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Giù le mani dalla Torre Goldfinger

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Giù le mani dalla Torre Goldfinger. Giù le mani da questa icona di architettura brutalista, da questa ineludibile pietra miliare della nostra Londra.

 

C’è inquietudine. Pare che vi siano dei progetti che possano minacciarla. Noi non possiamo permetterlo.

 

È impossibile, se avete vissuto a Londra o vi siete anche solo passati per qualche giorno, non conoscere questo colossale, indecifrabile monumento. Di colpo, in mezzo a case e palazzetti bassi, bum, un ecomostro infinito, che sa di roccia e di vecchiaia, pur essendo stato concepito di recente (1972) e con tutta l’intenzione di creare una torre del futuro.

 

Era impossibile sfuggire alla sua visione. E questo per motivi generazionali e tecnologici.

 

Vi è stato un tempo, infatti, in cui le generazioni nate tra gli anni Settanta e i primi Ottanta, in cui non vi era abbondanza. O meglio, vi era un’assoluta abbondanza di benessere e spensieratezza – a livelli che chiunque, qualsiasi sia la sua età nell’A.D. 2022 se lo sogna – tuttavia c’era una carenza, come dire, di cultura popolare.

 

La cultura popolare – la musica, i film, i giornali, i fumetti, i libri, l’abbigliamento – era controllata da conglomerati di distribuzione nazionale, che in pratica decidevano quello che dovevi vedere, ascoltare, vestire, sentire. Gli stimoli autentici, gli stimoli nuovi, gli stimoli alieni, non venivano distribuiti: né in TV, né alla radio, né nei negozi tradizionali.

 

Per questo c’era Londra. La capitale britannica agiva da enorme valvola per la cultura giovanile continentale. Da tutta Europa, si riversavano giovani sulle strade londinesi. E per fare cosa? Per andare a caccia di dischi che in Italia non arrivavano, per trovare vestiti – usati, sempre – che non collimavano con quanto veniva venduto a casa, anche solo per riempirsi gli occhi di immagini che altrimenti (ripetiamo: non c’era internet!) non avresti mai visto: ricordo lo stupore dinanzi a ciò che si vedeva al Forbidden Planet, un polveroso, rifornitissimo negozio di fumetti vicino a Tottenham Court Road. Quando mai potevi vedere in Italia quei disegni, quei poster, quelle estetiche che venivano dagli USA e dal Giappone e chissà da dove.

 

Andare a Londra, quindi, era per tanti giovani europei dei bei tempi un lavoro di scavo. Esso fu reso sempre più inevitabile dall’arrivo dei voli low-cost (che sono il più grande anticoncezionale della nostra generazione, ma quello è un altro discorso).

 

Sorsero intere attività intorno alla questione: conoscevo una ragazza, poi divenuta molto devota, che in Italia teneva aperto un negozio con quello che scavava a Londra nei fine settimana.

 

Lo scavo aveva dei luoghi specifici. Ad un certo punto, era impossibile non passare da Notting Hill a Portobello Road.

 

Ed è lì che la Torre Goldfinger appariva, un simbolo incongruo che era, anche quello, un segno che dimostrava la distanza totale dall’Italia.

 

Torre Goldfinger, A.D. 2004

 

Le portavo rispetto quando a Londra ero poco più che un turista scavatore, ma ho cominciato ad omaggiare la Torre soprattutto quando a Londra mi sono fermato a vivere.

 

Si chiama in realtà Trellick Tower, ma io l’ho sempre chiamata Torre Goldfinger.

 

Il motivo è semplice: così si chiamava l’architetto che, sì, aveva qualcosa a che fare con James Bond.

 

Conosco la storia solo perché, non ricordo bene come, finii ad un piccolo party in quella che fu l’abitazione dell’architetto in 2, Willow Road ad Hampstead, tutt’altra zona di Londra.

 

Ora casa Goldfinger è qualcosa come un piccolo museo Goldfinger, o giù di lì, o almeno lo era una ventina di anni fa  (ricordo bene quella festicciola, perché un inglese tentò di spiegarmi che teoricamente la Regina era padrona di ogni cosa, e il governo doveva solo amministrare le sue proprietà, mentre il popolo è fatto di subjects, cioè soggetti, sudditi assoggettati…).

 

Casa Goldfinger, 2 Willow Road, Hampstead, settembre 2004

 

Erno Goldfinger era un designer britannico nato ungherese che a Londra rappresentava l’architettura modernista. Di famiglia ebraica, al collasso dell’Impero asburgico migrò a Parigi, dove incontrò Mies van der Rohe and Le Corbusier, poi si spostò a inizio anni Trenta a Londra.

 

Prima della guerra cominciò a costruire questa case squadratissime – come la sua. Dopo la guerra fece la sede del Partito Comunista Britannico. Disegnò poi cinema e complessi residenziali, scuole elementarie e secondarie – alcune sono state demolite, altre, addirittura, sono state ricostruite per ordine del giudice come condanna al palazzinaro che le aveva tirate giù.

 

I missili V2 della Germania nazista avevano distrutto una quantità cospicua di Londra, per cui il governo del dopoguerra decise che la progettazione di grattacieli avrebbe risolto i problemi abitativi che affliggevano la capitale. È qui che Goldfinger trovò sfogo, costruendo almeno tre Tower-block, tra cui la Torre Trellick.

 

Non tutti amavano l’estetica brutalista che Goldfinger impartiva ai londinesi. Uno dei detrattori era Ian Fleming, l’enigmatico scrittore che si inventò James Bond. Già allora prendevo sul serio quanto scriveva Fleming: l’idea di un mondo dove Stati-nazione combattono singoli uomini ultrapotenti oggi – con Bill Gates, Klaus Schwab o George Soros («l’unico uomo al mondo con una sua politica estera») – non sembra tanto fiction; così come bisogna sapere che la cifra 007 ha un valore storico ed esoterico immenso, perché richiama il negromante John Dee, l’uomo a cui Elisabetta I assegnò la creazione del servizio segreto di Albione uscita dall’Europa con lo scisma (la vera Brexit) e quindi il progetto del grande impero britannico che avrebbe sconvolto il globo tutto.

 

Quindi, Fleming era visionario e informatissimo, partecipe probabilmente di segreti a noi proibiti, ma al contempo poteva essere assai vendicativo ed insolente.

 

Il Fleming un giorno andò a giuocare a golf col cugino. I due si misero a disquisire della distruzione di alcuni cottage ad Hampstead servita a costruire la casa di Goldfinger in 2 Willow Road. Vi era stata una certa opposizione alla cosa, e Fleming ne aveva fatto parte. Così decise che il cattivo della prossima sua storia di James Bond dovesse chiamarsi Auric Goldfinger. Il romanzo uscì nel 1959.

 

Goldfinger non aveva un carattere facile. Si dice fosse severo perfino con i suoi stessi clienti. Viene definito come iracondo e humorless, privo di spirito. Ovvio quindi che si incazzò parecchio, e andò dagli avvocati.

 

Fleming diede la risposta più stronza possibile: disse che avrebbe quindi cambiato il nome del cattivone, da Goldfinger si sarebbe passati a Goldprick, dove prick significa il fallo maschile ma anche soprattutto l’appellativo di «coglione» che si dà a certe persone. Il Goldfinger mollò la presa e si rimangiò l’intenzione di querelare. L’editore di Fleming volle quindi omaggiare l’architetto con i danari spesi per gli avvocati e bene sei copie gratuite del libro.

 

(Tra parentesi: Goldfinger fu poi la pellicola migliore della serie, quello al termine della cui visione si dice Fellini abbia esclamato: «questo sì che è un film». Confesso che il rapporto tra il villain Auric Goldfinger e la Repubblica Popolare Cinese per far collassare l’economia mondiale risuona ancora oggi dentro di me quando penso allo strano, ben solido legame tra Bill Gates e Pechino. Infine, impossibile trovare una Bond Girl con un nome più consono di Pussy Galore, che qui non traduciamo)

 

Ora, il New York Times scrive che vorrebbero costruire un altro alto palazzo di fianco alla torre. Abitanti della stessa ed appassionati come me si sono imbufaliti: non, non è possibile. Non portateci via anche questo.

 

Il progetto di Goldfinger includeva un asilo nido, un negozio all’angolo, un pub, una clinica medica e persino una casa di riposo. Un ecosistema umano completo, che, penso ora, forse ha dato ispirazione a James Ballard per scrivere il suo romanzo Il condominio.

 

Pezzo per pezzo, potrebbe venire via tutto. L’altra Torre Goldfinger della città, la Balfron Tower nell’East London, è stata svuotata ai tempi della Thatcher e venduta a privati con la falsa promessa che i residenti sarebbero fatti tornare. Cosa che ovviamente non è accaduta.

 

Il New York Times mostra una residente bellissima e giovanissima, tipo 22 anni, che non solo ci vive dentro, ma ha la Torre tatuata sul polpaccio e pure un anello che la riproduce. Siamo a livelli di passione ben superiore ai miei, riconosco. Tuttavia, quello che voglio dire qui è che la Torre non è solo la Torre.

 

La Torre è un pezzo di noi, un ricordo. O ancora di più, è il simbolo di qualcosa di magari inopportuno ed imperfetto, ma che entra nello scenario interiore tuo e di altre persone come te – la tua generazione, e oltre la tua generazione.

 

Il mondo moderno, lo abbiamo capito, vuole rendere tutto resettabile, riformattabile. Può cancellare a piacimento account, idee, persone. Può spersonalizzare milioni di persone, può disintegrare intere porzioni della popolazione. E quindi, certo, può far sparire un ammasso di pietra di 31 piani che svetta nel cielo con la sua forma binaria ed unica.

 

Da un giorno all’altro, puf. Sì, può farlo – perché una società che non ha difeso i propri corpi dinanzi all’imposizione della siringa mRNA, come può davvero battersi per un palazzo, pure ritenuto brutto?

 

Per questo guardo le foto della Torre Goldfinger e capisco che per me è diventata qualcosa di più di un ricordo generazionale, di una memoria di quando stavo a Londra (amandola come la amo tutt’ora: strano detto da me, giusto?).

 

La Torre è l’emblema del vecchio mondo che ci hanno rapinato, e che ora ci dicono che non tornerà mai più: un mondo che chiedeva poche cose, in fondo, un pizzico di prosperità, un pizzico di gioia, un pizzico di gioventù che deve rimanerti attaccata al cuore per sempre, e che invece oggi ti lavano via con la miocardite.

 

In onore della Torre Goldfinger quindi pubblico in copertina per la prima volta perfino un selfie, anzi un protoselfie, fatto quando ancora i telefonini erano telefoni portatili ed esistevano le macchinette fotografiche, un’immagine di quasi 20 anni fa con cui voglio certificare per sempre il mio rispetto al colosso di Kensal Green.

 

Protoselfie dell’autore con la Torre Goldfinger, 2004 (quando vi erano ancora le macchine fotografiche)

 

Questo sono io, questa è la Torre nel 2004.

 

Giù le mani dalla Torre Goldfinger. Giù le mani dai nostri ricordi. Giù le mani dal nostro mondo. Giù le mani dalle nostre vite.

 

Voi, schifosi Goldpricks.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

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Se la realtà esiste, fino ad un certo punto

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I genitori si accorgono improvvisamente che la biblioteca scolastica mette a disposizione degli alunni strani libri «a fumetti» dove si illustra amabilmente il bello della liaison omoerotica.

 

L’intento degli autori è inequivocabile, quello di presentare un modello antropologico indispensabile per una adeguata formazione dell’individuo in crescita… Meno chiaro appare nell’immediato se la scuola, nel senso dei suoi responsabili vicini o remoti, di questa trovata educativa abbiano coscienza e conoscenza.

 

Di istinto, i genitori dell’incolpevole alunno si chiedono se tutto ciò sia proprio indispensabile per uno sviluppo armonico della psicologia infantile, magari in sintonia con i suggerimenti più elementari della natura e della fisiologia.

 

Tuttavia, poiché anche lo zeitgeist ha una sua potenza suggestiva, a frenare un po’ il comprensibile sconcerto, in essi affiora anche qualche dubbio sulla adeguatezza culturale dei propri scrupoli educativi, tanto che sono indotti a porsi il dubbio circa una loro eventuale inadeguatezza culturale rispetto ai tempi, votati come è noto, a sicure sorti progressive.

 

Ma il caso riassume bene tutto il paradosso di un fenomeno che ha segnato questo quarto di secolo e soltanto incombenti tragedie planetarie, mettono un po’ in sordina, finché dagli inciampi della vita quotidiana esso non riemerge con tutta la sua inaspettata consistenza.

 

Infatti la domanda sensata che si dovrebbero porre questi genitori, è come e perché una anomalia privata abbia potuto meritare prima una tutela speciale nel recinto sacro dei valori repubblicani, per poi ottenere il crisma della normalità e quindi quello di un modello virtuoso di vita; il tutto dopo essersi insinuata tanto in profondità da avere disattivato anche quella reazione di rigetto con cui tutti gli organismi viventi si difendono una volta attaccati nei propri gangli vitali da corpi estranei capaci di distruggerli.

 

Eppure, per quanto giovani possano essere questi genitori allarmati, non possono non avere avvertito l’insistenza con cui questa merce sia stata immessa di prepotenza sul mercato delle idee, quale valore riconosciuto, dopo l’adeguata santificazione dei cultori della materia ottenuta col falso martirio per una supposta discriminazione. Quella che già il dettato costituzionale impediva ex lege.

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Ma tutta l’impalcatura messa in piedi intorno a questo teatro dell’assurdo in cui i maschi prendono marito, le femmine si ammogliano nelle sontuose regge sabaude come nelle case comunali di remote province sicule, non avrebbe retto comunque all’urto della ragione naturale e dell’evidenza senza la gioiosa macchina da guerra attivata nel retrobottega politico con il supporto della comunicazione pubblica e lasciata scorrazzare senza freni in un mortificato panorama culturale e partitico.

 

Nella sconfessione della politica come servizio prestato alla comunità, secondo il criterio antico del bene comune, mentre proprio lo spazio politico è in concreto affollato da grandi burattinai e innumerevoli piccoli burattini, particelle di un caos capace di tenere in scacco «il popolo sovrano». Una parte cospicua del quale si sente tuttavia compensato dalla abolizione dei pronomi indefiniti, per cui tutte e tutti possono toccare con mano tutta la persistenza dei valori democratici.

 

Non per nulla proprio in omaggio a questi valori è installato nella anticamera della presidenza del Consiglio, da anni funziona a pieno regime un governo ombra, quello terzogenderista dell’UNAR. Un ufficio che ha lavorato con impegno instancabile, e indubbia coerenza personale, alla attuazione del «Piano» (sic) elaborato già sotto i fasti renziani e boschiani, per la imposizione capillare nella società in generale e nella scuola in particolare, di tutto l’armamentario omosessista.

 

Il cavallo di battaglia di questa benemerita entità governativa è la difesa dei «diritti delle coppie dello stesso sesso», dove sia il «diritto», che la «coppia» hanno lo stesso senso dei famosi cavoli a merenda.

 

Ecco dunque un esempio significativo ed eccellente di quella desertificazione della politica per cui il governo ombra guidato da interessi particolari in collaborazione e in sintonia con centri di potere radicati in istituzioni sovranazionali, possa resistere ad ogni cambio di governo istituzionale senza che ne vengano disinnescati potere e funzioni.

 

I partiti, dismessi gli apparati ideologici, e omogeneizzati nella sostanza, sono ridotti a «parti», alla moda di quelle fiorentine che pure un qualche ideale di fondo ce l’avevano, anche se tutte si assestavano su un gioco di potere.

 

Qui prevale il gioco dei quattro cantoni, dove tutti sono guidati dall’utile di parte che coincide a seconda dei casi con l’utile politico personale o ritenuto tale. Un utile calcolato tra l’altro senza vera intelligenza politica ovvero senza intelligenza tout court. Anche chi si è abbigliato di principi non negoziabili, alla bisogna può negoziare tutto, perché secondo il noto Principio della Dinamica Politica, «Tutto vale fino ad un certo punto».

 

Tajani, insieme a Rossella O’Hara ci ha offerto il compendio di tutta la filosofia occidentale contemporanea. Quindi dobbiamo stare sereni. Ma i genitori attoniti devono comprendere che quei libretti e questa scuola non sono caduti dal cielo. Sono il frutto di una politica diventata capace di tutto perché incapace a tutto sotto ogni bandiera.

 

Patrizia Fermani

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Putin: il futuro risiede nella «visione sovrana del mondo»

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Le nazioni devono basarsi sulle proprie tradizioni storiche e spirituali, oltre che su una «visione sovrana del mondo», mentre plasmano il loro avvenire, ha dichiarato il presidente russo Vladimir Putin in un messaggio scritto ai partecipanti del II Simposio Internazionale «Inventare il Futuro» a Mosca. L’evento, in programma il 7 e 8 ottobre, accoglierà oltre 7.000 partecipanti provenienti da quasi 80 Paesi.   Discussioni aperte e innovative sul futuro dell’umanità supportano i governi nel rispondere adeguatamente alle nuove sfide, ha osservato il presidente russo. «Le conclusioni e i risultati di un dialogo così profondo e sostanziale sono di grande valore», ha aggiunto Putin. «Sono fiducioso che dobbiamo creare il nostro futuro sulla base di una visione del mondo sovrana».   Promosso su iniziativa del presidente russo, il simposio comprende circa 50 eventi, organizzati in tre aree tematiche: società, tecnologia e cooperazione globale. Il forum ospiterà oltre 200 relatori provenienti da Russia, Cina, Stati Uniti, Italia e da Paesi di Africa, America Latina, Medio Oriente e Sud-est asiatico, che discuteranno di temi che spaziano dalle sfide demografiche all’intelligenza artificiale (IA) e all’esplorazione spaziale.

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Nel primo giorno del simposio si è svolta una tavola rotonda incentrata sul futuro delle tecnologie di intelligenza artificiale e sul loro potenziale di diventare non solo uno strumento professionale di nicchia, ma una base per un’infrastruttura globale e un nuovo «linguaggio della realtà» per governi e imprese private.   Un altro dibattito tenutosi martedì si è concentrato sulle prospettive di collaborazione tra Russia e Africa nei prossimi decenni, fino al 2063. Mosca mira a rafforzare i legami con il continente, promuovendo attivamente la condivisione di tecnologie con le nazioni africane, contribuendo a garantire la sicurezza regionale e sostenendo la sovranità degli attori locali, oltre a favorire un approccio più equo nelle relazioni internazionali.   Al forum del Club Valdai, a Sochi, giorni prima Putin aveva parlato dei «valori tradizionali» anche in merito alla «disgustosa atrocità» dell’assassinio di Charlie Kirk.   «Sapete, questa disgustosa atrocità, e ancora di più, dal vivo», ha detto Putin a un forum organizzato dal Valdai Discussion Club a Sochi, in Russia. «In effetti, l’abbiamo vista tutti, ma non so, è davvero disgustoso. Era orribile». «Prima di tutto, naturalmente, porgo le mie condoglianze alla famiglia del signor Kirk e a tutti i suoi cari», ha continuato il leader russo. «Siamo solidali e solidali, soprattutto perché ha difeso quei valori tradizionali».   Putina aveva aggiunto che la sparatoria mortale è il segno di una «profonda frattura nella società», secondo Reuters. «Negli Stati Uniti, non credo ci sia bisogno di aggravare la situazione all’esterno, perché la leadership politica del Paese sta cercando di ristabilire l’ordine a livello nazionale», ha affermato Putin.

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La questione di Heidegger

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Negli scorsi mesi è scoppiata sul quotidiano La Verità una bizzarra diatriba riguardo ad un pensatore finito purtroppo per essere centrale nel nostro panorama filosofico accademico, Martin Heidegger (1889-1976), già noto per la collaborazione con il nazismo e per l’adulterio consumato con la celebre ebrea Hannah Arendt, all’epoca sua studentessa, e da alcuni, per qualche ragione, considerato come un filosofo «cattolico».

 

Un articolista con fotina antica a nome Boni Castellane (supponiamo si chiami Bonifazio, ma lo si trova scritto così, con il diminutivo, immaginiamo) ha cominciato, con un pezzo importante, a magnificare le qualità dell’Heidegger lo scorso 17 agosto:«Omologati e schiavi della Tecnologia – Heidegger ci aveva visti in anticipo».

 

Giorni dopo, aveva risposto un duo di autori, tra cui Massimo Gandolfini, noto, oltre che la fotina con il sigaro, per aver guidato (per ragioni a noi sconosciute) eventi cattolici di odore vescovile, che come da programma non sono andati da nessuna parte, se non verso la narcosi della dissidenza rimasta e il compromesso cattolico. Sono seguite altri botta e risposta sul ruolo del «sacro» secondo l’Heideggerro e la sua incompatibilità con il cristianesimo.

 

Il Gandolfini e il suo sodale scrivono, non senza ragione, che «il dio a cui si riferisce Heidegger non è il nostro». Una verità non nota agli intellettuali cattolici che, in costante complesso di inferiorità nei confronti del mondo, hanno iniziato ad importare il pensatore tedesco dalle Università italiane – dove ha tracimato, dopo un progetto di inoculo sintetico non differente da quello avutosi con Nietzsche – per finire addirittura nei seminari.

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Il progetto, spiegava anni fa Gianni Collu al direttore di Renovatio 21, era del tutto identico a quello visto con Nietzsche, recuperato dall’ambito della cultura nazista, purgato nell’edizione Adelphi di Giorgio Colli e Mazzino Montinari – la cura dell’opera omnia nicciana arriva prima in italiano che in tedesco! – e servito alla massa del ceto medio riflessivo italiota, e mondiale, per distoglierlo dal marxismo e introdurre elementi di irrazionalismo e individualismo nichilista nella vita del popolo – di lì all’esoterismo di massa, il passo diventa brevissimo.

 

Con Heidegger si è tentato un lavoro simile, ma Collu aveva profetizzato allo scrivente che stavolta non avrebbe avuto successo, perché era troppo il peso del suo legame con l’hitlerismo, e troppa pure la cifra improponibile del suo pensiero. Di lì a poco, vi fu lo scandalo dei cosiddetti «Quaderni neri», scritti ritenuti inaccettabili che improvvisamente sarebbero riemersi – in verità, molti sapevano, ma il programma di heidegerizzare la cultura (compresa quella cattolica) imponeva di chiudere un occhio, si vede. Fu ad ogni modo divertente vedere lo stupore di autori e autrici che avevano dedicato una buona porzione della carriera allo Heidegger – specie se di origini ebraiche.

 

L’incompatibilità di Heidegger – portatore di una filosofia oscura e disperata – con il cattolicesimo è, comunque, totale. Di Heidegger non vanno solo segnalati i pericoli, va combattuto interamente il suo pensiero, che altro non è se non un ulteriore sforzo per eliminare la metafisica, e quindi ogni prospettiva non materiale – cioè spirituale – per l’uomo.

 

Molto vi sarebbe da dire sul personaggio, anche a partire dal suo dramma biografico. Lasciamo qui la parola al professor Matteo D’Amico, che ha trattato il tema dell’influenza di Heidegger nel mondo cattolico, e la difformità di questo personaggio e del suo pensiero, in un intervento al Convegno di studi di Rimini della Fraternità San Pio X nel 2017.

 

 

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Immagine di Landesarchiv Baden-Württemberg, Staatsarchiv Freiburg W 134 Nr. 060680b / Fotograf: Willy Pragher via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International

 

 

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