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Gli USA sapevano che Israele avrebbe ucciso il leader di Hamas: parla il capo dell’Intelligence iraniana

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Il ministro dell’Intelligence iraniano Esmail Khatib ha accusato gli Stati Uniti di aver dato il via libera ai piani di Israele di assassinare il capo politico di Hamas Ismail Haniyeh. Khatib ha rilasciato la dichiarazione venerdì in un messaggio di condoglianze per il defunto Haniyeh, ucciso mercoledì nella capitale iraniana, Teheran, dove si trovava per l’insediamento del nuovo presidente del Paese.

 

Nella dichiarazione, Khatib ha condannato l’assassinio di Haniyeh, definendolo una «grande perdita» per il mondo islamico.

 

«L’assassinio del martire Ismail Haniyeh, eseguito dagli invasori sionisti con il via libera degli Stati Uniti, ha dimostrato ancora una volta la crudeltà del regime sionista», ha affermato, come riportato dall’agenzia di stampa IRNA.

 

Lo Haniyeh è stato assassinato con una bomba fatta esplodere a distanza, introdotta di nascosto nella guesthouse di un complesso sorvegliato gestito dal Corpo delle guardie rivoluzionarie iraniane (IRGC), ha riferito in precedenza il New York Times, citando funzionari che hanno parlato a condizione di anonimato. La bomba sarebbe esplosa nella stanza di Haniyeh, uccidendo il leader di Hamas e una delle sue guardie del corpo e facendo crollare parzialmente un muro esterno dell’edificio.

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Teheran e Hamas hanno entrambe accusato lo Stato Ebraico di aver compiuto l’assassinio, cosa che quest’ultimo, more suo, non ha né confermato né smentito. Tuttavia, i resoconti dei media hanno affermato che funzionari dell’intelligence israeliana hanno informato Washington e altri governi occidentali sui dettagli dell’assassinio subito dopo.

 

Secondo un comunicato della Casa Bianca, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu hanno discusso di «nuovi schieramenti militari statunitensi» per aiutare Israele a difendersi da «tutte le minacce» in una chiamata di giovedì.

 

Durante la chiamata, il leader degli Stati Uniti ha ribadito che il suo paese rimane impegnato nella sicurezza di Israele contro l’Iran e i suoi «gruppi terroristici per procura Hamas, Hezbollah e gli Houthi».

 

Il ministro degli Esteri iraniano ad interim, Ali Bagheri Kani, ha dichiarato venerdì che «il regime israeliano ha oltrepassato un’importante linea rossa» uccidendo Haniyeh, e ha promesso che l’Iran «senza dubbio applicherà la legge e la giustizia» in risposta.

 

«Negli ultimi 10 mesi, i sionisti hanno distrutto Gaza e ora hanno esteso i loro crimini a Beirut, Teheran e Yemen… Se i criminali terroristi non verranno fermati, metteranno seriamente in pericolo la pace e la sicurezza regionale e internazionale», ha affermato, come citato dall’agenzia di stampa Mehr.

 

Haniyeh è stato sepolto venerdì mattina in un cimitero di Lusail, a nord della capitale del Qatar, Doha, in una cerimonia a cui hanno partecipato migliaia di persone in lutto. La Russia ha condannato l’assassinio del leader di Hamas, avvertendo che potrebbe peggiorare la situazione già tesa in Medio Oriente e indebolire i tentativi di porre fine alla guerra a Gaza.

 

Come riportato da Renovatio 21, contestualmente all’assassinio del leader di Hamas lo Stato degli ebrei ha effettuato l’uccisione di un altro comandante del gruppo islamista a Gaza e di un leader Hezbollah a Beirut.

 

Secondo quanto riportato, gli USA – che per bocca del segretario di Stato Blinken hanno negato ogni coinvolgimento con l’omicidio dello Haniyeh – avevano ad Hezbollah detto tramite canali di mediazione che Israele avrebbe attaccato il Golan ma si sarebbe fermata davanti ai piani di una «grande offensiva».

 

L’Ayatollah Ali Khamenei, Guida Suprema della Rivoluzione iraniana, ha promesso per la morte del vertice di Hamas a Teheran vendetta vera. L’azione di attacco dell’Iran contro Israele sembra a questo punto «inevitabile».

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Immagine di Tasnim News Agency via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International

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Il Congresso USA pubblica la prima serie di file su Epstein

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La Commissione per la vigilanza e la riforma del governo della Camera USA ha pubblicato più di 33.000 pagine di documenti relativi al finanziere caduto in disgrazia e condannato per reati sessuali Jeffrey Epstein.   Martedì sera la commissione del Congresso degli Stati Uniti ha pubblicato sul suo sito web un link alle 33.295 pagine.   Il presidente James Comer ha citato in giudizio il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti il ​​mese scorso, dopo che un’indagine del Dipartimento di Giustizia e dell’FBI aveva concluso che Epstein non aveva tenuto alcuna «lista dei clienti». La rivelazione ha spinto i Democratici e alcuni Repubblicani ad accusare il Presidente Donald Trump di insabbiamento.   Parlando ai giornalisti martedì, Comer ha promesso la massima trasparenza e si è impegnato a pubblicare il resto dei documenti il ​​prima possibile. «Continueremo a seguire i fatti e a chiedere giustizia per questi sopravvissuti», ha dichiarato il Comitato di Vigilanza.  

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Il giornalista Nick Sortor, tuttavia, ha sottolineato che ogni file è formattato come un’immagine individuale, il che rende «molto difficile la consultazione da parte del pubblico». La scelta potrebbe essere dettata o da incompetenza o dalla volontà di rendere difficile la ricerca.   Come riportato da Renovatio 21, l’amministrazione Trump sembra aver tentato di sviare l’attenzione dal caso, con il presidente a dire che «solo gli stupidi si interessano dei file di Epstein». Il presidente aveva pure detto che l’amministrazione mai pubblicherà i video. In seguito alla rivolta dei suoi sostenitori, Trump, che nega l’insabbiamento, aveva ordinato la pubblicazione delle trascrizioni riguardante Epstein.   Si tratta di una grande giravolta – un tradimento – rispetto a quanto promesso in campagna elettorale. Si ritiene che, nel frattempo, sia successo qualcosa: forse qualcuno ha disegnato un particolare al presidente.   Secondo Tucker Carlson l’Intelligence starebbe proteggendo, più che Trump, il network di potere attorno a Epstein. Alcuni speculano sul fatto che la verità sul caso del magnate pedofilo potrebbe in realtà compromettere per sempre i rapporti con lo Stato di Israele, di cui Epstein è accusato di essere una spia.

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Il presidente del Portogallo afferma che Trump è un «asset russo»

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Il presidente portoghese Marcelo Rebelo de Sousa ha accusato il presidente degli Stati Uniti Donald Trump di fingere di agire come mediatore imparziale nel conflitto ucraino, mentre in realtà serve gli interessi di Mosca e funge da «asset russo».

 

Nel gergo dei servizi segreti, un asset, o «risorsa», è una persona, un’organizzazione, una risorsa o un’informazione che viene utilizzata o reclutata da un’agenzia di intelligence per supportare le sue operazioni. In pratica il presidente americano viene accusato ancora una volta di essere un pupazzo di Mosca e delle sue agenzie di spionaggio. Le due presidenze Trump sarebbero quindi delle operazioni clandestine dei servizi russi.

 

La gravità delle parole del presidente lusitano è sconcertante, così come la sua poca originalità.

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Intervenendo mercoledì all’Università estiva del Partito Socialdemocratico a Castelo de Vide, Rebelo de Sousa ha criticato Trump per essersi allontanato dalla politica del suo predecessore di sostegno incondizionato a Kiev.

 

«Il leader della più grande superpotenza mondiale è, oggettivamente, una risorsa sovietica o russa. Funziona come una risorsa», ha affermato Rebelo de Sousa, citato dalla CNN Portogallo.

 

Il presidente portoghese ha inoltre affermato che Trump è più un «arbitro che negozia solo con una delle due squadre che un vero mediatore», sostenendo che Kiev e i suoi sostenitori dell’UE hanno dovuto «farsi strada» per prendere parte ai recenti colloqui a Washington.

 

Le dichiarazioni riecheggiavano la bufala del Russiagate lanciata per la prima volta contro Trump nel 2016, quando i suoi oppositori sostenevano che la sua campagna elettorale avesse colluso con il Cremlino. Questa narrazione ha dominato il suo primo mandato, nonostante l’inchiesta Mueller del 2019 non avesse trovato prove di collusione e il Rapporto Durham del 2023 avesse concluso che la vicenda era stata in gran parte orchestrata da operatori politici.

 

Trump ha definito il Russiagate «il più grande scandalo nella storia americana», sostenendo che fosse stato concepito per sabotare la sua presidenza e giustificare politiche ostili nei confronti di Mosca.

 

Da quando è tornato in carica a gennaio, Trump ha cercato di presentarsi come un mediatore neutrale nel conflitto ucraino, alternando accuse alla Russia e all’Ucraina per la mancanza di progressi, comunicando regolarmente sia con il presidente russo Vladimir Putin che con il leader ucraino Volodymyro Zelens’kyj. A volte ha minacciato Mosca di «sanzioni massicce», mentre in altre occasioni ha accusato Kiev di «mancanza di flessibilità» e di non essere «pronta» per la pace.

 

All’inizio di questo mese, Trump ha avvertito di essere «molto, molto insoddisfatto» di Putin e ha minacciato di imporre dazi secondari ai partner commerciali della Russia, minaccia che incombe ancora dopo lo storico vertice in Alaska. Il leader portoghese, tuttavia, ha affermato che, a differenza dell’UE, che ha proceduto con le sanzioni, «Washington ha solo lanciato minacce vuote, dando alla Russia il tempo di avanzare sul terreno».

 

Trump ha sostenuto che «tutti sono da biasimare» per il conflitto, che egli insiste non essere «la sua guerra», e ha promesso di prendere una «decisione molto importante» sul futuro della politica statunitense entro poche settimane, a seconda che Mosca e Kiev si impegnino o meno in colloqui di pace.

 

Come testimonia la foto a corredo di questo articolo, il De Sousa e Trump si erano incontrati nello Studio Ovale della Casa Bianca di Washington il 27 giugno 2018, durante la prima presidenza dell’attuale comandante in capo USA.

 

 

Ci chiediamo ora come saranno i prossimi incontri, che, da qui alla scadenza del secondo mandato del presidente portoghese (2026) potrebbero essere inevitabili.

 

Questo è lo stato in cui versano i vertici europei. Russofobia furiosa, forsennata al punto da compromettere i rapporti non solo con Mosca, ma con gli stessi USA.

 

Ciò risulta incredibile solo per chi non ha capito il disegno in atto, e la mediocrità assoluta, malvagia della classe politica continentale.

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L’FBI fa irruzione nella casa di Bolton. È iniziata la purga dello Stato profondo?

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La scorsa settimana l’FBI ha fatto irruzione nell’abitazione e nell’ufficio di John Bolton, ben noto falco della politica estera ed ex consigliere per la sicurezza nazionale del presidente degli Stati Uniti Donald Trump.   Il New York Post, che per primo ha diffuso la notizia, ha affermato che le perquisizioni fanno parte di un’indagine di alto profilo sulla gestione di documenti classificati. Il sospetto, o meglio, la speranza, che abbiamo, è che si tratti dell’inizio di una grande purga del sistema americano che colpisca lo Stato profondo di Washington.   Il Bolton è noto per aver sostenuto il cambio di regime come strumento di politica estera degli Stati Uniti, ammettendolo perfino pubblicamente: il golpe internazionale come vanto politico, una fase di sfrontatezza (hybris, per i greci; chuzpah, per gli ebrei) mai veduta prima negli apparati esteri statunitensi.

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L’uomo aveva servito Trump per 18 mesi durante il suo primo mandato, prima di essere licenziato nel settembre 2019. Trump in seguito lo ha definito un «pazzo», un «perdente» e una «persona molto stupida», e ha descritto la sua assunzione come uno dei suoi «più grandi errori», accusandolo di recente di voler sabotare i colloqui con Putin. In passato The Donald aveva pure rivelato di averlo dapprima voluto nella squadra come elemento negoziale: le controparti geopolitiche, dice, vedevano Bolton dietro al presidente e si impaurivano sapendo quanto fosse furiosamente incline alla guerra.   Due anni fa il Boltone aveva sostenuto, lanciando l’allarme, che Trump avrebbe lasciato la NATO qualora rieletto. Bolton negli annisi è spesso scontrato con Trump sulla politica estera. Nel suo primo giorno di ritorno in carica quest’anno, Trump ha revocato le autorizzazioni di sicurezza a oltre 40 ex funzionari dell’Intelligence, tra cui Bolton, e gli ha tolto la scorta.   Il baffuto neocon lasciò l’amministrazione Trump dopo che il presidente richiamò un attacco aereo praticamente già in corso contro l’Iran, come ritorsione per aver colpito un drone americano. È stato riportato che i bombardieri erano a dieci minuti dall’obiettivo furono cancellati da un ordine perentorio di Trump, che si era convinto a fermare l’attacco – che sarebbe costato alcune morti – dopo una telefonata con Tucker Carlson.   Ora Trump – che ricordiamo, subì un raid dell’FBI nella sua magione di expresidente a Mar-a-Lago, anche questa cosa inedita nella storia americana, a cui seguirono incursioni domestiche del Bureau per almeno 35 suoi collaboratori – afferma di non sapere nulla dei raid e di averne appreso la notizia solo dai notiziari televisivi.   Secondo quanto riportato, gli agenti dell’FBI hanno perquisito la casa di Bolton a Bethesda, nel Maryland, e il suo ufficio a Washington, DC, venerdì mattina presto. I filmati circolati online mostrano gli agenti in quello che sembra essere il suo giardino e fuori dal suo ufficio, mentre caricavano oggetti sui veicoli. Bolton sarebbe stato visto nell’atrio del suo ufficio mentre parlava con due individui che indossavano giubbotti antiproiettile dell’FBI.   L’indagine si concentrerebbe sulla possibilità che Bolton possieda ancora documenti classificati risalenti al suo mandato, in particolare quelli legati alle sue memorie del 2020, The Room Where It Happened. Il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti (DOJ) sotto Trump ha cercato di bloccare la pubblicazione del libro, sostenendo che contenesse materiale secretato. Un giudice federale alla fine ne ha autorizzato la pubblicazione e il dipartimento di Giustizia di Biden ha archiviato sia il caso penale che quello civile nel giugno 2021.   Secondo quanto riportato, Bolton non è stato arrestato né è stato ancora incriminato; né il suo portavoce né la Casa Bianca avrebbero rilasciato dichiarazioni in merito.   Sebbene il Dipartimento di Giustizia non abbia rilasciato una dichiarazione ufficiale, il Procuratore Generale Pam Bondi ha pubblicato su X venerdì mattina: «La sicurezza dell’America non è negoziabile. La giustizia sarà perseguita. Sempre». La Bondi stava rispondendo al messaggio criptico del Direttore dell’FBI Kash Patel: «NESSUNO è al di sopra della legge… @agenti dell’FBI in missione». Anche il Vicedirettore dell’FBI Dan Bongino ha ripubblicato il commento di Patel, aggiungendo: «La corruzione pubblica non sarà tollerata». Patel aveva precedentemente elencato Bolton come parte del «Deep State» statunitense nel suo libro del 2023.   Non è chiaro cosa possa succedere: magari si tratta di una bolla di sapone, una miccetta fatta esplodere a caso – dai Bondi, Patel e Bongino, dopo il fiasco delle mancate rivelazioni di Epstein, è lecito a questo punto aspettarselo.   Tuttavia non è nemmeno sbagliato pensare al fatto che sia in arrivo una grande purga contro i neocon e il Deep State. Azzardiamo: non è escluso che si tratti di una condizione, o di un’offerta, trattata a porte chiuse nell’incontro tra Trump e Putin in Alaska.   Chi segue Putin sa quanto il presidente russo tema quella che, con gentilezza, chiama la «burocrazia» americana. Nella densa intervista a Oliver Stone di anni fa ne aveva parlato quando, sorpreso per la vittoria di Trump nel 2016, sembrò dire che i presidenti cambiano (di fatto, lui ne ha visti già cinque) ma la «burocrazia» (termine che crediamo implicasse non la coda all’ufficio postale, ma le trame del Deep State) rimangono.   Sempre a Stone Putin confidò che la sua opposizione all’Ucraina nella NATO era dovuta proprio al fatto che conosceva le dinamiche di questa «burocrazia», che piano piano avrebbe spinto per l’installazione di missili ad un tiro di schioppo da Mosca.  

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Di più: nella storica intervista a Tucker Carlson l’anno passato, emerse con forza la sua animosità contro la CIA, definita, non si sa con quale grado di amara ironia, «seriosnaja organizatsija», ossia «organizzazione seria». L’uomo che viene dal KGB è abituato, a quanto sembra, a guardare negli occhi la controparte, sapendo benissimo cosa vi è dietro le spalle. Il sentimento di Putin per la CIA potrebbe spiegare anche la non eccessiva simpatia espressa verso Carlson, canzonato dal presidente russo per non essere entrato nei servizi americani, dove probabilmente – questo non è detto, ma potrebbe essere suggerito da dossier del vecchio KGB – aveva trafficato il padre di Tucker, Dick Carlson, che aveva gestito gli apparati di propaganda USA di Voice of America anche da Mosca.   I neocon – che sono per lo più provenienti da famiglie ebree fuggite dallo Zar e per questo riempite di russofobia rabbiosa incurabile – purgati su richiesta di Putin per avere, finalmente, la pace tra Mosca e Washingtone? È un’ipotesi.   Come lo è la possibilità che una simile purga può essere stata offerta allo Zar odierno, o addirittura programmata comunque vadano le cose.   Il disprezzo per i neocon di Trump è uscito diverse volte: come riportato da Renovatio 21, in un messaggio video di due anni fa Trump attaccava direttamente Victoria Nuland, già vicesegretario di Stato e regina dei neocon, come la causa della guerra in corso. Il marito della Nuland, Robert Kagan, in questi anni ha ricambiato l’amore, scrivendo per il Washington Post articoli disperati in cui scriveva che nonostante la sconfitta di Trump contro Biden in società rimanevano tanti, troppi trumpiani (la soluzione, chiediamo quindi, cos’è? Una guerra civile? Oppure una pulizia etnica, come fa l’amato Stato di Israele a Gaza?)   In ultima, abbiamo visto tre mesi fa lo storico discorso anti-neocon tenuto da Trump in Arabia Saudita.     Non si tratta solo del presidente. Robert F. Kennedy jr., il suo segretario alla Salute, è un anti-neocon sfrenato – nonostante l’essersi trovato con un figlio turlupinato ad andare a combattere in Ucraina in una guerra che Kennedy ritiene fomentata dagli stessi USA.   Quando raccontò del suo ingresso nel team Trump – il momento che ha messo fine alla sua campagna presidenziale, lanciandolo come stella del MAGA-MAHA –RFK rivelò pure di essere rimasto colpito dai primi colloqui con Don junior, il primogenito Trump. Il quale, racconta Kennedy, era apertis verbis in opposizione ai neocon, con nomi e cognomi.   Di recente Kennedy ha fatto di sfuggita un’ulteriore rivelazione sul gabinetto Trump: dice che va d’accordo con gli altri segretari, in particolare la Bondi, che è diventata amica sua e di sua moglie, ma quello più simpatico, che fa ridere tutti, dice, è Marco Rubio: qui Kennedy dice che dapprima provava freddezza nei suoi confronti, in quanto riconosciuto come neocon estremista, ma ha avuto una «conversione», mollando completamente il campo dei falchi antirussi.

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In pratica, se c’è una purga da fare, l’amministrazione Trump sa già chi andare a prendere. Il problema, tuttavia, è che potrebbe non bastare.   Perché alla radice della questione neocon, oramai lo hanno capito tutti, ce ne è una più grande, e indicibile: l’influenza di Israele sugli USA. Notiamo che quanto stiamo dicendo ha effetti geopolitici immediati, autoevidenti: la guerra russo-ucraina, fomentata dai neocon, potrebbe finire a breve (o quantomeno, c’è tanto lavoro in corso per la sua cessazione); al contrario, il massacro etnico di Israele non dà cenni – nonostante le urla di Trump a Netanyahu, di cui si è detto – di essere arginato davvero.   Una purga trumpiana anti-israeliana è di là da venire, anche se un accenno vi è stato: tre mesi fa ha licenziato quantità di funzionari ritenuti troppo filo-israeliani.«Il direttore senior del NSC per il Medio Oriente e il Nord Africa Eric Trager e il direttore del NSC per Israele e l’Iran Merav Ceren erano tra coloro che sono stati cacciati via venerdì 23 maggio», ha scritto Times of Israel il 25 maggio, aggiungendo che entrambi erano stati nominati dall’ex consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz, il pezzo grosso tolto dallo staff e piazzato all’ONU (promoveatur ac amoveatur) accusato di troppa intimità con Netanyahu.   Non basterà: è di pochi giorni fa l’emersione del caso dell’esperto di cibersicurezza israeliano, impiegato negli uffici stessi del premier dello Stato Ebraico, arrestato a Las Vegas in una retata anti-pedofili. All’uomo, finito in manette per aver adescato quella che credeva essere una minorenne, è stato consentito tornare in Israele con il suo volo, poco dopo: non ha nemmeno visto un giudice, libero subito. Renovatio 21 ne parlerà nei prossimi giorni – ricordando che il celeberrimo caso di sfruttamento seriale di minori ad usum dell’oligarcato, cioè la vicenda Epstein, è anche quella oramai collegata da tantissimi a Israele e ai suoi servizi segreti.   Sappiamo che suo genero Jared Kushner, il marito dell’amatissima figlia Ivanka, non solo è ebreo, ma è figlio di uno dei principali donatori americani di Netanyahu, il quale, si racconta, quando veniva a Nuova York dormiva nella cameretta dello stesso Jared. Il padre, palazzinaro ebreo, venne incarcerato per aver tentato di ricattare suo cognato, facendogli incontrare una prostituta: grazie a Trump, ora Kushner è nominato ambasciatore a Parigi. Ricordiamo pure come Jared – accusato da una parente Trump di essere la talpa FBI dietro al raid di Mar-a-Lago – abbia parlato in questi mesi di conflitto del grande valore immobiliare della riviera di Gaza… Le strambe idee trumpiane sulla costruzione di un paradisiaco resort mediterraneo sulla Striscia potrebbero venire, tragicamente, da qui.   Ciò detto, non tutta la speranza è perduta. Nel suo podcast, lo studioso E. Michael Jones – bollato come ingiustamente antisemita e censurato prima ancora che la cosa fosse materia comune – mesi fa ha fatto una rivelazione: un amico, che conosce Tucker Carlson, dice che questi testimonia come in privato Trump parli a sua volta «come noi». Non capiamo bene cosa significhi, ma detto da Jones, fa un certo effetto.

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Si tratta quindi di un lavorìo lento e dissimulato? Non impossibile: pensiamo all’attacco «simbolico» contro il programma nucleare iraniano. E ai suoi effetti: due giorni fa il segretario alla Difesa Pete Hegseth ha licenziato il capo dell’agenzia di Intelligence del Pentagono, il tenente generale Jeffery Kruse, poche settimane dopo che la Casa Bianca aveva respinto una revisione che valutava l’impatto degli attacchi americani sull’Iran. Il rapporto insisteva sul fatto che il programma nucleare di Teheran era solo ritardato di pochi mesi, invece che essere stato «annientato» come aveva dichiarato dopo i bombardamenti Trump.   C’è tanto, tantissimo da fare. Steve Bannon, grande fautore della politica del drain the swamp («prosciuga la palude», dove la palude è Washington) ha sostenuto che lo swamp, cioè il Deep State, che è più di ogni cosa un «business model di successo» che arricchisce tantissime, ha bisogno non di pochi anni, ma di almeno due decenni per essere sanificato.   Abbiamo idea che la palude da prosciugare sia più grande di Washington. Si estende per tutto l’Atlantico (con i suoi patti), attraversa il Mediterraneo, per arrivare sulle rive di quel piccolo Stato tanto importante per la storia e la geopolitica mondiale.   Ripetiamo: la grande purga è un lavoro arduo, difficilissimo: ma non impossibile. Il problema è solo sapere se c’è, da qualche parte nascosta sotto coltri di diplomazia e ricatto, la volontà di farlo.   La purga non era solo una promessa della strana religione oracolare QAnon. La grande purificazione è quello che il mondo intero chiede dal profondo del suo cuore.   Roberto Dal Bosco

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Immagine di Gage Skidmore via Flickr pubblicata su licenza CC BY-SA 2.0; immagine modificata  
   
 
 
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