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Politica

Il premier indiano Modi in campagna elettorale prova a seminare zizzania tra cristiani e musulmani

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

In un comizio nel Jharkhand alla vigilia ormai dell’ultimo dei sette appuntamenti con le urne il primo ministro indiano ha attaccato alcune scuole che hanno adottato il venerdì come giorno festivo al posto della domenica, sostenendo che «dopo gli indù adesso gli islamici combattono anche i cristiani». Ha inoltre giurato che i musulmani «non saranno mai ammessi ai sussidi per dalit e tribali».

 

Un comizio elettorale a Dumka nello Stato settentrionale del Jharkhand alla viglia della settimana e ultima tornata delle elezioni politiche in India è diventato ieri per il premier Narendra Modi un’occasione per provare a gettare zizzania tra cristiani e musulmani, le due più folte minoranze del Paese.

 

Per prendere di mira il governo del Jharkhand – guidato da una forza politica locale alleata del Congress, con i nazionalisti indù del BJP all’opposizione – si è scagliato contro i risultati di un’indagine da cui è emerso che alcune scuole di Jamtara hanno cambiato il giorno festivo al venerdì invece della domenica universalmente accettata in India.

 

«Prima i musulmani hanno attaccato gli indù. Adesso combattono anche i cristiani», ha dichiarato Modi.

 

In realtà – annullando la decisione presa due anni prima da 43 scuole statali di cambiare il giorno settimanale di riposo al venerdì – il governo guidato dal Jharkhand Mukti Morcha (JMM), nel 2022, aveva ripristinato la domenica come giorno ufficiale di vacanza. In alcune scuole nelle aree di Jamtara – dove è forte la presenza musulmana – questa indicazione non sarebbe stata seguita. Anche se il deputato locale Irfan Ansari invita a non dare «a una questione banale una connotazione settaria».

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Nel comizio Modi ha anche ribadito l’affermazione secondo cui il blocco INDIA (lo schieramento che riunisce le forze dell’opposizione) aprirà ai musulmani «su base religiosa» le quote di posti di lavoro e altri benefici che la legge indiana riserva alle categorie svantaggiate.

 

«Giurò che finché sarò in vita, non riusciranno a strappare la riserva ai tribali, ai dalit, alle classi estremamente arretrate per darla ai musulmani che fanno il “jihad del voto”», ha detto Modi.

 

Quella per l’inclusione nel sistema delle quote anche di dalit e tribali cristiani è una battaglia che da anni anche i cattolici indiani portano avanti, ma è sempre stata respinta dai nazionalisti indù, gli stessi che puntano il dito contro le cosiddette «conversioni forzate».

 

E proprio nel Jharkhand, al servizio delle locali popolazioni tribali, ha vissuto il suo impegno per tanti anni padre Stan Swamy, il gesuita indiano morto di COVID nel 2021 dopo quasi 9 mesi trascorsi in carcere a 84 anni per false accuse di favoreggiamento del terrorismo, nonostante le ripetute sollecitazioni giunte a Modi per la sua liberazione.

 

Proprio contro una visione settaria della società la Conferenza episcopale indiana si era espressa con chiarezza nel documento con cui aveva indetto per lo scorso 22 marzo una giornata di digiuno e di preghiera in vista del voto. Quel testo denunciava l’affermarsi di «atteggiamenti divisivi, discorsi di odio e movimenti fondamentalisti che erodono l’ethos pluralista che ha sempre caratterizzato il nostro Paese».

 

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Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Immagine di Press Information Bureau / Prime Minister’s Office via Wikimedia pubblicata su licenza Government Open Data License – India (GODL)

 

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Politica

Video di violenza anale su detenuto palestinese, Netanyahu si esprime sul «più grave attacco di PR» subito da Israele

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La fuga di notizie con il video che mostra presumibilmente soldati israeliani intenti ad abusare sessualmente di un prigioniero palestinese rappresenta «il più grave attacco di pubbliche relazioni contro Israele», ha affermato il primo ministro dello Stato Giudaico Benjamin Netanyahu. Lo riporta il Times of Israel.   Il filmato, registrato nella base di Sde Teiman, vicino al confine con Gaza, ritraeva i soldati che trascinavano via un detenuto bendato e lo circondavano con scudi antisommossa mentre presumibilmente perpetravano l’abuso. Trapelato sul canale israeliano 12, il video di violenza anale militare fu trasmesso nell’agosto 2024 e provocò un’ampia indignazione.   Il detenuto fu in seguito ricoverato per perforazione intestinale, gravi lesioni anali e polmonari e costole fratturate. Cinque riservisti furono inizialmente indagati per stupro, ma le accuse a loro carico vennero poi declassate a «grave abuso», stando a un atto d’accusa di febbraio. Tutti hanno respinto le imputazioni e il processo è ancora in corso.

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Lo scandalo è riesploso venerdì dopo che la principale avvocata militare delle Forze di difesa israeliane (IDF), la maggiore generale Yifat Tomer-Yerushalmi, ha ammesso di aver autorizzato la diffusione del video e ha rassegnato le dimissioni dall’incarico.   Nel corso di una riunione di gabinetto svoltasi domenica, Netanyahu ha condannato lo scandalo, sostenendo che la fuga di notizie «ha causato un enorme danno alla reputazione di Israele, delle IDF e dei nostri soldati».   «Si tratta forse dell’attacco alle pubbliche relazioni più grave che Israele abbia mai subito dalla sua fondazione: non ricordo nulla di così concentrato e intenso», ha dichiarato Netanyahu, scrive il Times of Israel, invocando «un’inchiesta indipendente e imparziale».   La fuga di notizie è seguita all’arresto dei riservisti accusati di abusi, che aveva scatenato sommosse tra i militanti di destra che ne reclamavano il rilascio. Nella lettera di dimissioni, la Tomer-Yerushalmi ha spiegato di aver diffuso il video a fronte di pressioni volte a ostacolare le indagini sull’episodio, ribadendo che il suo dovere era intervenire in presenza di «ragionevole sospetto di violenza contro un detenuto».   Nelle scorse ore la Tomer-Yerushalmi è stata arrestata, hanno riportato testate di tutto il mondo.   Diversi esponenti politici di destra, tra cui il ministro della Difesa Israel Katz, hanno in seguito sostenuto che la divulgazione dei filmati delle telecamere di sicurezza equivalesse a una «accusa del sangue» nei confronti dei soldati accusati ingiustamente, nonostante le incriminazioni a loro carico. La scorsa settimana è stata aperta un’indagine penale sulla fuga di notizie.   Il caso ha suscitato dure critiche da parte di una commissione ONU che indaga sul trattamento riservato da Israele ai palestinesi, la quale ha affermato che esso «rappresentava la punta dell’iceberg». La commissione ha constatato che i detenuti di Sde Teiman e di altri centri di detenzione israeliani venivano sistematicamente ammanettati, picchiati e sottoposti ad atti di natura sessuale. Queste e altre conclusioni emerse all’inizio di quest’anno hanno indotto l’ONU ad accusare Israele di genocidio contro i palestinesi.

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Come riportato da Renovatio 21, alcuni politici israeliani si sono sentiti di difendere lo stupro anale del prigioniero palestinese, con conseguente scandalo generale anche presso la stessa opinione pubblica dello Stato Ebraico.   Come riportato da Renovatio 21, mesi fa lo stesso esercito israeliano ha iniziato delle indagini riguardante il video che ritrae soldati dello Stato Ebraico che gettano cadaveri di palestinesi dai tetti.   Come riportato da Renovatio 21abusi da parte dei militari israeliani sono diffusi sui social, come ad esempio il canale Telegram «72 vergini – senza censura», dove vengono caricati dagli stessi militari video ed immagini di quella che si può definire «pornografia bellica». Vantando «contenuti esclusivi dalla Striscia di Gaza», il canale 72 Virgins – Uncensored ha più di 5.000 follower e pubblica video e foto che mostrano le uccisioni e le catture di militanti di Hamas, nonché immagini dei morti.

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Immagine di pubblico dominio CCo via Flickr
 
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Politica

Scontri tra manifestanti e sostenitori del governo nelle strade di Belgrado

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Sostenitori e oppositori del presidente serbo Aleksandar Vucic e del suo partito di governo SNS si sono scontrati domenica nelle strade di Belgrado, in occasione del primo anniversario del crollo della pensilina di una stazione ferroviaria, che causò la morte di 16 persone e innescò proteste in tutto il Paese.

 

I manifestanti, molti dei quali studenti universitari, esigono che venga accertata la responsabilità della tragedia di Novi Sad, avvenuta il 1° novembre 2024, e accusano il governo di corruzione e cattiva gestione.

 

Una folla guidata da Dijana Hrkalovic, il cui figlio è deceduto nel crollo, si è riunita davanti al palazzo del parlamento serbo.

 

Nel frattempo, i sostenitori del governo e gli studenti contrari alle tattiche dei manifestanti di bloccare le università si sono radunati nel parco Pionirski, dove sono accampati da marzo.

 


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Scontri sporadici sono esplosi tra i gruppi rivali, nonostante gli sforzi della polizia per tenerli separati.

Il ministero dell’Interno serbo ha attribuito la responsabilità delle violenze a «un gruppo organizzato» all’interno dei manifestanti antigovernativi, sostenendo che una tenda nel Parco Pionirski era stata data alle fiamme. I sostenitori del movimento studentesco di blocco hanno affermato che gli attivisti pro-SNS hanno scagliato per primi i proiettili.

 

Vucic, che ha ripetutamente sostenuto che le proteste erano state istigate dall’estero, ha respinto le accuse secondo cui i suoi sostenitori sarebbero responsabili degli scontri. «I difensori del blocco non possono tollerare la democrazia o opinioni divergenti», ha dichiarato domenica a Informer TV. Il presidente ha osservato che diversi uffici dell’SNS sono stati incendiati dal 2024.

 

Gli scontri vanno oramai avanti da mesi.

 

Come riportato da Renovatio 21, Belgrado nel dicembre 2023 produsse evidenti segni di «maidanizzazione» in corso. Già allora presidente serbo accusò le potenze occidentali di tentare di «ricattare» la Serbia affinché sostenga le sanzioni e di tentare di orchestrare una «rivoluzione colorata» – una sorta di Maidan belgradese –contro il suo governo a dicembre.

 

All’epoca il governo serbo in quel caso aveva ringraziato pubblicamente i servizi segreti russi per il loro aiuto, come confermato in seguito dal Vucic.

 

Vucic, che lo scorso 9 maggio era unico leader europeo con lo slovacco Fico a partecipare alla parata di Mosca per la Vittoria sulla Seconda Guerra Mondiale, mesi fa ha dichiarato che l’Occidente ha speso miliardi per tentare di rovesciarlo.

 

Come riportato da Renovatio 2, negli scorsi giorni Belgrado è stata scossa da quello che il presidente ha descritto come un «terribile attacco terroristico». Un uomo di 70 anni avrebbe aperto il fuoco nella capitale serba e dato fuoco a una tenda.

 

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Politica

La vincitrice del premio Nobel per la pace chiede un attacco militare al suo Paese

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Il rafforzamento militare statunitense al largo delle coste venezuelane potrebbe contribuire a un cambio di regime, ha affermato la figura dell’opposizione Maria Corina Machado.   La vincitrice del Premio Nobel per la Pace di quest’anno ha dichiarato che accoglierebbe con favore gli attacchi statunitensi sul Paese se contribuissero a rimuovere il presidente Nicolas Maduro.   Washington ha accusato Maduro di avere legami con i cartelli della droga, definendolo un «narcoterrorista». All’inizio di quest’anno, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha schierato una flotta navale nei Caraibi occidentali e, da settembre, le forze statunitensi hanno attaccato presunte navi dedite al traffico di droga al largo delle coste venezuelane.   I media riportano che Washington sta espandendo la sua presenza navale, con analisti che suggeriscono che la missione potrebbe estendersi oltre la lotta al narcotraffico. Trump ha negato di pianificare attacchi diretti in Venezuela, ma avrebbe esaminato un elenco di potenziali obiettivi.

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Alla domanda se appoggiasse l’azione militare statunitense nel programma The Mishal Husain Show di Bloomberg, Machado ha risposto: «Credo che l’escalation in atto sia l’unico modo per costringere Maduro a capire che è ora di andarsene».   La premio Nobel ha affermato che Maduro ha preso il potere «illegalmente» nelle elezioni dello scorso anno, dalle quali le è stato impedito di partecipare. Machado ha anche affermato che il candidato dell’opposizione Edmundo Gonzalez Urrutia ha vinto le elezioni. Destituire Maduro, ha affermato, non sarebbe un «cambio di regime nel senso convenzionale», poiché «non è il presidente legittimo», ma «il capo di una struttura narcoterroristica».   «Questo non è un cambio di regime, è l’imposizione della volontà del popolo venezuelano», ha sottolineato.   Maduro ha accusato Machado di aver canalizzato fondi statunitensi verso gruppi antigovernativi «fascisti», definendola una copertura per l’ingerenza di Washington negli affari venezuelani. Machado ha avuto stretti contatti con il governo degli Stati Uniti per decenni. Nel 2005, l’allora presidente George W. Bush la ricevette nello Studio Ovale.   Alla domanda se la forza militare statunitense sia l’unico modo per rimuovere Maduro, Machado ha affermato che la sola minaccia potrebbe essere sufficiente: «era assolutamente indispensabile avere una minaccia credibile». La Machado ha aggiunto che l’opposizione venezuelana è «pronta a prendere il controllo del governo», sostenuta dall’esercito e dalla polizia, sostenendo che «oltre l’80% di loro si sta unendo e farà parte di questa transizione ordinata non appena inizierà».   Maduro ha negato le accuse di traffico di droga mosse dagli Stati Uniti, accusando Trump di «aver inventato una nuova guerra». Secondo uno scoop del New York Times, Maduro avrebbe offerto grandi concessioni economiche agli USA, che epperò sarebbero irremovibili sulla sua detronizzazione.   Come riportato da Renovatio 21, Caracas ha definito le operazioni statunitensi una violazione della sovranità e un tentativo di colpo di Stato, e avrebbe chiesto aiuto a Russia, Cina e Iran per rafforzare le proprie difese.   Come riportato da Renovatio 21, sarebbero 16.000 i soldati USA schierati al largo delle coste venezuelane. Trump due settimane fa ha ammesso pubblicamente di aver dato l’autorizzazione alle operazioni della CIA in Venezuela.

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Immagine di World Economic Forum via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-ShareAlike 2.0 Generic
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