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Sanità

I ventilatori polmonari hanno contribuito alla morte di pazienti COVID?

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Uno studio analitico pubblicato sul Journal of Clinical Investigation il mese scorso ha rilevato che la maggior parte dei pazienti COVID che necessitavano dell’aiuto di un ventilatore polmonare sviluppava anche una polmonite batterica secondaria.

 

«Nonostante le linee guida promuovessero la prevenzione e il trattamento aggressivo della polmonite associata al ventilatore (VAP), l’importanza della VAP come driver degli esiti nei pazienti ventilati meccanicamente, compresi i pazienti con COVID-19 grave, rimane poco chiara» scrivono i ricercatori, che sono numerosi e distribuiti internazionalmente, nel background del loro paper. «Abbiamo mirato a determinare il contributo del trattamento infruttuoso della VAP alla mortalità nei pazienti con polmonite grave».

 

Il gruppo di ricerca ha eseguito uno studio prospettico di coorte monocentrico su 585 pazienti ventilati meccanicamente con polmonite grave e insufficienza respiratoria, 190 dei quali affetti da COVID-19, sottoposti ad almeno un lavaggio broncoalveolare. Un gruppo di medici di terapia intensiva ha giudicato gli episodi di polmonite e gli endpoint sulla base di dati clinici e microbiologici. Data la durata relativamente lunga della degenza in terapia intensiva tra i pazienti con COVID-19, è lo studio ha sviluppato un approccio di apprendimento automatico chiamato CarpeDiem, che raggruppa giorni di pazienti in terapia intensiva simili in stati clinici sulla base dei dati delle cartelle cliniche elettroniche.

 

«CarpeDiem ha rivelato che la lunga degenza in terapia intensiva tra i pazienti con COVID-19 è attribuibile a lunghi soggiorni in stati clinici caratterizzati principalmente da insufficienza respiratoria» scrivono nei risultati. «Mentre la VAP non era associata alla mortalità in generale, la mortalità era più alta nei pazienti con un episodio di VAP trattata senza successo rispetto a VAP trattata con successo (76,4% contro 17,6%, P <0,001).

 

«In tutti i pazienti, compresi quelli con COVID-19, CarpeDiem ha dimostrato che la VAP non risolta era associata a transizioni a stati clinici associati a mortalità più elevata».

 

«Il trattamento infruttuoso della VAP è associato a una maggiore mortalità. La durata relativamente lunga della degenza tra i pazienti con COVID-19 è principalmente dovuta a un’insufficienza respiratoria prolungata, che li espone a un rischio più elevato di VAP» concludono gli scienziati.

 

«Il nostro studio evidenzia l’importanza di prevenire, cercare e trattare in modo aggressivo la polmonite batterica secondaria nei pazienti in condizioni critiche con polmonite grave, compresi quelli con COVID-19», afferma Benjamin Singer, pneumologo presso la Northwestern University in Illinois.

 

Secondo Science Alert, i risultati confutano l’idea che una tempesta di citochine in seguito a COVID-19 – la travolgente risposta infiammatoria che causa insufficienza d’organo – sia stata responsabile di un numero significativo di decessi, in quanto «non c’era evidenza di insufficienza multiorgano nei pazienti studiati».

 

In altre parole, se non abbiamo capito male, sebbene COVID-19 possa aver portato queste persone in ospedale, l’infezione secondaria della polmonite batterica dopo essere stai messi su un ventilatore polmonare sarebbe responsabile del più alto tasso di mortalità tramite la cosiddetta Polmonite Associata al Ventilatore (VAP).

 

«Coloro che erano guariti dalla loro polmonite secondaria avevano maggiori probabilità di sopravvivere, mentre quelli la cui polmonite non si risolveva avevano maggiori probabilità di morire», dice Singer.

 

«I nostri dati suggeriscono che la mortalità correlata al virus stesso è relativamente bassa, ma altre cose che accadono durante la degenza in terapia intensiva, come la polmonite batterica secondaria, lo compensano».

 

I ricercatori sono attenti a sottolineare che i risultati non diminuiscono i rischi per la salute del COVID-19 stesso, in quanto il paziente che necessita di un ventilatore sta già vivendo problemi respiratori a causa del coronavirus, dicono.

 

«Vale la pena ricordare che se la necessità di un ventilatore da parte di un paziente per il trattamento delle complicanze da COVID-19 porta a VAP, ciò non implica che un’infezione da COVID-19 sia meno pericolosa, né diminuisce il numero di decessi da COVID-19» scrive Science Alert.

 

Lo studio conferma resoconti arrivati anche ai media mainstream del 2020 secondo i quali circa il 90% dei pazienti COVID sottoposti a ventilazione meccanica è morto. «Un totale di 1.151 pazienti necessitava di ventilatori meccanici. Dei 320 per i quali sono noti gli esiti finali (morte o dimissione), l’88% è deceduto» annotava il Washington Post nel 2020 parlando del sistema sanitario di Nuova York.

 

All’epoca, tuttavia, era forte l’insistenza, più che sulle condizioni ci comorbilità preesistente o sui dubbi della ventilazione meccanica, riguardo al fatto che un morto con il COVID era un morto di COVID.

 

Tale terrore, come forse il lettore ricorda, è stato alla base della pratica dei lockdown e del mastodontico programma di vaccinazione di massa.

 

 

 

 

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Epidemie

Zero adulti sani sono morti di COVID in Israele

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Un dato scioccante è emerso: non una sola persona sana sotto i 50 anni è morta di Covid-19 in Israele. La conclusione arriva guardando i dati rilasciati dal ministero della salute del Paese in risposta a una richiesta di libertà di informazione dell’avvocato Ori Xabi.

 

Oltre a richiedere il numero di decessi per COVID-19 avvenuti in pazienti sotto i 50 anni senza condizioni di salute pregresse, Xabi ha anche chiesto al ministero di fornire l’età media dei pazienti deceduti a causa della malattia, segmentata per stato di vaccinazione, nonché il numero annuo di casi di arresto cardiaco tra il 2018 e il 2022.

 

L’età media dei decessi tra i vaccinati contro il COVID-19 era di 80,2 anni, mentre la media dei non vaccinati era di 77,4, secondo il ministero.

 

Tuttavia, il Ministero della Salute ha affermato di non essere in grado di fornire informazioni sull’arresto cardiaco per gli anni 2021 e 2022, spiegando che le informazioni non erano ancora state trasferitegli.

 

Uno studio pubblicato lo scorso anno che analizzava i dati dei servizi medici di emergenza nazionali israeliani ha rilevato uno scioccante aumento del 25% delle chiamate ai servizi di emergenza a causa di arresti cardiaci per pazienti di età compresa tra 16 e 39 anni che si sono verificati da gennaio a maggio 2021.

 

Sharon Elroy-Pries, capo dei servizi di sanità pubblica per il Ministero della Salute israeliani, ha condannato gli sforzi per stabilire un collegamento con l’inizio del programma di vaccinazione COVID-19 nel dicembre 2020 e ha negato che vi sia stato un aumento degli arresti cardiaci durante tale tempo, o qualsiasi aumento dei decessi di giovani.

 

Il cardiologo Retsef Levi, uno degli autori dello studio, ha sottolineato che il ministero aveva affermato di non avere informazioni sugli arresti cardiaci per il 2021 e il 2022, il che significa che una delle due affermazioni dovrebbe essere falsa.

 

Mentre il ministero della Salute ha insistito sul fatto che i dati forniti a Xabi riguardanti i pazienti di età compresa tra 18 e 49 anni fossero limitati ai casi in cui era stata completata un’indagine epidemiologica, è noto che ha accesso a un database che include dati estesi su tutti i pazienti, comprese le condizioni sottostanti, indipendentemente dal fatto che sia stata eseguita un’indagine epidemiologica.

 

Il Ministero della Salute ha promesso di fornire dati sulla mortalità per tutte le cause segmentati per stato di vaccinazione ed età entro la fine del mese, dopo più di due anni di ostruzionismo in risposta alle richieste di libertà di informazione dell’avvocato Xabi.

 

Israele è divenuto Paese pilota delle norme COVID, tra vaccinazioni sperimentali imposte immediatamente alla popolazione per tutte le dosi possibili (con voci di un accordo segreto con Pfizer), braccialetti di tracciamento, green pass che impediva perfino di comprare cibo ai totem elettronici.

 

Il ministro della Salute israeliano Nitzan Horowitz nel 2021 era stato sorpreso a dire in un fuori onda che «i green pass servono alla coercizione dei non vaccinati». Altri video trapelati mostrerebbero che il governo israeliano aveva nascosto le reazione avverse al vaccino, che, come riportato da Renovatio 21, parevano essere iniziate da subito.

 

I dati sulle vaccinazioni in Israele emersi ancora due anni fa erano stati definiti «allarmanti e scioccanti». Sull’efficacia sulla campagna di vaccinazione in Israele, dove nonostante la vasta sierizzazione i contagi impennavano, espresse dubbi perfino il New York Times.

 

Le rivelazioni degli zero morti per COVID tra i giovani israeliani si collegano ad altri studi come quello tedesco per cui zero bambini sani tra i 5 e i 18 anni sarebbero morti per COVID e i dati della Svezia, che non hanno riportato alcun decesso COVID tra i piccoli.

 

 

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Epidemie

Mezzo milione di test COVID contaminati da batteri

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L’ente regolatore americano per i prodotti farmaceutici FDA ha emesso un avviso ai consumatori sulla potenziale contaminazione batterica che interessa alcuni test domestici di COVID-19.

 

Nel comunicato diramato si legge che l’ente consiglia «ai consumatori e agli operatori sanitari di «smettere di usare e buttare via alcuni lotti di SD Biosensor, Inc. Pilot COVID-19 At-Home Tests, distribuiti da Roche Diagnostics».

 

Secondo la FDA, l’agenzia ha «significative preoccupazioni di contaminazione batterica» ​​nel componente soluzione liquida dei kit. «Il contatto diretto con la soluzione liquida contaminata può porre problemi di sicurezza e la contaminazione batterica potrebbe influire sulle prestazioni del test».

 

Nello specifico, i test potrebbero essere contaminati da specie batteriche di Enterococcus, Enterobacter, Klebsiella e Serratia, la cui infezione potrebbe causare malattie in individui con sistema immunitario indebolito o in coloro che hanno un’esposizione diretta alla soluzione di test liquida contaminata tramite uso improprio, fuoriuscite accidentali, o «gestione standard» del prodotto, riporta la testata americana Epoch Times.

 

Oltre a sviluppare un’infezione, i prodotti contaminati possono anche produrre risultati del test dell’antigene «falsi negativi» o «falsi positivi», ha affermato la FDA, il che potrebbe portare a una serie di problemi. Ad esempio, secondo la FDA, un test falso negativo potrebbe portare un individuo a cercare di sottoporsi ad un trattamento per COVID-19.

 

Non è chiaro quanti siano stati venduti ai consumatori, ha affermato la FDA, aggiungendo che sta «lavorando con Roche» per determinare il numero. Epoch Times riporta che circa 16.000 test sono stati inviati tramite Amazon.

 

Come riportato da Renovatio 21, la pericolosità dei tamponi, soprattutto i primi utilizzati durante la pandemia, prescinde dalla loro possibile contaminazione batterica.

 

«Sono ora state espresse preoccupazioni sull’uso di un noto cancerogeno, l’ossido di etilene (EtO), per sterilizzare i tamponi utilizzati per i test COVID» scriveva due anni fa l’Alliance for Natural Health International. «I bambini, in particolare i bambini piccoli, sono significativamente più sensibili alle esposizioni chimiche rispetto agli adulti che potenzialmente caricano la pistola per problemi di salute in età avanzata».

 

«Disinfettanti chimici aggressivi progettati per uccidere tutti i germi conosciuti: il costo che può richiedere sulla pelle delicata di un bambino, specialmente quelli che soffrono di malattie della pelle come l’eczema, può essere immenso e portare a una pelle dolorosa, screpolata e sanguinante, che è estremamente angosciante».

 

Dobbiamo anche ammettere di non sapere che fine abbia fatto la pratica cinese dei tamponi anali, cui sottoponevano i viaggiatori in aeroporto, soprattutto i membri dell’ambasciata americana.

 

 

 

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Razzismo

Gruppo formato per combattere la discriminazione «woke» nelle scuole di medicina

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Renovatio 21 traduce questo articolo di Bioedge.

 

 

Un gruppo di medici chiamato «Do No Harm» sta conducendo una campagna contro la «woke medicine» negli Stati Uniti.

 

In un articolo su The Free Press, il suo fondatore, il dottor Stanley Goldfarb, che ha trascorso la maggior parte della sua carriera presso la Perelman School of Medicine dell’Università della Pennsylvania, afferma: «la nostra tesi è che le scuole di medicina si stanno impegnando nella discriminazione razziale al servizio della diversità, e inclusione».

 

Il sito web del gruppo dice:

 

«Le scuole di medicina vengono rilevate da attivisti antirazzisti. Chiedono che i futuri medici siano formati per combattere l’ingiustizia e il razzismo invece di prendersi cura delle esigenze mediche uniche di ogni singolo paziente».

 

«Almeno 23 delle 25 migliori scuole di medicina americane hanno fatto dell’antirazzismo una parte fondamentale del loro curriculum, mentre altre istituzioni stanno creando programmi antirazzisti da implementare nelle scuole a livello nazionale. Questa campagna di divisione porterà solo alla discriminazione nell’assistenza sanitaria, il che è dannoso per i pazienti. Danneggerà anche la salute e il benessere dei pazienti abbassando gli standard per la scuola medica e la certificazione professionale».

 

Tuttavia, Do No Harm fa molto di più che lamentarsi delle politiche dei DEI [diversità, equità, inclusione, ndt] nelle scuole di medicina. Ha chiamato avvocati e afferma di aver presentato centinaia di reclami federali sui diritti civili e richieste di libertà di informazione alle università e ai dipartimenti governativi.

 

«Sicuramente gli attivisti radicali non si sono mai aspettati che qualcuno rivoltasse contro di loro lo stato amministrativo, ma è quello che abbiamo fatto», scrive. «E ha funzionato, anche sotto l’amministrazione Biden».

 

Nel suo articolo, elenca diversi tipi di discriminazione che sono emersi di nuovo quando le università hanno abbracciato la politica DEI.

 

  • «Borse di studio, borse di studio e programmi con criteri di ammissibilità che discriminano in base a razza/etnia». Ad esempio, un programma escludeva gli studenti bianchi e asiatici.

 

  • «Resegregare la medicina, inclusa l’idea che i medici neri forniscano un’assistenza sanitaria migliore ai pazienti neri rispetto ai medici di altre razze».

 

  • La segregazione nelle facoltà di medicina. Ad esempio, il New England Journal of Medicine ha pubblicato un articolo di medici e accademici dell’Università della California-San Francisco e dell’UC-Berkeley, sostenendo i «caucus del gruppo di affinità razziale» o RAGC, per gli studenti di medicina.

 

 

Michael Cook

 

 

 

 

Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

 

 

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