrata campagna mediatica. Quella che facendo leva non sulla ragione, sull’etica, e tanto meno sulla logica giuridica, punta sulle «emozioni», la nebulosa che ha sostituito il buon senso con il senso comune e che costituisce il grimaldello capace di scardinare il pensiero, le ragioni dell’etica e del diritto, qualunque spazio di trascendenza e di saggezza, anche religiosamente ispirato.   Ma a dispetto di ogni esigenza superiore, oggi le emozioni si comprano e si vendono a buon mercato nella società del consumo di massa, con la Chiesa in ritirata e la incapacità diffusa di guardare filosoficamente e soprattutto razionalmente, al di là della materialità quotidiana e della prospettiva personale.   Questo il terreno favorevole perché il nuovo zeitgeist facesse sentire i giudici della Corte obbligati a forzare il contenuto e il senso della norma penale che fissa e sancisce la indisponibilità della vita umana.   Anche se non si arriva ancora a introdurre norme penali incriminatrici in via di sentenza, dato che vige ancora, bontà loro. Il principio di legalità «nullum crimen sine lege», viene introdotta tuttavia una causa di non punibilità la quale, se sfugge a quel principio, si presenta comunque come una novità introdotta di fatto nel codice penale. «Non è punibile chi agevola l’altrui suicidio se la persona è tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale».   Poi con la sentenza n.153 del 2024 la Corte ha indicato i soggetti, all’interno delle strutture ospedaliere competenti ad accertare le condizioni capaci di legittimare la condizione di non punibilità dell’aiuto al suicidio, aggirando l’ostacolo di una inaccettabile e sconveniente invasione normativa in campo penale. Insomma, ha stabilito sempre in via surrettizia, che la decisione sull’assistenza al suicidio venga presa in ambito sanitario, affidata alla direzione e al controllo di organi interni alle strutture ospedaliere.   Questa ospedalizzazione dell’aiuto al suicidio è non solo un escamotage per aggirare gli straripamenti di potere, ma anche per aprire la strada, volontariamente o meno, questo non sappiamo, ad interventi «regionali» come quello puntualmente arrivato dalla Regione Toscana, che si sottraggono apparentemente al conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato.   Infatti mentre la materia penale è sottratta alle competenze legislative della Regione, la materia sanitaria rientra nelle competenze concorrenti, per cui a determinate condizioni la Regione può legiferare legittimamente e, appunto così ha preteso di fare, applicando tutte le direttive pratiche indicate dalla Corte, circa la procedura per la «assistenza al suicidio».   Ora non va dimenticato a questo proposito come la strada per legittimare questo marchingegno sia stata inaugurata già nel 2009 col caso Englaro, quando sulla scia dell’altrettanto tragica vicenda dell’americana Terri Schiavo, di qualche anno prima, abbiamo assistito impotenti alla uccisione in sede ospedaliera su autorizzazione del giudice di Cassazione.   Il fenomeno si è poi amplificato in con l’esempio inaudito offerto ripetutamente in questi anni dagli ospedali londinesi e dal sistema giudiziario britannico per cui un giudice ha potuto affidare ai «sanitari» il potere di uccidere impunemente bambini di pochi mesi, ritenuti socialmente inutili perché malati, e nella impossibilità imposta ai genitori di sottrarli a quella «condanna a morte».

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Doppia inaudita mostruosità, che mentre esibisce il capovolgimento dei valori morali fondamentali, manda al macero secoli di cultura giuridica sbandierata dall’Occidente come propria conquista distintiva.   Una inedita ferocia praticata impunemente in ambiente sterile (sotto ogni punto di vista) e impunemente imposta ad una società che appare ormai lobotomizzata, perché se non lo fosse si ribellerebbe a tante mostruosità.   Perché si renderebbe conto che il trasferimento in ambito ospedaliero del potere di uccidere da parte di una autorità giurisdizionale, rappresenta in modo esemplare proprio quella micidiale confusione e commistione di poteri in cui si consuma il sopravvento di un potere politico emancipato da ogni principio regolatore e da ogni criterio di legittimazione.   Per questo occorre tenere sempre presente il problema del circolo vizioso della legge che in quanto espressione necessaria del potere politico che la pone, è esposta a divenire oggetto del suo arbitrio anche se nasce proprio per sottrarre la società al caos e all’arbitrio. Insomma il pericolo dello abuso del diritto per finalità contrarie a quelle che il diritto è chiamato a perseguire.   Basterebbe ricordare come tra Settecento e Ottocento sulla scia dell’illuminismo si sia formata quella scienza del diritto penale che, occorre ripeterlo, nell’epoca in cui è ancora in auge la tortura, mirava a proteggere il cittadino, attraverso la precisa determinazione dei delitti e delle pene, e le regole per la applicazione della legge, dallo arbitrio del giudice e dall’arbitrio del potere.   In ultima analisi va detto come si venga consolidando di nuovo uno slittamento semantico volto a creare l’ambiente psicologicamente adeguato per l’accettazione diffusa di questa nuova realtà. Infatti non si nomina più neppure il suicidio, ma genericamente il «fine vita» che oscura «la morte inflitta» a sé o ad altri, per coprirla con il mantello eterno e destinale della natura che fa il proprio corso.   L’ennesimo gioco di parole già messo a segno, perché adottato da molti inconsapevolmente, per l’ennesimo oltraggio al diritto come alla natura e alla dignità immutabile dell’uomo. Perché quest’ultima è cosa diversa dal concetto mutevole e variegato che ogni congrega di nichilisti in carriera, cerca di imporre per riempire il vuoto delle proprie idee con il vuoto delle parole senza copertura di un pensiero vitale, l’unico meritevole di essere trasmesso.   In questo quadro va collocato da ultimo per motivi di cronologia, ma di importanza capitale nel l’ambito delle considerazioni espresse sopra, anche il tema della cosiddetta intelligenza artificiale.

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La nuova sirena in breve tempo ha già acquistato il potere di abbacinare le moltitudini che incantate dai suoi prodigi, sono incapaci di guardare al di là delle luci, una enorme voragine già spalancata.   Nel campo della istruzione come del comune sentire, della guerra come della normale vita di relazione, delle capacità cognitive e del normale sviluppo delle maturazioni esistenziali, nella elaborazione del pensiero in generale.   E se torniamo all’argomento specifico di cui qui si è parlato, questo strumento a dir poco allarmante, dovrebbe presentarsi in tutta la sua inquietante forza distruttiva.   Non so se i giudici, il legislatore, i politici o i vari Cappati, si siano posti il problema di come anche la vita e la morte, oltre al tutto il resto, possano essere allegramente affidati ad un o giocattolo perverso del quale si perde il controllo e al quale vengono affidate le chiavi dell’esistenza. Perché è ad esso che domani sarà delegato il potere soprannaturale di decidere, chi, come e quando e fino a quando si può vivere, morire o sopravvivere.   Il gigante è pronto a divorare i suoi figli come negli antichi miti premonitori.   Patrizia Fermani

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Persecuzioni

La nuova Costituzione della Siria post-Assad sancisce la legge islamica della sharia

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La scorsa settimana il capo del movimenti islamista Hayat Tahrir al-Sham (HTS) e autoproclamato presidente Ahmed al-Sharaa (già noto, e ricercato dagli USA, come il terrorista di Al Qaeda e ISIS Abu Mohammad al-Jolani) ha firmato una nuova dichiarazione di una Costituzione provvisoria per la nuova Siria.

 

Un comitato di nominati dall’HTS l’ha elaborato (o almeno una bozza parziale) in una commissione, e rende chiaramente la legge islamica o sharia la nuova legge del Paese.

 

Per la prima volta nella storia della Siria, la costituzione riconosce la legge islamica come fonte principale della giurisprudenza. In precedenza, il governo di Assad riconosceva la legge islamica solo come fonte, o una delle tante fonti.

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La famiglia Assad apparteneva risaputamente alla fede islamica alawita, e quindi ha operato in modo tale da garantire protezione a tutte le minoranze religiose non sunnite. Tuttavia queste protezioni sono state chiaramente ora rimosse, nel mezzo di un massacro in corso che ha preso di mira principalmente gli alawiti nelle regioni costiere della Siria, dove migliaia di persone sono morte.

 

Sotto Assad, i cristiani in particolare vivevano la loro fede in modo molto pubblico, il che includeva parate nelle strade delle principali città durante festività come Natale e Pasqua. La festa di San Giorgio era spesso accompagnata anche da celebrazioni pubbliche in varie città cristiane. Aveva fatto scalpore il caso degli alberi di Natale dati alle fiamme negli scorsi mesi.

 

Sappiamo che ora i cristiani vivono nella paura, e tutte le feste della chiesa sono state cancellate del tutto o almeno notevolmente attenuate. Di recente ci sono state segnalazioni secondo cui a Damasco i militanti di HTS hanno invaso ristoranti e bar, rimproverando e insultando i cristiani per aver mangiato e bevuto durante il digiuno musulmano del Ramadan.

 

I cristiani sono tra le vittime dei massacri della nuova Siria in mano ai takfiri, definiti ridicolmente da Israele come «jihadisti educati». Cristiani e alawati sono oggi oggetto di stragi che qualcuno ha chiamato «neo-ottomane», perpetrate da forze armate nelle cui posizioni di rilievo sono stati nominati jihadisti da tutto il mondo. – basti pensare che il nuovo capo dell’Intelligence damascena è un uomo designato come terrorista dall’ONU.

 

Tra le poche voci levatesi in loro difesa, quella di monsignor Viganò.

 

«Questo genocidio si compie oggi sotto i nostri occhi, nel silenzio dei parlamenti delle Nazioni «democratiche» e di una Gerarchia «cattolica» asservita agli interessi del globalismo» ha detto il vescovo in una dichiarazione.

 

«I nostri fratelli Cristiani sono barbaramente uccisi nelle città e nei villaggi. Anziani, donne e bambini vengono crocifissi e massacrati solo a causa della loro Fede: una Fede che decenni di compromessi e cedimenti hanno quasi completamente cancellato nei Paesi occidentali e specialmente nei loro governanti».

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«Non possiamo rimanere in silenzio né inerti dinanzi al martirio dei nostri fratelli Cristiani» esclama l’arcivescovo. «Quelle scene di violenza disumana e crudeltà che vediamo accadere in terre remote potrebbero domani replicarsi nelle nostre Nazioni, che il tradimento di governanti corrotti ha fatto invadere da orde di fanatici maomettani in età militare, per imporre all’Europa la sostituzione etnica e la cancellazione definitiva della Civiltà cristiana».

 

Esorto i Cattolici, in questi giorni della Santa Quaresima, a pregare, a digiunare e a fare penitenza per impetrare al Cielo protezione sui fedeli perseguitati e martirizzati in Siria, a Gaza e in molte altre parti del mondo» dice monsignore. «Possa il loro esempio di eroica fermezza nella professione della vera Fede animare, prima che sia troppo tardi, un risveglio delle coscienze dei Cristiani e un ritorno a Dio, dal quale dipende la pace, la concordia e prosperità dei popoli».

 

Viganò terminava il messaggio con delle parole latine di grande significato: «Deus vult!».

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Stato

La Papua Nuova Guinea si definisce come «Paese cristiano»: emendamento della Costituzione

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Il Parlamento della Papua Nuova Guinea ha approvato un emendamento costituzionale che riconosce formalmente la nazione come «cristiana».   La decisione, presa martedì (12 marzo), ha ottenuto una schiacciante maggioranza di 80 voti a favore e solo quattro contrari.   L’emendamento introduce una dichiarazione nel preambolo della Costituzione, che recita: «(Noi) riconosciamo e dichiariamo Dio, il Padre; Gesù Cristo, il Figlio; e lo Spirito Santo, come nostro Creatore e Sostenitore dell’intero universo e fonte dei nostri poteri e autorità, delegati al popolo e a tutte le persone all’interno della giurisdizione geografica della Papua Nuova Guinea». Il cristianesimo sarà ora rispecchiato anche nel Quinto Obiettivo della Costituzione e la Bibbia sarà riconosciuta come simbolo nazionale.   «Sono felice» ha dichiarato il primo ministro James Marape, fervente sostenitore dell’emendamento, ha espresso la sua soddisfazione per l’esito. «Questo emendamento costituzionale riconosce finalmente il nostro Paese come Paese cristiano. Ciò riflette, nella sua forma più alta, il ruolo che le chiese cristiane hanno svolto nel nostro sviluppo come Paese».   L’emendamento è il risultato di ampie consultazioni condotte dalla Commissione per la riforma del diritto costituzionale della Papua Nuova Guinea nel 2022. Comunità, chiese e gruppi della società civile di tutto il Paese hanno preso parte alle discussioni, riscontrando un ampio sostegno al cambiamento.   Il premier Marape ha sottolineato il contributo storico e attuale delle chiese cristiane all’unità e allo sviluppo della Papua Nuova Guinea. «Con così tanta diversità, lingue, culture associate e affiliazioni tribali, nessuno può contestare il fatto che le chiese cristiane abbiano consolidato l’unità e la coesione del nostro Paese», ha affermato, sottolineando il ruolo delle chiese nel fornire servizi in aree in cui la presenza del governo è limitata.   Marape ha anche chiarito che l’emendamento non viola i diritti delle persone che praticano altre religioni. L’articolo 45 della Costituzione della Papua Nuova Guinea, che tutela la libertà di coscienza, di pensiero e di religione, rimane intatto.   Come riportato da Renovatio 21, la visita di Bergoglio dell’anno scorso nel Paese aveva visto una strage di donne e bambini in una faida tra villaggi. Scontri con armi da fuoco erano stati registrati anche in un altro episodio nelle Highlands. Il tema del tribalismo guineano era emerso anche dopo le confuse parole dell’ex presidente statunitense Joe Biden, che aveva raccontato di aver avuto uno zio cannibalizzato nel Paese durante la Seconda Guerra Mondiale.   La Nuova Guinea divide il territorio dell’isola della Guinea con l’Indonesia, che con 281,2 milioni di abitanti rappresenta il più grande Paese islamico al mondo.   Non resta che prendere atto che uno Stato può dirsi cristiano solo se piccolo e lontano dall’Europa: al di là di orpelli insignificanti magari ancora presenti in qualche monarchia nordica, nessuno Stato moderno può, come noto, dirsi «cristiano», perché deve votarsi – monoteisticamente – alla «laicità dello Stato», per ragioni che riguardano la storia degli ultimi due secoli ma anche il potere vero esercitato da gruppi occulti che ancora oggi possiedono bottoni del sistema.   Nessuno «Stato cristiano» è possibile: l’idea stessa è definita «sovversiva», come capitò a Renovatio 21 di sentire anni fa in un comune dell’Emilia comunista dove si stava organizzando un convegno sulla famiglia.   Lo «Stato cristiano», quindi, è per tutti tabù.

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Come insiste Renovatio 21, ciò è soprattutto vero per quella parte del mondo dove più che ne avrebbe necessità, e diritto: la Terra Santa. Dove, come abbiamo ripetuto, lasciano esistere uno Stato Ebraico e persino uno Stato Islamico (ad un certo punto, Israele e ISIS condividevano un confine) ma giammai uno Stato cristiano.   Una vocina dice: se non sorgerà uno Stato neocrociato a Gerusalemme, mai potrà sorgere uno Stato cristiano altrove. E cioè: nessuna possibilità di riforma umana degli Stati moderni, proiettati verso la decadenza più sadica e satanicamente programmata.   Se i cristiani non capiscono questo, come possono pensare di tornare ad essere rilevanti, e salvare i propri fratelli dalla persecuzione?

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