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Persecuzioni

Gaza, l’esercito israeliano circonda la casa delle suore di Madre Teresa

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Fonti di AsiaNews: all’interno almeno 60 persone bisognose di cura, dai disabili gravi agli anziani allettati. L’IDF avrebbe concesso l’evacuazione delle Missionarie della carità, ma non intende lasciare uscire ospiti e personale. Il rifiuto delle religiose che condividono fra loro un pane o un’arancia come pasto. Capi delle comunità cristiane di Terra Santa contro gli attacchi dei coloni ebraici al quartiere armeno.

 

La sede delle suore di Madre Teresa di Calcutta a Gaza «è sotto assedio».

 

Rimbalzano in queste ore notizie preoccupanti sulla sorte delle Missionarie della carità nella Striscia, ma soprattutto degli ospiti del loro centro vittime innocenti – come i pazienti di altre strutture sanitarie e ospedali – dell’esercito israeliano nella guerra lanciata ormai da oltre un mese contro Hamas.

 

A lanciare l’allarme è un messaggio lanciato da sr. Chiara, mentre aumentano i timori sulla sorte di disabili e portatori di handicap affidati alle cure delle religiose. Interpellato nella mattinata di oggi da AsiaNews p. Francis Xavier, commissario della Terra Santa in India, riferisce che «tutta l’area» in cui sorge la struttura delle suore «è circondata dall’esercito israeliano».

 

Sono ore di ansia e preoccupazione per le missionarie della Carità nella Striscia, la cui sede è nel mirino dei soldati con la stella di David. Fonti locali riferiscono che l’esercito israeliano (IDF) ha concesso la possibilità di evacuazione alle religiose, ma non ai disabili e al restante personale di servizio presente nella struttura. «Tra questi – spiega un testimone – vi sono anche persone che non sono autosufficienti e non si possono muovere da sole». Altri ancora, prosegue, «non sono nemmeno in grado di nutrirsi» e «hanno bisogno di assistenza completa», per questo la presenza delle suore è fondamentale.

 

Il convento delle suore di Madre Teresa, così come la parrocchia della Sacra Famiglia, si trova non lontano dall’area in cui sorge l’ospedale di al-Shifa, da giorni sotto assedio delle forze israeliane a caccia di miliziani di Hamas e armi nei tunnel sotterranei.

 

Una caccia che ha esasperato una emergenza umanitaria già insostenibile, con i medici sotto assedio e i pazienti impossibilitati a ricevere anche solo le cure salvavita, bambini compresi. «Le comunicazioni con l’esterno – afferma una fonte – sono interrotte» e «solo di tanto in tanto» i telefoni «si connettono alla rete».

 

Nel convento vi sono tre religiose e 60 ospiti la grande maggioranza dei quali con estremo bisogno di aiuto, dai bambini disabili e con problemi mentali, agli anziani costretti a letto con piaghe da decubito. Essi non hanno cibo, acqua, medicine, elettricità, gas. A volte, racconta una fonte da Gerusalemme, «alcune persone generose e coraggiose portano qualcosa da mangiare. Qualunque cosa ricevano dall’esterno, le suore servono prima i loro ospiti. Se rimane qualcosa mangiano anche loro. A volte dispongono di un solo pasto al giorno. Un giorno avevano solo una pagnotta di pane, che hanno condiviso fra loro tre, un altro ancora si sono sfamate con solo un’arancia da condividere» in un quadro di profondo bisogno e indigenza.

 

Minacce e attacchi contro i cristiani non si limitano alla Striscia di Gaza, ma sono oggetto di controversia e allarme anche nella città santa.

 

Nel fine settimana, infatti, il Consiglio dei Patriarchi e dei Capi delle Chiese di Gerusalemme ha pubblicato una nota durissima contro i recenti attacchi dei coloni ebraici al quartiere e alle proprietà cristiane nel quartiere armeno.  «Noi, come comunità cristiana a Gerusalemme e nel resto della Terra Santa, esprimiamo la nostra profonda preoccupazione – scrivono i capi cristiani – per i recenti eventi che si sono verificati nel quartiere armeno di Gerusalemme».

 

Al centro della controversia la cancellazione di un «contratto contestato» relativo allo «sviluppo» di gran parte del quartiere armeno.

 

«Invece di trattare attraverso i canali legali appropriati, i presunti sviluppatori – prosegue la nota – hanno deciso di assumere alcuni rivoltosi armati per bloccare gli ingressi al parcheggio» ed effettuare «lavori di demolizione sul posto». Tali eventi «possono mettere in pericolo la presenza armena a Gerusalemme» e risultano «incompatibili con il sistema comunitario basato sullo spirito di pace a cui gli armeni aspirano come parte della famiglia cristiana in Terra Santa».

 

Queste provocazioni «impiegano tattiche» che minacciano di «cancellare la presenza armena nella regione», rendendo ancora più «vulnerabile» la presenza cristiana in Terra Santa.

 

I capi delle Chiese, conclude la nota, confermano il «sostegno al patriarcato armeno» e alla comunità «nella loro decisione di intraprendere azioni legali appropriate per annullare la transazione» e rinnovano l’appello «agli organi governativi e non governativi competenti per ripristinare la pace e l’armonia».

 

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Persecuzioni

Continuano i massacri di cristiani in Nigeria

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Decine di cristiani sono stati uccisi nelle città e nei villaggi della «cintura di mezzo» della Nigeria (il terzo centrale del Paese tra il Nord e il Sud) nelle ultime settimane, in particolare intorno a Pasqua, secondo le informazioni fornite all’organizzazione cattolica internazionale Aiuto alla Chiesa che soffre (ACS) da parte dei leader cattolici locali.   Almeno 39 persone sono state uccise in una serie di attacchi contro villaggi nello stato di Plateau iniziati il ​​lunedì di Pasqua, 1 aprile. Secondo padre Andrew Dewan, direttore delle comunicazioni della diocesi di Pankshin, «il lunedì di Pasquetta si sono verificati violenti attacchi che hanno ucciso dieci persone. Ad una donna incinta è stato squarciato lo stomaco e il bambino non è stato risparmiato».   Gli aggressori, pastori Fulani, principalmente musulmani, sono tornati per una nuova serie di raid venerdì 12 aprile, che hanno causato la morte di altri 29. «Gli attacchi sono continuati fino a domenica 14 aprile. Sono stati attaccati un totale di cinque villaggi e distretti. Una chiesa a Kopnanle è stata data alle fiamme».

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È in questa stessa regione che più di 300 cristiani sono stati massacrati a Natale, e padre Andrew ritiene che «questi attacchi hanno un carattere sistematico: costituiscono una caratteristica permanente della vita nella regione. Potrebbero essere collegati agli attentati di Natale».   Il governo aveva promesso di rafforzare la sicurezza per proteggere gli agricoltori che vivono nella fascia centrale, la maggior parte dei quali erano cristiani, ma ciò non è avvenuto, deplora padre Andrew. «La risposta del governo in materia di sicurezza è inadeguata. Le comunità non hanno fiducia che i governi le proteggano. Si rifugiano nelle chiese».   «Ma questi ultimi hanno grandi difficoltà a far fronte a un simile diluvio di sfollati. Immagina di dover cucinare per migliaia di persone per mesi; non abbiamo nulla in programma o in serbo per queste emergenze, e quindi spesso veniamo colti di sorpresa».   Dopo il massacro di Natale, a Bokkos sono stati allestiti 16 campi, principalmente dalla Chiesa, per fornire rifugio alle persone colpite dagli attacchi. L’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) stima che 3,1 milioni di persone siano sfollate in Nigeria, a causa dell’insurrezione nel nord-est del paese e dei pastori estremisti Fulani nella fascia centrale.   Farmasum Fuddang, presidente del Consiglio per lo sviluppo culturale di Bokkos, ha commentato l’atrocità dei massacri: «Nonostante la presenza delle forze di sicurezza, tra cui il DSS [Servizio di sicurezza statale], l’esercito e la polizia, i criminali, identificati come terroristi Fulani sono stati in grado di compiere i loro attacchi nella totale impunità».   «Con la copertura dell’oscurità, più di 50 terroristi armati sono scesi sui villaggi di Mandung-Mushu e Kopnanle, attaccando residenti innocenti, disarmati e pacifici mentre dormivano… mentre i soldati nelle vicinanze non sono intervenuti», ha aggiunto:   «L’attacco, che ha preso di mira principalmente i bambini, sembra essere parte di un piano calcolato per instillare paura e portare a ulteriori sfollamenti. La tempistica di questo attacco, subito dopo l’erroneo avvertimento del DSS di un imminente attacco alle comunità Fulani, solleva serie preoccupazioni circa la collusione o la negligenza intenzionale».

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Lo stato di Benue, anch’esso situato nella cintura centrale, è stato duramente colpito dalla violenza. I dati inviati ad ACS da padre Remigius Ihyula mostrano che durante il periodo pasquale decine di cristiani sono stati assassinati durante le incursioni dei Fulani. Gli attacchi compiuti tra il 28 marzo e il 2 aprile hanno causato la morte di almeno 38 persone, forse molte di più, e sono stati commessi diversi stupri.   Secondo questi rapporti, dall’inizio del 2024 si sono verificati 67 attacchi, che hanno provocato 239 morti accertati, 60 feriti e 65 rapiti nella provincia di Benue. Nel 2023, più di 500 persone sono state uccise durante l’anno.   Le tensioni tra agricoltori sedentari e pastori nomadi sono un vecchio problema in questa regione della Nigeria, nota per le sue terre fertili. Il cambiamento climatico ha spinto i Fulani ad abbandonare i loro pascoli tradizionali più a nord, provocando scontri per l’accesso alla terra.   Le differenze etniche e religiose peggiorano la situazione e ci sono prove che i Fulani siano stati radicalizzati e utilizzati per espellere i cristiani dalla regione. Il problema è stato notevolmente aggravato dal facile accesso dei pastori alle armi automatiche.   Articolo previamente apparso su FSSPX.news.

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Immagine di Yusufdavid via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International 
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Pakistan, conversioni forzate: tentato avvelenamento di un cristiano di 13 anni

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Saim era uscito di casa per andare a tagliarsi i capelli, quando una guardia di sicurezza, che aveva notato addosso al ragazzo una collana con la croce, ha iniziato a chiedergli di recitare preghiere islamiche. Il giovane, dopo essersi rifiutato, è stato costretto a ingerire una sostanza nociva.

 

In Pakistan si è verificato l’ennesimo tentativo di conversione forzata nei confronti di un ragazzo cristiano di 13 anni, costretto a ingerire una sostanza tossica dopo essersi rifiutato di abbracciare l’Islam.

 

L’episodio è avvenuto nella città di Lahore il 13 aprile: Saim era uscito di casa per andare a tagliarsi i capelli, ma è stato fermato da una guardia di sicurezza musulmana che aveva notato che il ragazzo aveva al collo una croce.

 

La guardia, di nome Qadar Khan, ha strappato la collana e costretto Saim a recitare una preghiera islamica, ma il ragazzo si è rifiutato, dicendo di essere cristiano. L’uomo ha quindi costretto Saim a ingerire una sostanza tossica nel tentativo di avvelenarlo.

 

Sono stati i genitori del giovane a trovare il corpo del figlio senza conoscenza dopo diverse ore che Saim mancava da casa. Il padre, Liyaqat Randhava, si è rivolto alla polizia ma ha raccontato di aver ricevuto un trattamento iniquo.

 

Gli agenti hanno registrato la denuncia solo dopo diverse insistenze e una copia del documento non è stata rilasciata alla famiglia di Saim, che ha detto inoltre che diverse parti del racconto non sono state incluse nella denuncia (chiamata anche primo rapporto informativo o FIR).

 

Joseph Johnson, presidente di Voice for Justice, ha espresso profonda preoccupazione per i crescenti episodi di conversioni religiose forzate in Pakistan e ha condannato quanto successo a Saim, aggiungendo che la polizia sta mostrando estrema negligenza nel caso. «Evitando di includere i dettagli cruciali nel FIR, la polizia ha sottoposto Saim e la sua famiglia a ulteriori abusi», ha affermato Johnson, chiedendo l’intervento del governo per un’indagine.

 

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La Pasqua è stata soppressa nella Repubblica Democratica del Congo

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Nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo (RDC), ai cattolici è stato impedito di celebrare la Pasqua a causa dei raid mortali effettuati dal gruppo ribelle ugandese ADF – Forze Democratiche Alleate – affiliato all’organizzazione Stato Islamico (IS).   Nella provincia del Nord Kivu lo spirito è quello di non celebrare la Pasqua: «Sono cattolico. Prima i sacerdoti venivano tutte le domeniche e durante il triduo pasquale organizzavano il catechismo e le messe serali, ma ora questo è impossibile. Ci siamo riuniti nella nostra cappella, ma oggi tutti restano a casa; abbiamo paura che i ribelli ci attacchino lì durante la messa», confida Zahabu Kavira, residente a Maleki, un piccolo villaggio vicino a Oicha, nella parte orientale del Paese.   Nella notte tra il 2 e il 3 aprile 2024, in piena settimana di Pasqua, almeno dieci persone hanno perso la vita nella regione e diversi edifici sono stati dati alle fiamme in seguito ad un attacco attribuito agli islamisti dell’ADF.   Tra le strutture prese d’assalto dagli aggressori c’era il centro sanitario locale, parzialmente bruciato, oltre a una dozzina di abitazioni ed edifici commerciali. Da parte loro, gli abitanti del villaggio non capiscono come gli aggressori abbiano potuto agire così facilmente in una zona dove sono presenti soldati congolesi e ugandesi.   L’ADF è un gruppo ribelle ugandese da tempo stabilito nel Nord Kivu e nell’Ituri, che terrorizza le popolazioni locali. Nel 2019 il gruppo ha annunciato la sua affiliazione all’organizzazione dello Stato Islamico e ha preso il nome ISCAP (Provincia dell’Africa Centrale dello Stato Islamico).   Uno dei principali bersagli degli islamisti sono i giovani che vogliono essere tagliati fuori dall’ambiente educativo in cui la Chiesa è molto presente. Quasi trentamila studenti, tra cui undicimila ragazze, non possono più andare a scuola nel territorio di Irumu nell’Ituri e nel settore Eringeti nel Nord Kivu.

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Secondo una recente indagine condotta da un team di ispettori scolastici, 79 scuole primarie e secondarie di queste zone sono state chiuse a causa dell’insicurezza. Alcuni edifici scolastici furono bruciati dai ribelli.   Gli attacchi jihadisti contro i villaggi di Beni non hanno risparmiato le chiese. Attualmente le erbacce crescono attorno alle cappelle abbandonate. Frà Omer Sivendire è parroco della chiesa dello Spirito Santo di Oicha. Parla delle sue difficoltà nello svolgere il suo ministero in una regione sempre più afflitta dall’insicurezza.   Contrariamente alla sua abitudine, il sacerdote non ha potuto unirsi ai suoi parrocchiani per celebrare la Messa della Resurrezione: «in passato potevamo spostarci facilmente ovunque, ma oggi è impossibile, poiché i nostri cristiani vivono nell’insicurezza e anche noi. Abbiamo difficoltà ad arrivarci. Speriamo che l’anno prossimo potremo andare ovunque, ma quest’anno purtroppo no», lamenta il sacerdote cattolico.   Ma gli islamisti non sono gli unici a gettare la parte orientale della RDC in un caos spaventoso: da diversi mesi, altri ribelli conosciuti come M23 (Movimento 23 marzo) destabilizzano la regione con il sostegno attivo del vicino Ruanda che desidera esercitare controllo su una regione di transito per le risorse minerarie del Congo.   Un anno fa, il coordinatore del programma di disarmo, smobilitazione, recupero comunitario e stabilizzazione della RDC (P-DDRCS) identificò 266 gruppi armati presenti e attivi in ​​cinque province della parte orientale della RDC.   Le province di Ituri, Nord Kivu, Sud Kivu, Maniema e Tanganica ospitano 252 gruppi armati locali e 14 gruppi stranieri.   Articolo previamente apparso su FSSPX.news.

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