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Geopolitica

Francia, lettera aperta di ex militari: un complotto contro la Repubblica?

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Renovatio 21 pubblica questo articolo di Réseau Voltaire.

 

 

Negli ultimi tre anni la Francia ha attraversato due grandi crisi, cui non è stata data risposta: la messa in discussione della globalizzazione da parte dei Gilet Gialli e la denuncia da parte dei sindacati di polizia del disgregamento dello Stato. Entrambe non hanno ricevuto risposte adeguate alla sostanza dei problemi sollevati. Sebbene le ragioni di coloro che hanno suonato l’allarme siano condivise da tutti, è impossibile discuterne pubblicamente. Così la democrazia muore, non già per mancanza di confronto, ma perché si ergono tabù.

 

 

Nel 2018 la Francia è stata scossa da un vasto movimento popolare, i Gilet Gialli. Nato da una protesta contro il rialzo delle imposte sulla benzina, molto presto si è palesato come contestazione degli effetti sociologici della globalizzazione degli scambi: scomparsa delle classi medie occidentali, emarginazione in zone rurali malservite

I Gilet Gialli contro la globalizzazione

Nel 2018 la Francia è stata scossa da un vasto movimento popolare, i Gilet Gialli. Nato da una protesta contro il rialzo delle imposte sulla benzina, molto presto si è palesato come contestazione degli effetti sociologici della globalizzazione degli scambi: scomparsa delle classi medie occidentali, emarginazione in zone rurali malservite. (1)

 

Due settimane dopo l’inizio delle manifestazioni, gruppi non identificati si sono infiltrati nel movimento e l’hanno sabotato dall’interno. Così, dopo 15 giorni in cui tutti i manifestanti brandivano con fierezza la bandiera francese e cantavano la Marsigliese – cosa che da cinquant’anni non accadeva nelle manifestazioni popolari – teppisti incappucciati e vestiti di nero vandalizzavano l’Arco di Trionfo, in particolare la scultura della Marsigliese. Al processo che seguì si dimostrò come questo gruppo di provocatori non avesse alcun rapporto con i Gilet Gialli, che però furono gli unici a venire arrestati.

 

In mancanza di un leader che denunciasse l’infiltrazione, nel giro di un anno il movimento dei Gilet Gialli si smorzò progressivamente. Tuttavia, i problemi che erano all’origine permangono.

 

Due settimane dopo l’inizio delle manifestazioni, gruppi non identificati si sono infiltrati nel movimento e l’hanno sabotato dall’interno

In altri tempi i politici creavano le «commissioni Théodule» [ossia commissioni che servono a poco o a nulla, espressione creata dal generale De Gaulle, ndt], per affossare i problemi che volevano ignorare. Al tempo dei media che sfornano ininterrottamente informazione, il presidente Macron ha inventato, con il medesimo obiettivo, il «Grande dibattito nazionale»: tutti dicono la loro, ma nessuno riceve una risposta pertinente, né dall’Esecutivo né dall’Assemblea.

 

 

I poliziotti contro lo sfaldamento della nazione

Recentemente è stato suonato un secondo allarme. Il problema è l’affossamento del terzo dei diritti proclamati nella Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 – diritti che non vanno confusi con i Diritti dell’uomo intesi in senso anglosassone: la sicurezza. Vale a dire la garanzia ai cittadini di poter esercitare i diritti imprescrindibili della libertà e della proprietà.

 

In effetti si può constatare non tanto un aumento generale della delinquenza, ma una disparità geografica sempre più accentuata. Se i cittadini del VII arrondissement di Parigi non si sentono minacciati, quelli del XV arrondissement di Marsiglia temono in continuazione le aggressioni dei delinquenti.

 

Parallelamente, la polizia, che dovrebbe difenderli, ha cambiato mansioni: esita a inoltrarsi in alcuni quartieri dove viene sempre più di frequente attaccata.

Alcuni poliziotti hanno fatto un uso sproporzionato della forza, prima contro i Gilet Gialli, ora contro i contestatori della politica sanitaria. Benché si tratti di casi non molto numerosi a livello nazionale, essi dimostrano che non si tratta di un orientamento occasionale, ma deliberato, sostenuto dai vertici dello Stato

 

Molti poliziotti temono, a ragion veduta, per la loro vita: ogni anno ne muoiono una decina. Inoltre, alcuni di loro cominciano a trasformarsi in agenti di repressione dell’opposizione politica. Così, in molti casi, alcuni poliziotti hanno fatto un uso sproporzionato della forza, prima contro i Gilet Gialli, ora contro i contestatori della politica sanitaria. Benché si tratti di casi non molto numerosi a livello nazionale, essi dimostrano che non si tratta di un orientamento occasionale, ma deliberato, sostenuto dai vertici dello Stato.

 

Al momento, la mentalità dei poliziotti è ancora repubblicana: si ritengono al servizio dei cittadini e non soltanto delle autorità politiche. Ma i loro sindacati moltiplicano gli allarmi e denunciano le norme di reclutamento oggi in vigore. Vengono infatti ammessi alla scuola di polizia sia persone che hanno sofferto di problemi psichiatrici sia piccoli delinquenti.

 

 

Le elezioni presidenziali del 2022

Questo movimento, che segue quello dei Gilet Gialli, arriva proprio quando il Paese si prepara alla campagna elettorale: a maggio 2022 si eleggerà il presidente della Repubblica. Già ora, due terzi dell’elettorato è contrario alla ricandidatura del presidente Emmanuel Macron.

I sindacati dei poliziotti  moltiplicano gli allarmi e denunciano le norme di reclutamento oggi in vigore. Vengono infatti ammessi alla scuola di polizia sia persone che hanno sofferto di problemi psichiatrici sia piccoli delinquenti

 

In considerazione dei fallimenti di Nicolas Sarkozy e di François Hollande – entrambi sconfitti dopo il loro primo e unico mandato – Macron può sperare di ottenere una seconda investitura soltanto mostrandosi sensibile alle aspettative popolari. A quella dei Gilet Gialli contro la globalizzazione e a quella dei sindacati di polizia contro l’arretramento della Repubblica, ossia dell’Interesse Generale.

 

Pur non avendo alcuna intenzione di aderirvi, il presidente Macron può però tentare una manovra elettorale:

 

  • Moltiplicare artificiosamente le candidature per poi screditare i candidati che potrebbero risultare vincenti al primo turno, a eccezione di quello di propria scelta, in modo da vedersela con quest’ultimo al secondo turno.

 

Macron può sperare di ottenere una seconda investitura soltanto mostrandosi sensibile alle aspettative popolari

  • Organizzare un secondo turno contro Marine Le Pen, ma dopo averla demonizzata, in modo da costringere la maggior parte dei propri oppositori a dargli il voto, in nome di un «fronte repubblicano» contro il fascismo.

 

Una strategia che funzionò nel 2002, quando Jacques Chirac riportò l’82% dei voti contro il 17% di Jean-Marie Le Pen. Una strategia che oggi potrebbe essere azzardata, perché Marine Le Pen, a differenza del padre, non ha l’immagine di fascista, ma di repubblicana. L’Eliseo è perciò a caccia di opportunità per trasformarla in mostro.

 

 

L’appello degli ex militari

Recentemente è accaduto che alcuni ex militari abbiano scritto una Lettera aperta ai governanti, ove sottolineano l’attuale disgregazione delle istituzioni e prospettano un possibile ricorso alle forze armate, ove fosse inevitabile per risolvere il problema della sicurezza.

 

Recentemente è accaduto che alcuni ex militari abbiano scritto una Lettera aperta ai governanti, ove sottolineano l’attuale disgregazione delle istituzioni e prospettano un possibile ricorso alle forze armate, ove fosse inevitabile per risolvere il problema della sicurezza

L’appello è stato pubblicato il 13 aprile 2021 sul loro sito internet, Place d’armes. Il 21 aprile 2021 il settimanale di destra, Valeurs actuelles, l’ha ripreso, ma non nell’edizione cartacea, bensì sul sito. Marine Le Pen, che ha dichiarato di condividere da molto tempo la diagnosi degli ex militari, li ha esortati a votarla alle prossime elezioni presidenziali.

 

L’Eliseo ha colto al volo l’occasione e ha mandato tutti i propri ministri, a turno, a denunciare davanti ai media un «pugno di generali a riposo» che, secondo loro, esortano i colleghi in attività a perpetrare un colpo di Stato. Tutti hanno finto di credere che l’appello fosse datato 21 aprile, e non il 13, in modo da poterlo stigmatizzare come una manovra faziosa, a sessant’anni esatti dal golpe dei generali di Algeri contro l’indipendenza dell’Algeria. Per finire, tutti hanno denunciato la fascinazione di Marine Le Pen per «il tintinnar di sciabole».

 

Consapevole dell’opportunità di battere Macron al primo turno del 2022, il leader della France Insoumise, Jean-Luc Mélenchon, si è rivolto al procuratore della Repubblica per denunciare i «generali faziosi». Mélenchon era infatti arrivato terzo al primo turno delle ultime elezioni presidenziali, ottenendo il 19% dei voti, contro il 21% di Marine Le Pen e il 24% di Macron.

 

 

La collocazione dei militari nel pubblico dibattito

Invitiamo i lettori a leggere il testo della Lettera aperta (2) e constatare che si tratta di molto rumore per nulla.

 

L’Eliseo ha colto al volo l’occasione e ha mandato tutti i propri ministri, a turno, a denunciare davanti ai media un «pugno di generali a riposo» che, secondo loro, esortano i colleghi in attività a perpetrare un colpo di Stato

La facoltà del governo di ricorrere all’esercito per mantenere l’ordine viene chiamata «stato di emergenza». Ma i militari non sono addestrati per questa mansione e il loro intervento potrebbe causare perdite umane che soltanto pompieri e gendarmi sono addestrati ad affrontare.

 

Lo «stato d’emergenza» è stato decretato da alcuni governi nel 2005, 2015 e 2017. Attualmente 10 mila militari possono essere precettati nell’ambito dell’Operazione Sentinella, per proteggere i cittadini dal rischio di atti terroristici. È così anche in Belgio e nel Regno Unito.

 

Inoltre, l’art. 36 della Costituzione del 1958 prevede la possibilità di trasferire in casi estremi i poteri di polizia e di ordine pubblico dal ministero dell’Interno alle forze armate. È lo «stato d’assedio», cui non si è mai ricorso durante la V Repubblica, nemmeno in occasione del colpo di Stato dei generali del 1961.

 

Governo e France Insoumise sottolineano come gli ex militari firmatari della Lettera aperta non affermino di collocarsi nel quadro costituzionale, insinuando che abbiano una volontà golpista. È un processo alle intenzioni sbagliatissimo. Nella lettera non ci sono assolutamente elementi che giustifichino l’accusa agli ex militari di avere intenti faziosi.

 

Nella lettera non ci sono assolutamente elementi che giustifichino l’accusa agli ex militari di avere intenti faziosi

Tutto questo chiasso è servito solo ad attirare l’attenzione sul testo: è stato firmato da oltre 10 mila ex militari, fra cui una trentina di generali. Tutti ora possono valutare i problemi sollevati nella lettera ed è ormai palese l’inerzia di chi ci governa, senza distinzione di partito.

 

 

Sanzioni contro chi ha lanciato l’allarme

La ministra della Difesa ha annunciato di voler sanzionare i firmatari: si vuole estendere l’infamia destinata a colpire Marine Le Pen a tutti quelli cui lei si rivolge.

 

Peccato che dei 10 mila militari firmatari soltanto 18 siano ancora in servizio. Questi ultimi rischiano di essere radiati per violazione del dovere di riserbo. Quanto ai militari a riposo, godono del pieno diritto della libertà di parola. Possono solo incorrere nel biasimo per l’allarme suscitato; sarebbe invece quantomeno sorprendente che 10 mila persone fossero sanzionate collettivamente per aver esercitato il legittimo diritto di cittadini a esprimersi liberamente.

 

I militari, che siano in servizio o a riposo, non sono più sudditi, ma cittadini come gli altri

I militari, che siano in servizio o a riposo, non sono più sudditi, ma cittadini come gli altri.

 

Dopo il golpe di Algeri il presidente Charles de Gaulle avviò una profonda riforma delle forze armate. I militari che si rifiutarono di obbedire ai generali golpisti erano infatti passibili di essere puniti per disobbedienza agli ordini. Il generale De Gaulle – che nel 1940 si rifiutò di obbedire al proprio superiore, il maresciallo Philippe Pétain, e creò la Francia Libera – introdusse una distinzione fra quel che è da ritenere «legale» e quel che invece è “legittimo”. Il Codice della Difesa fu quindi modificato: non consente ai militari di scegliere il campo, ma impone loro l’obbligo di rifiutarsi di eseguire ordini illegittimi o contrari all’onore, nonché di arrestare i superiori che li emettono.

 

Non c’è quindi nessun complotto contro la Repubblica, nessun maneggio fazioso.

 

È a giusto titolo che i firmatari della Lettera aperta hanno chiesto di «parlare da pari a pari» con il loro capo di stato-maggiore che li ha insultati. Ogni soldato, in servizio attivo o a riposo, gode di tale diritto in qualità di cittadino. Un diritto che fa da corollario all’obbligo dei militari di Obbedire e Servire

Ed è a giusto titolo che i firmatari della Lettera aperta hanno chiesto di «parlare da pari a pari» con il loro capo di stato-maggiore che li ha insultati. Ogni soldato, in servizio attivo o a riposo, gode di tale diritto in qualità di cittadino. Un diritto che fa da corollario all’obbligo dei militari di Obbedire e Servire.

 

Bollando come «faziosi» i firmatari della lettera, il guardasigilli, Éric Dupont-Moretti, si è esposto a un’azione giudiziaria penale. L’ex avvocato non stava infatti facendo un’arringa in un’aula di tribunale. È chiamato perciò a rispondere delle proprie affermazioni.

 

 

Tabù

Il fatto che alcuni dei 10 mila firmatari siano membri del partito di Marine Le Pen, il Rassemblement National – uscito dal partito storico, fondato da ex collaboratori dei nazisti e dei golpisti d’Algeri, il Front National – o a esso vicini, non autorizza a condannare né Marine Le Pen né collettivamente i militari firmatari. Nella Repubblica francese non c’è colpevolezza ereditaria né collettiva. Tutti sono cittadini francesi a pieno titolo.

Con la loro diagnosi, gli ex militari non si sono accontentati di denunciare la retorica del woke, che vorrebbe impedire l’uso del monopolio pubblico della violenza, né di denunciare l’ideologia dell’islam politico. Hanno voluto anche esprimere il timore per l’uso in chiave antirepubblicana delle forze dell’ordine contro i Gilet Gialli

 

Nessuno dei 10 mila firmatari si è macchiato di reati contro la Nazione, anzi molti hanno servito il Paese con onore.

 

Con la loro diagnosi, gli ex militari non si sono accontentati di denunciare la retorica del woke, che vorrebbe impedire l’uso del monopolio pubblico della violenza, né di denunciare l’ideologia dell’islam politico. Hanno voluto anche esprimere il timore per l’uso in chiave antirepubblicana delle forze dell’ordine contro i Gilet Gialli. La reazione sproporzionata alla loro Lettera aperta dimostra che hanno toccato un punto dolente.

 

Siamo in presenza di un rovesciamento di valori che sottopone al giudizio mediatico – e in futuro fors’anche al giudizio dei corpi militari d’appartenenza – persone, non per quanto fatto, né per le opinioni espresse, ma perché espongono una diagnosi che tutti sottoscrivono ma che pochi osano enunciare a voce alta.

 

Il discorso politico si è progressivamente allontanato dalla realtà. Ora si sta inoltrando in una zona torbida ove, come in alcune società della Polinesia, quel che non si controlla diventa tabù. «Il circolo della ragione» (3) non solo cerca da trent’anni di vietare opinioni controcorrente, ora tenta anche d’impedire che si affrontino determinati argomenti.

Il discorso politico si è progressivamente allontanato dalla realtà. Ora si sta inoltrando in una zona torbida ove, come in alcune società della Polinesia, quel che non si controlla diventa tabù

 

Dal momento che i primi tre diritti enunciati nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino sono andati perduti – la libertà, la proprietà e la sicurezza – è lecito ricorrere al quarto: «la resistenza all’oppressione» (articolo 2).

 

 

Thierry Meyssan

 

 

 

Articolo ripubblicato su licenza Creative Commons CC BY-NC-ND

 

 

 

 

 

Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

 

 

 

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Economia

La Turchia sospende ogni commercio con Israele

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Il governo turco ha sospeso tutti gli scambi con Israele in risposta alla guerra di Gaza, ha dichiarato il Ministero del Commercio di Ankara in una dichiarazione pubblicata giovedì sui social media.

 

La Turchia è stato uno dei critici più feroci di Israele da quando è scoppiato il conflitto con Hamas in ottobre. La sospensione di tutte le operazioni di esportazione e importazione è stata introdotta in risposta all’«aggressione dello Stato ebraico contro la Palestina in violazione del diritto internazionale e dei diritti umani», si legge nella dichiarazione.

 

Ankara attuerà rigorosamente le nuove misure finché Israele non consentirà un flusso ininterrotto e sufficiente di aiuti umanitari a Gaza, aggiunge il documento.

 

Israele è stato accusato dalle Nazioni Unite e dai gruppi per i diritti umani di ostacolare la consegna degli aiuti nell’enclave. I funzionari turchi si coordineranno con l’Autorità Palestinese per garantire che i palestinesi non siano colpiti dalla sospensione del commercio, ha affermato il ministero.

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La sospensione totale fa seguito alle restrizioni imposte il mese scorso da Ankara sulle esportazioni verso Israele di 54 categorie di prodotti tra cui materiali da costruzione, macchinari e vari prodotti chimici. La Turchia aveva precedentemente smesso di inviare a Israele qualsiasi merce che potesse essere utilizzata per scopi militari.

 

Come riportato da Renovatio 21, il mese scorso il governo turco ha imposto restrizioni alle esportazioni verso Israele per 54 categorie di prodotti.

 

In risposta alle ultime restrizioni, il ministero degli Esteri israeliano ha accusato la leadership turca di «ignorare gli accordi commerciali internazionali». Giovedì il ministro degli Esteri Israel Katz ha scritto su X che «bloccando i porti per le importazioni e le esportazioni israeliane», il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si stava comportando come un «dittatore». Israele cercherà di «creare alternative» per il commercio con la Turchia, concentrandosi sulla «produzione locale e sulle importazioni da altri Paesi», ha aggiunto il Katz.

 

 

Come riportato da Renovatio 21 il leader turco ha effettuato in questi mesi molteplici attacchi con «reductio ad Hitlerum» dei vertici israeliani, paragonando più volte il primo ministro Beniamino Netanyahu ad Adolfo Hitler e ha condannato l’operazione militare a Gaza, arrivando a dichiarare che Israele è uno «Stato terrorista» che sta commettendo un «genocidio» a Gaza, apostrofando il Netanyahu come «il macellaio di Gaza».

 

Il presidente lo scorso novembre aveva accusato lo Stato Ebraico di «crimini di guerra» per poi attaccare l’intero mondo Occidentale (di cui Erdogan sarebbe di fatto parte, essendo la Turchia aderente alla NATO e aspirante alla UEa Gaza «ha fallito ancora una volta la prova dell’umanità».

 

Un ulteriore nodo arrivato al pettine di Erdogan è quello relativo alle bombe atomiche dello Stato Ebraico. Parlando ai giornalisti durante il suo volo di ritorno dalla Germania, il vertice dello Stato turco ha osservato che Israele è tra i pochi Paesi che non hanno aderito al Trattato di non proliferazione delle armi nucleari del 1968.

 

Il mese scorso Erdogan ha accusato lo Stato Ebraico di aver superato il leader nazista uccidendo 14.000 bambini a Gaza.

 

Israele, nel frattempo, ha affermato che il presidente turco è tra i peggiori antisemiti della storia, a causa della sua posizione sul conflitto e del suo sostegno a Hamas.

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Immagine di Haim Zach / Government Press Office of Israel via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported 
 

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Cina

Ancora un governo filo-cinese alle Isole Salomone: Pechino mantiene la presa sul Pacifico

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   Il nuovo primo ministro dell’arcipelago sarà Jeremiah Manele, che ha già ricoperto l’incarico di ministro degli Esteri. Gli analisti si aspettano che, nonostante i legami con la Cina, addotti un approccio meno conflittuale. Ma la competizione resta aperta tra le nazioni del Pacifico, divise tra la fedeltà ai partner occidentali e gli accordi (soprattutto sulla sicurezza) con Pechino.   Il governo delle Isole Salomone resterà filo-cinese: i deputati designati dopo la tornata elettorale del 17 aprile hanno scelto come primo ministro Jeremiah Manele, che ha ricoperto l’incarico di ministro degli Esteri nel 2019, anno in cui le Isole Salomone, sotto la guida del precedente premier Manasseh Sogavare, hanno deciso di interrompere le relazioni diplomatiche con Taiwan per firmare, tre anni dopo, un trattato sulla sicurezza (i cui dettagli non sono stati resi pubblici) con la Cina, che continua così a mantenere una certa influenza nel Pacifico.   Sogarave la settimana scorsa aveva dichiarato che avrebbe rinunciato alla corsa a primo ministro a causa dei risultati deludenti del suo partito, e ha poi appoggiato la candidatura e la nomina di Manele, il quale ha già annunciato che manterrà stretti legami con Pechino. Ma gli analisti si aspettano che, a differenza del predecessore, Manele adotti un approccio meno conflittuale verso i partner occidentali, che guardano con preoccupazione alle relazioni tra la Cina e le nazioni insulari che costellano l’Oceano Pacifico.   Negli ultimi anni, infatti, Pechino ha rafforzato con diversi Paesi la cooperazione nell’ambito delle forze di polizia ed elargito fondi e investimenti per la costruzione di porti, strade e infrastrutture di telecomunicazione, in posti dove gli spostamenti e i contatti sono resi complicati dalla scarsità di risorse e dal progressivo aumento del livello dei mari dovuto al cambiamento climatico.

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Solo per fare alcuni esempi, dal 2013 è attivo uno scambio di agenti di polizia con le isole Figi, dove nel 2021 è arrivato per la prima volta, presso l’ambasciata cinese, anche un ufficiale di collegamento. Lo scorso anno sono state inviate squadre di esperti a Vanuatu e Kiribati (un altro Paese che ha revocato il riconoscimento a Taiwan nel 2019), mentre l’assistenza alle Isole Salomone è stata rafforzata dopo le proteste che sono scoppiate nella capitale, Honiara, nel 2021 e molti temono che il patto sulla sicurezza firmato nel 2022 preveda il dispiegamento di forze militari cinesi sull’arcipelago.   Ancora: dopo le rivolte di gennaio in Papua Nuova Guinea, il ministro degli Esteri papuano, Justin Tkachenko, ha dichiarato che a settembre la Cina si era offerta di fornire attrezzature e tecnologie di sorveglianza, ma subito dopo si è sincerato di sottolineare che, in ogni caso, la Papua Nuova Guinea non «metterà a repentaglio o comprometterà le relazioni» con i partner occidentali.   Inoltre, la Cina ha proposto investimenti per rilanciare il settore del turismo a Palau e sulle Isole Marshall, due Paesi che, insieme alla Micronesia, sono legati a Washington tramite dei Patti di libera associazione (Compacts of Free Association, COFA), che permettono agli Stati Uniti di avere accesso agli apparati di difesa e di sicurezza delle nazioni del Pacifico in caso di attacco (ma non solo).   Secondo gli esperti, la Cina ha un doppio interesse a promuovere la cooperazione di polizia con questi Paesi: da una parte vi è la necessità pratica di proteggere la diaspora e gli investimenti cinesi, soprattutto nel caso di rivolte e disordini, che si sono dimostrati frequenti.   Dall’altra è evidente che si tratta di un’area dove Pechino si è inserita per avere maggiore influenza nella regione a scapito degli Stati Uniti. I funzionari di Washington hanno nuovamente espresso le loro preoccupazioni all’inizio dell’anno dopo la visita di alcuni agenti di polizia cinesi a Kiribati, dove temono che la Cina possa ricostruire una pista d’atterraggio militare, a meno di 4mila chilometri dalle Hawaii.   Alle piccole nazioni del Pacifico, però, la competizione geopolitica tra la Cina e gli alleati occidentali potrebbe non dispiacere affatto, perché fornisce un elemento in più su cui fare leva nei rapporti diplomatici e ottenere così maggiori aiuti e risorse. Nel 2022 il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, non era riuscito a convincere i leader del Pacifico a firmare due nuovi accordi di cooperazione e l’anno successivo, il primo ministro delle Figi, Sitiveni Rabuka, aveva affermato che avrebbe stracciato l’accordo di scambio di ufficiali di polizia con la Cina, ma ha poi ammorbidito i toni.   In questa competizione per l’influenza nel Pacifico, Pechino sostiene che gli Stati Uniti non siano un partner affidabile, cercando di contrastare quella che ritiene essere una visione anti-cinese proposta dai media occidentali. A gennaio di quest’anno, in seguito a una fuga di informazioni, è stato scoperto che tra i compiti di un diplomatico cinese di stanza presso l’ambasciata di Honiara c’era anche quello di influenzare la copertura mediatica locale sulle elezioni presidenziali a Taiwan.   Gli Stati occidentali, dal canto loro, hanno evidenziato lo stile autoritario della polizia e dei funzionari provenienti dalla Cina, dove i diritti umani spesso passano in secondo piano. Nel 2017, per esempio, la polizia delle Figi aveva arrestato 77 cittadini cinesi, poi estradati in collaborazione con le autorità locali.   Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne. Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Immagine di Arthur Chapman via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial 2.0 Generic
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Geopolitica

Trump non esclude il taglio degli aiuti a Israele, attacca Netanyahu e rivela dettagli sull’assassinio di Soleimani

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L’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha rifiutato di escludere il ritiro degli aiuti militari a Israele per forzare la fine della guerra a Gaza se verrà rieletto. Un tempo strenuo difensore del primo ministro Benjamin Netanyahu, Trump ha sostenuto che il leader israeliano e il suo esercito hanno «pasticciato» la guerra con Hamas.

 

In un’intervista con la rivista Time pubblicata questa settimana, il candidato alla Casa Bianca ha confermato la sua insistenza del mese scorso sul fatto che Israele dovrebbe «porre fine alla guerra» prima di perdere ulteriore sostegno internazionale.

 

«Penso che Israele abbia fatto molto male una cosa: le pubbliche relazioni», ha detto Trump al quotidiano, aggiungendo che secondo lui l’esercito israeliano non dovrebbe «inviare ogni notte immagini di edifici che crollano e vengono bombardati».

 

Alla domanda se escluderebbe di negare o applicare condizioni agli aiuti militari statunitensi a Israele per portare la guerra a una conclusione, Trump ha risposto «no», prima di lanciarsi in una feroce critica a Netanyahu.

 

«Ho avuto una brutta esperienza con Bibi», ha detto, riferendosi a Netanyahu con il suo soprannome. Trump ha ricordato come Netanyahu avrebbe promesso di prendere parte all’attacco aereo statunitense che ha ucciso il comandante militare iraniano Qassem Soleimani nel gennaio 2020, prima di ritirarsi all’ultimo minuto.

 

«È stato qualcosa che non ho mai dimenticato», ha detto Trump al Time, aggiungendo che l’incidente «mi ha mostrato qualcosa».

 

Come riportato da Renovatio 21, secondo rivelazioni dello scorso anno dell’ex capo dell’Intelligence israeliana, sarebbe stato lo Stato Ebraico a convincere la Casa Bianca ad uccidere il generale iraniano.

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Netanayhu, ha detto The Donald, «è stato giustamente criticato per ciò che è accaduto il 7 ottobre», riferendosi all’attacco di Hamas contro Israele. «E penso che abbia avuto un profondo impatto su di lui, nonostante tutto. Perché la gente diceva che non sarebbe dovuto succedere».

 

Israele ha, proseguito «le attrezzature più sofisticate», ha continuato. «Tutto era lì per fermarlo. E molte persone lo sapevano, migliaia e migliaia di persone lo sapevano, ma Israele non lo sapeva, e penso che sia stato fortemente incolpato per questo».

 

Trump non è la prima persona ad affermare che l’esercito e il governo israeliani non hanno risposto agli avvertimenti di un imminente attacco di Hamas. Secondo quanto riportato dai media israeliani, diversi membri del personale militare e dell’Intelligence hanno cercato di avvertire i loro superiori che era in corso un attacco, mentre i funzionari egiziani hanno riferito all’Associated Press di aver trasmesso avvertimenti alle loro controparti israeliane nelle settimane precedenti il ​​7 ottobre.

 

Trump è stato uno stretto alleato di Netanyahu durante il suo mandato alla Casa Bianca e si è descritto come «il presidente degli Stati Uniti più filo-israeliano della storia». Ha imposto sanzioni all’Iran su richiesta di Netanyahu, ha spostato l’ambasciata americana in Israele a Gerusalemme ovest e ha mediato gli accordi di Abramo, che hanno visto Israele normalizzare le relazioni con il Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti, il Marocco e il Sudan.

 

Alla domanda se potrebbe lavorare meglio con il principale rivale politico di Netanyahu, Benny Gantz, se dovesse tornare alla Casa Bianca dopo le elezioni presidenziali di novembre, Trump non ha dato una risposta diretta. Tuttavia, ha osservato che «Gantz è bravo» e che ci sono «alcune persone molto brave che ho conosciuto in Israele che potrebbero fare un buon lavoro».

 

Benjamin Netanyahu è stato sostenuto negli anni dalla famiglia del genero di Trump Jared Kushner, il cui padre – controverso immobiliarista ebreo ortodosso finito in galera per una squallida storia di ricatti perfino a famigliari – era uno dei primi finanziatori di Bibi, il quale, si dice, quando era a Nuova York dormisse nella cameretta del Jared.

 

Il personaggio si è fatto notare di recente per aver detto che «è un peccato» che l’Europa non accolta più profughi palestinesi in fuga da Gaza, per poi fare dichiarazioni entusiastiche sul valore delle proprietà immobiliari future sul lungomare della Striscia.

 

Il Jared – che è sospettato da molti di essere una «talpa» contro Donald, perfino nel caso del raid FBI a Mar-a-Lago – e la moglie, l’adorata figlia di Trump Ivanka, sarebbero stati lasciati fuori dalla nuova campagna per esplicita richiesta dell’ex presidente.

 

Trump, in uno degli ultimissimi atti della sua presidenza, diede la grazia al traditore (e spia israeliana) Jonathan Pollard, analista dell’Intelligence USA artefice di una delle più grandi falla di segreti militari della storia degli apparati statunitensi.

 

Nei primi giorni del 2021, agli sgoccioli della presenza di Trump alla Casa Bianca, Pollard arrivò in Israele, dove lo attendevano ali di folla a festeggiarlo come un eroe (per aver tradito il loro principale alleato: incomprensibile fino al grottesco, a pensarci), tramite un jet privato messo a disposizione dal controverso magnate dei casino di Las Vegas – e finanziatore di quasi tutto il Partito Repubblicano USA come del Likud israeliano – Sheldon Adelson, morto poche ore dopo.

 

Come riportato da Renovatio 21, Trump il mese scorso ha dichiarato che il comportamento di Israele a Gaza ha causato un danno enorme alla percezione dello Stato ebraico nel mondo, mettendoli «nei guai» e incoraggiando l’antisemitismo.

 

Attacchi pubblici di Trump a Netanyahu si sono registrati già a fine 2021, mossa che gli valse uno screzio con i fondamentalisti protestanti americani, cioè i cristiano-sionisti che sostengono Israele per la profezia apocalittica secondo cui gli ebrei, ricostruendo il Terzo Tempio, genereranno il loro messia che sarà l’anticristo dei cristiani, accelerando la venuta di Cristo.

 

Tale teologia escatologica è in azione anche in questi giorni, come visibile nel caso della giovenca rossa, e di altri animali da sacrificio che hanno tentato di trafugare sul Monte del Tempio di Gerusalemme.

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Flickr

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