Civiltà
Fine della virtù, fine della Civiltà
Nel 1981 Alasdair MacIntyre pubblicò un saggio di teoria morale dal titolo drammatico e, al tempo stesso, eloquente dello stato in cui versava l’etica, condensato nel titolo: Dopo la virtù (edito in italiano da Armando Editore).
Il grande filosofo scozzese, nato nel 1929, scriveva nell’esergo del libro una frase in gaelico che richiamava alcune iscrizioni sepolcrali e che si può tradurre in: «In attesa che sorga il sole e si diradino le ombre della notte». MacIntyre intendeva così descrivere e spiegare la parabola discendente che aveva conosciuto l’unità classica delle virtù sino all’isolamento della singola virtù e al depotenziamento finale di quest’ultima.
Dopo la virtù era quindi l’esito di una dissoluzione, di un processo che aveva visto nella storia la perdita di un quadro organico entro cui collocare l’unità delle virtù (dianoetiche ed etiche).
Nel 1908 un grande scrittore inglese, Gilbert Keith Chesterton, scriveva nel saggio Ortodossia (pubblicato originariamente in italiano dalla Morcelliana):
«Il mondo moderno è specializzato in divorzi»… La separazione è il motto della modernità»
«Il mondo moderno è pieno di antiche virtù cristiane impazzite: sono divenute pazze perché sono scisse l’una dall’altra e vagano senza meta. Così alcuni scienziati coltivano la verità ed è una verità senza carità; così altri coltivano la carità senza verità». Sia MacIntyre sia Chesterton condividevano lo stesso drammatico scenario nel quale si era persa l’unità delle virtù.
Chesterton riassumeva questo sconvolgente esito in una frase: «Il mondo moderno è specializzato in divorzi» (dal saggio del 1910 Ciò che non va nel mondo, edito in italiano da Lindau), MacIntyre sottolineava lo stesso concetto in un’altra frase similare: «La separazione è il motto della modernità» e iniziava questo suo straordinario saggio appellandosi all’immaginazione (che non contrasta, anzi rafforza la ragione purché rimanga sana e non diventi capriccio o arbitrio), così come fece Tolkien nel saggio del 1937 Sulle fiabe contenuto in Albero e foglia (edito in italiano da Bompiani):
«Immaginate che le scienze naturali debbano subire le conseguenze di una catastrofe. L’opinione pubblica incolpa gli scienziati di una serie di disastri ambientali. Accadono sommosse su vasta scala. Laboratori vengono incendiati, fisici linciati, libri e strumenti distrutti. Infine un movimento politico a favore dell’Ignoranza prende il potere, e riesce ad abolire l’insegnamento scientifico nelle scuole e nelle università, imprigionando e giustiziando gli scienziati superstiti».
Questa ipotesi inquietante era ispirata a un romanzo fantascientifico del 1959, dal titolo Un cantico per Leibowitz (Edizioni La tribuna) di Walter Miller, in cui lo scrittore statunitense, già bombardiere dell’Abbazia di Montecassino nel 1944, convertitosi al cattolicesimo successivamente, immaginava un mondo di sopravvissuti a seguito di una catastrofe nucleare, in cui alcuni monaci, tra cui Leibowitz, conservavano e tramandavano alcuni frammenti della sapienza del passato, pur non comprendendoli, nella speranza che gli uomini sarebbero divenuti migliori e che li sapessero utilizzare per il bene comune.
MacIntyre ancora scriveva:
«Abbiamo, è vero, dei simulacri di morale, continuiamo ad usare molte delle espressioni fondamentali. Ma abbiamo perduto, in grandissima parte se non del tutto, la nostra comprensione, sia teoretica sia pratica, della morale»
«L’ipotesi che voglio sostenere è che nel mondo effettuale in cui viviamo il linguaggio della morale sia nello stesso stato di grave disordine in cui si trova il linguaggio della scienza naturale nel mondo immaginario che ho descritto. Ciò che possediamo, se questa tesi è vera, sono i frammenti di uno schema concettuale, parti ormai prive di quei contesti da cui derivava il loro significato. Abbiamo, è vero, dei simulacri di morale, continuiamo ad usare molte delle espressioni fondamentali. Ma abbiamo perduto, in grandissima parte se non del tutto, la nostra comprensione, sia teoretica sia pratica, della morale».
L’opera del grande filosofo e studioso di etica scozzese si concludeva, alla stregua del romanzo di Walter Miller, con la speranza che ancora un monaco con la sua comunità sapesse far riaffiorare dalle tenebre l’antico patrimonio perduto:
«È sempre rischioso tracciare paralleli troppo precisi tra un periodo storico e un altro… tuttavia certi parallelismi esistono. Un punto di svolta decisivo in quella storia più antica si ebbe quando uomini e donne di buona volontà si distolsero dal compito di puntellare l’imperium romano e smisero di identificare la continuazione della civiltà e della comunità morale con la conservazione di tale imperium. Il compito che invece si prefissero fu la costruzione di nuove forme di comunità entro cui la vita morale potesse essere sostenuta, in modo che sia la civiltà sia la morale avessero la possibilità di sopravvivere all’epoca incipiente di barbarie e di oscurità. Se la mia interpretazione della nostra situazione morale è esatta, dovremmo concludere che da qualche tempo anche noi abbiamo raggiunto questo punto di svolta. Ciò che conta, in questa fase, è la costruzione di forme locali di comunità al cui interno la civiltà e la vita morale e intellettuale possano essere conservate attraverso i nuovi secoli oscuri che già incombono su di noi. E se la tradizione delle virtù è stata in grado di sopravvivere agli orrori dell’ultima età oscura, non siamo del tutto privi di fondamenti per la speranza. Ed è la nostra inconsapevolezza di questo fatto a costituire parte delle nostre difficoltà. Stiamo aspettando: non Godot, ma un altro San Benedetto, senza dubbio molto diverso».
Non era, quella di Alasdair MacIntyre, una asettica fenomenologia di quanto era accaduto nel corso della storia, ma di un progetto (After Virtue Project) nel quale, recuperando la tradizione aristotelica dell’unità delle virtù, si poteva analizzare e comprendere la portata dell’evento «Dopo la virtù» e rileggere la storia alla luce di quell’evento.
La «tradizione di ricerca» a cui alludeva MacIntyre, rifacendosi a quella aristotelico-tomista, era un’indagine intellettuale volta alla ricerca della verità, alla riscoperta della natura autentica della stessa nozione di «tradizione». Tradizione quindi come esito di una approfondita discussione nella storia e che si estende nel tempo.
«Ciò che conta, in questa fase, è la costruzione di forme locali di comunità al cui interno la civiltà e la vita morale e intellettuale possano essere conservate attraverso i nuovi secoli oscuri che già incombono su di noi.»
Sulla scorta del pensiero aristotelico, MacIntyre prolungava la concezione antropologica dell’«uomo è un animale sociale» in un «un uomo capace di raccontare storie», in una delle pagine più vibranti del saggio:
«L’uomo nelle sue azioni e nella sua prassi tanto quanto nelle sue funzioni, è essenzialmente un animale che racconta storie, un narratore di storie che aspira alla verità. Posso rispondere alla domanda: “Che cosa devo fare?”, solo se sono in grado di rispondere alla domanda preliminare: “Di quale storia o di quali storie mi trovo a far parte?”».
«Voglio dire che noi facciamo il nostro ingresso nella società umana rivestendo i panni di uno o più personaggi che ci sono stati assegnati e dobbiamo imparare che cosa sono per riuscire a capire come gli altri reagiscono nei nostri confronti e come vanno costruite le nostre reazioni nei loro confronti. È ascoltando storie di perfide matrigne, di re buoni ma mal consigliati, lupe che allattano gemelli, figli cadetti che non ricevono nessuna eredità ma devono farsi strada da soli nel mondo e figli maggiori che dilapidano la loro eredità in un’esistenza dissoluta e vanno in esilio a vivere con i maiali, che i bambini imparano, nel modo giusto o in quello sbagliato, che cos’è un figlio e cos’è un genitore».
E se la tradizione delle virtù è stata in grado di sopravvivere agli orrori dell’ultima età oscura, non siamo del tutto privi di fondamenti per la speranza (…) Stiamo aspettando: non Godot, ma un altro San Benedetto, senza dubbio molto diverso»
«Privando i bambini delle storie, li si trasformerebbe in balbuzienti ansiosi e senza copione, tanto nelle azioni e quanto nelle parole… La mitologia, nel suo significato originario, è il nucleo essenziale delle cose e aveva ragione anche quella tradizione morale che, dalla società eroica fino ai suoi eredi medievali, considera la narrazione di storie come una parte fondamentale della nostra educazione alle virtù».
Fabio Trevisan
PER APPROFONDIRE
Abbiamo parlato di
In affiliazione Amazon
Civiltà
Professore universitario mette in guardia dall’«imperialismo cristiano europeo» nello spazio
La preside di scienze sociali della Wesleyan University Mary-Jane Rubenstein, una «filosofa della scienza e della religione» (che è anche affiliata al programma di studi femministi, di genere e sessualità della scuola), afferma di aver notato come «molti dei fattori che hanno guidato l’imperialismo cristiano europeo» siano stati utilizzati in «forme ad alta velocità e alta tecnologia».
La Rubenstein si chiede se «pratiche coloniali» come «lo sfruttamento delle risorse ambientali e la distruzione dei paesaggi», il tutto «in nome di ideali quali il destino, la civiltà e la salvezza dell’umanità», faranno parte dell’espansione dell’uomo nello spazio.
Lo sfruttamento degli altri corpi celesti, quantomeno nel nostro sistema solare, è stata considerata in quanto vi è una ragionevole certezza che su altri pianeti vicini non vi sia la vita, nemmeno a livello microbico. Quindi, che importanza ha se aiutiamo a salvare la Terra sfruttando Marte, Mercurio, la fascia degli asteroidi, per minerali e altre risorse?
Iscriviti al canale Telegram
Rubenstein nota che il presidente della Mars Society Robert Zubrin ha sostenuto esattamente questo. In un editoriale del 2020, Zubrin ha attaccato un «manifesto» da un gruppo NASA DEI (diversità, equità e inclusione) che aveva sostenuto «dobbiamo lavorare attivamente per impedire l’estrazione capitalista su altri mondi».
Ciò «dimostra brillantemente come le ideologie responsabili della distruzione dell’istruzione universitaria in discipline umanistiche possano essere messe al lavoro per abortire anche l’esplorazione spaziale», ha scritto lo Zubrin.
Lo Zubrin ha osservato che poiché il gruppo DEI non ha alcun senso su base scientifica, deve ricorrere a «una combinazione di antico misticismo panteistico e pensiero socialista postmoderno» – come affermare che anche se non ci sono prove nemmeno dell’esistenza di microbi su pianeti come Marte, «danneggiarli sarebbe immorale quanto qualsiasi cosa sia stata fatta ai nativi americani o agli africani».
Tuttavia la Rubenstein afferma che varie credenze indigene «sono in netto contrasto con l’insistenza di molti nel settore sul fatto che lo spazio sia vuoto e inanimato».
Tra questi vi sono un gruppo di nativi australiani che affermano che i loro antenati «guidano la vita umana dalla loro casa nella galassia» (e che i satelliti artificiali sono un pericolo per questa «relazione»), gli Inuit che sostengono che i loro antenati vivono in realtà su “corpi celesti” e i Navajo che considerano sacra la luna terrestre.
«Gli appassionati laici dello spazio non hanno bisogno di accettare che lo spazio sia popolato, animato o sacro per trattarlo con la cura e il rispetto che le comunità indigene richiedono all’industria», afferma la Rubenstein.
In effetti, in una recensione del libro di Rubenstein Astrotopia: The Dangerous Religion of the Corporate Space Race, la testata progressista Vox ha osservato che «in effetti, alcuni credono che questi corpi celesti dovrebbero avere diritti fondamentali propri».
Quindi, l’ordine degli accademici è che gli esseri umani dessero priorità alle credenze dei nativi nell’esplorazione dello spazio rispetto a quelle dei cristiani europei?
Dovremmo rinunciare all’estrazione di minerali preziosi da asteroidi, comete e pianeti vicini, perché hanno tutti una sorta di Carta dei diritti «mistica panteistica»?
I limiti posti ai programmi di esplorazione spaziale sono da sempre legati a movimenti antiumanisti che odiano la civiltà – in una parola alla Cultura della Morte.
Aiuta Renovatio 21
Lo stesso Zubrin, ex dipendente NASA frustrato dalla mancanza di un programma per la conquista di Marte e il suo terraforming, ne ha scritto in libri fondamentali come Merchants of Dispair (2013), dove spiega come la pseudoscienza e l’ambientalismo siano di fatto culti antiumani.
Lo Zubrin era animatore della Mars Society, un’associazione dedicata alla promozione dell’espansione su Marte, quando nei primi anni Duemila si presentò ad una serata del gruppo uno sconosciuto, che alla fine lasciò in donazione un assegno con una cifra inusitata per la Society, ben 5.000 dollari: si trattava di Elon Musk.
Il quale, marzianista convinto al punto da realizzare razzi che dice ci porteranno sul pianeta rosso tra quattro anni, è anche uno dei più accesi nemici del politicamente corretto, della cultura woke e soprattutto dell’antinatalismo, oltre che una persona che attivamente, negli anni – lo testimonia la sua costante attenzione per la storia della Roma antica – ha dimostrato di aver compreso il valore, e la fragilità, della civiltà umana.
Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
Civiltà
L’anarco-tirannia uccide: ieri ad Udine, domani sotto casa vostra
Iscriviti al canale Telegram
Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
Sostieni Renovatio 21
Aiuta Renovatio 21
Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
Civiltà
Tecnologia e scomparsa della specie umana: Agamben su progresso e distruzione
Renovatio 21 pubblica questo scritto di Giorgio Agamben apparso sul sito dell’editore Quodlibet su gentile concessione dell’autore.
Quali che siano le ragioni profonde del tramonto dell’Occidente, di cui stiamo vivendo la crisi in ogni senso decisiva, è possibile compendiarne l’esito estremo in quello che, riprendendo un’icastica immagine di Ivan Illich, potremmo chiamare il «teorema della lumaca».
«Se la lumaca», recita il teorema, «dopo aver aggiunto al suo guscio un certo numero di spire, invece di arrestarsi, ne continuasse la crescita, una sola spira ulteriore aumenterebbe di 16 volte il peso della sua casa e la lumaca ne rimarrebbe inesorabilmente schiacciata».
È quanto sta avvenendo nella specie che un tempo si definiva homo sapiens per quanto riguarda lo sviluppo tecnologico e, in generale, l’ipertrofia dei dispositivi giuridici, scientifici e industriali che caratterizzano la società umana.
Questi sono stati da sempre indispensabili alla vita di quello speciale mammifero che è l’uomo, la cui nascita prematura implica un prolungamento della condizione infantile, in cui il piccolo non è in grado di provvedere alla sua sopravvivenza. Ma, come spesso avviene, proprio in ciò che ne assicura la salvezza si nasconde un pericolo mortale.
Gli scienziati che, come il geniale anatomista olandese Lodewjik Bolk, hanno riflettuto sulla singolare condizione della specie umana, ne hanno tratto, infatti, delle conseguenze a dir poco pessimistiche sul futuro della civiltà. Nel corso del tempo lo sviluppo crescente delle tecnologie e delle strutture sociali produce una vera e propria inibizione della vitalità, che prelude a una possibile scomparsa della specie.
L’accesso allo stadio adulto viene infatti sempre più differito, la crescita dell’organismo sempre più rallentata, la durata della vita – e quindi la vecchiaia – prolungata.
Sostieni Renovatio 21
«Il progresso di questa inibizione del processo vitale», scrive Bolk, «non può superare un certo limite senza che la vitalità, senza che la forza di resistenza alle influenze nefaste dell’esterno, in breve, senza che l’esistenza dell’uomo non ne sia compromessa. Più l’umanità avanza sul cammino dell’umanizzazione, più essa s’avvicina a quel punto fatale in cui progresso significherà distruzione. E non è certo nella natura dell’uomo arrestarsi di fronte a ciò».
È questa situazione estrema che noi stiamo oggi vivendo. La moltiplicazione senza limiti dei dispositivi tecnologici, l’assoggettamento crescente a vincoli e autorizzazioni legali di ogni genere e specie e la sudditanza integrale rispetto alle leggi del mercato rendono gli individui sempre più dipendenti da fattori che sfuggono integralmente al loro controllo.
Gunther Anders ha definito la nuova relazione che la modernità ha prodotto fra l’uomo e i suoi strumenti con l’espressione: «dislivello prometeico» e ha parlato di una «vergogna» di fronte all’umiliante superiorità delle cose prodotte dalla tecnologia, di cui non possiamo più in alcun modo ritenerci padroni. È possibile che oggi questo dislivello abbia raggiunto il punto di tensione massima e l’uomo sia diventato del tutto incapace di assumere il governo della sfera dei prodotti da lui creati.
All’inibizione della vitalità descritta da Bolk si aggiunge l’abdicazione a quella stessa intelligenza che poteva in qualche modo frenarne le conseguenze negative.
L’abbandono di quell’ultimo nesso con la natura, che la tradizione filosofica chiamava lumen naturae, produce una stupidità artificiale che rende l’ipertrofia tecnologica ancora più incontrollabile.
Che cosa avverrà della lumaca schiacciata dal suo stesso guscio? Come riuscirà a sopravvivere alle macerie della sua casa? Sono queste le domande che non dobbiamo cessare di porci.
Giorgio Agamben
Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
-
Ambiente6 giorni fa
Naufragio di nave militare neozelandese, fuoriuscita di petrolio «altamente probabile»: accuse in rete alla comandante lesbica
-
Essere genitori1 settimana fa
Vaccino Pfizer, studio su 1,7 milioni di bambini e adolescenti rileva la miopericardite solo nei vaccinati
-
Vaccini2 settimane fa
Nuovo studio trova un collegamento tra vaccini COVID e gravi problemi cardiaci
-
Bioetica2 settimane fa
Feto sorride dopo aver sentito la voce del papà durante l’ecografia
-
Sanità2 settimane fa
L’ONU approva il «Patto per il futuro»: vaccini intelligenti, più censura, ma nessun nuovo potere di emergenza
-
Spirito1 settimana fa
Mons. Viganò contro la cerimonia azteca per la nuova presidente messicana: «Tutti gli dèi dei pagani sono demoni»
-
Gender1 settimana fa
Squadra di calcio transgender sconfitta 19-0 nella partita d’esordio
-
Geopolitica2 settimane fa
Iniziata l’invasione israeliana del Libano