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Predazione degli organi

DCD, la nuova frontiera della predazione degli organi

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L’introduzione del criterio della morte cerebrale non fu il risultato di una riflessione teorica o filosofica sulla morte, piuttosto della volontà di risolvere due ordini di esigenze pratiche: contenere il problema dei pazienti bisognosi di cure mediche adeguate (in concomitanza della scoperta delle moderne tecniche di rianimazione) e legittimare l’espianto degli organi vitali.

 

Ad affermarlo furono gli stessi membri del Comitato di Harvard i quali, ormai più di cinquant’anni fa, vennero chiamati ad elaborare il concetto di morte con criteri neurologici: «il peso è più grande per i pazienti che soffrono della perdita permanente dell’intelletto, per le loro famiglie, per gli ospedali, e per quanti hanno bisogno di posti letto già occupati da altri pazienti comatosi (…) Criteri obsoleti per la definizione di morte possono portare a controversie nell’ottenere organi per il trapianto».

 

Gli evidenti riferimenti erano al problema di togliere i supporti vitali ai malati e alla necessità di legalizzare la pratica dei trapianti. Per risolvere tali impedimenti in un colpo solo era sufficiente dichiarare morte le persone in stato di incoscienza: il nuovo criterio di accertamento della morte venne così ratificato e finì in breve tempo per rivoluzionare radicalmente la deontologia e la prassi medica. 

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Pertanto, sembra evidente che il legame tra la predazione degli organi e la deriva eutanasica non è accidentale bensì strutturale. Ai giorni nostri, l’intima connessione tra queste due pratiche si manifesta in maniera particolarmente evidente nella nuova frontiera dei trapianti, la cosiddetta donazione a cuore fermo (Donation after Cardiac Death).

 

Schematicamente, esistono due tipi di donatori a cuore fermo: controllati e non controllati. La DCD non controllata concerne tutti i pazienti che hanno subito un improvviso arresto cardiaco e non hanno risposto (almeno in teoria) a tutti i tentativi di rianimazione cardiopolmonare.

 

In questi casi, per il prelievo degli organi vengono utilizzate procedure per ridurre la sofferenza ischemica dei tessuti, come i sistemi di perfusione continua meccanica e l’utilizzo di ossigenatori a membrana extracorporea. Tali sistemi vengono utilizzati già all’arrivo del paziente in ospedale per supportarne il cuore in vista di una sua possibile ripresa

 

Qualora il malcapitato non si riprenda si procede a verificare la volontà donativa dello stesso e in caso positivo al prelievo dei suoi organi. Trattandosi di un «donatore» non controllato il cuore non può essere prelevato, in quanto la sua funzionalità è compromessa da una patologia che ne ha causato l’arresto (in compenso possono essere prelevati tutti gli altri organi).

 

Diverso è il caso della DCD controllata in cui l’arresto cardiaco è atteso, ossia previsto. Essa, fa seguito alla sospensione dei trattamenti intensivi a motivo della loro mancanza di proporzionalità. In altre parole, il malato viene staccato dai supporti vitali, in particolare dal supporto ventilatorio, in una circostanza prevista e medicalmente controllata. In questo caso il cuore è sano e può essere prelevato dopo i venti minuti di assenza di battito e di circolo, come prescritto dalla legge italiana. Il muscolo cardiaco, già prima del prelievo e del trapianto, viene accuratamente valutato e spesso collegato ad un sistema di circolazione artificiale che permette di verificare la funzionalità dell’organo in vista del trapianto. 

 

Possiamo chiederci se possa essere stata proprio questa la causa della morte di una persona ricoverata a fine dicembre presso l’ospedale piemontese, la quale è stata depredata di cuore, fegato e reni dopo accertamento di morte con criteri cardiologici. Immediatamente dopo la dichiarazione del decesso il cuore della «donatrice», ci informano le cronache, è stato rivitalizzato da una équipe rianimatoria che ha fatto ripartire il cuore prima del suo prelievo. Gli organi (cuore e fegato) sono stati poi trasportati in un altro ospedale mantenuti vitali al di fuori del corpo in una condizione molto simile a quella fisiologica. 

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Naturalmente, la notizia è stata accolta dai media con grande entusiasmo e i membri dell’équipe medica descritti come degli eroi. E ovviamente nessun accenno ad alla possibilita per cui, secondo alcuni, vi potrebbe essere sottostante una pratica eutanasica.

 

Una cosa è certa: la nuova tecnica dei trapianti a cuore fermo da donatore controllato è la dimostrazione ulteriore che la dichiarazione di morte cerebrale rappresenta una mera convenzione volta unicamente ad eliminare i malati e foraggiare l’industria dei trapianti; con la DCD controllata, infatti, la morte del paziente non sopraggiunge a causa di una patologia cardiaca ma è conseguente alla decisione di sospensione dei trattamenti considerati inutili per il paziente stesso. Trattasi quindi di morte dopo sospensione delle cure.

 

Come uno tsunami la Necrocultura avanza e rompe tutti gli argini che incontra lungo il suo mostruoso cammino.

 

Alfredo De Matteo

 

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Predazione degli organi

Se la cardiologa parla della possibilità di un «obbligo» per la «donazione» degli organi

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Checché ne dicano i fautori della fantomatica e tanto sbandierata libertà di scelta (pensiamo allo slogan femminista-abortista «l’utero è mio e lo gestisco io» e a quello dell’associazione per l’eutanasia legale «Per essere tutti liberi, fino alla fine», solo per fare alcuni esempi), i nostri corpi e le nostre esistenze sono di fatto proprietà dello Stato già da molti decenni.   I finti ribelli costituiscono, volenti o nolenti, la manovalanza che serve al sistema per farci credere di avere la possibilità di scegliere. In effetti, grazie alle loro «battaglie» pilotate dall’alto, l’individuo ha conquistato il «diritto» di uccidere l’innocente con l’aborto e la fecondazione artificiale, di togliere la vita a se stesso ad altri con le varie pratiche eutanasiche.   Sappiamo che abbiamo ottenuto anche la possibilità di farci squartare vivi e di permettere che lo si faccia ad un nostro congiunto tramite la predazione degli organi.    In altri termini, siamo liberi di scegliere come farci ammazzare ma non certo di vivere e soprattutto di vivere da figli di Dio. Ovviamente, il fine dichiarato è sempre buono: i nostri aguzzini possiedono la maschera degli inguaribili filantropi che vogliono solo ed unicamente il nostro bene e, udite udite, la nostra libertà. 

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Tale macabra messinscena è stata particolarmente evidente nel 2020 con l’imposizione del siero genico sperimentale, prodotto con cellule di bambini uccisi nel grembo materno, praticamente a quasi tutta la popolazione mondiale per salvarla da un’epidemia probabilmente programmata e pianificata.    Tuttavia, conserviamo ancora un certo margine di capacità decisionale che da molto fastidio a chi vuole e brama il nostro totale asservimento. Proprio per tale motivo assistiamo, ogni giorno di più, al tentativo di toglierci anche quel poco margine che ci rimane di decidere sulle nostre vite: la cardiologa Maria Frigerio, ex direttrice del reparto di cardiologia dell’ospedale Niguarda di Milano dedicato ai pazienti con insufficienza cardiaca avanzata e ai trapiantati di cuore, in un’intervista pubblicata dal Corriere della sera preconizza l’obbligatorietà dei trapianti.   Abbiamo già avuto modo di relazionare i nostri lettori sul fatto che una considerevole percentuale della popolazione italiana continua ad opporre un netto rifiuto alla possibilità di essere sottoposto all’espianto degli organi, malgrado la pressante propaganda massmediatica a favore della cosiddetta donazione.   C’è anche da tenere presente che la nostra possibilità di scelta è già decisamente coartata visto che l’alternativa alla predazione è il distacco dai sostegni vitali e l’abbandono delle cure.   Eppure, secondo la cardiologa, ormai in pensione, tutto ciò non è sufficiente: «la percentuale di opposizioni alle donazioni, nel nostro paese, è fissa al trenta percento da trent’anni. Al netto di un lieve miglioramento registrato nel 2024 [dovuto esclusivamente all’utilizzo di nuove procedure per l’espianto degli organi, ndr] vuol dire che ogni 7 trapianti fatti avremmo potuto farne 10, una differenza enorme. Il rischio è che si trapianti il paziente solo quando è in fin di vita. È devastante anche per noi medici osservare questi pazienti deteriorarsi e non poter fare niente. Per questo la donazione potrebbe diventare un obbligo».   La Frigerio parla poi dei «cuori in transito», che sono «un pezzo di noi che continua a vivere e che lasciamo lì per qualcun altro, un po’ come si lascia libera una camera d’albergo». Il cuore ci serve per vivere, continua la cardiologa, «ma non pensiamolo in termini di proprietà (sic) anche se nella nostra cultura è un organo molto personale».   È evidente come la dottoressa giochi di sponda, attraverso un’accurata scelta di termini e metafore che tendono a veicolare un’immagine romantica e suggestiva del nostro corpo, che puà aiuarci a digerire meglio ciò che diventeremo (almeno nei progetti di chi tira i fili delle nostre esistenze) e che in parte già siamo, ossia dei meri contenitori di organi prelevabili a piacimento.    L’intervista si presenta comunque ricca di spunti che ci consentono anche di focalizzare la nostra attenzione su una questione molto importante relativa ai trapianti che non viene quasi mai presa in considerazione: le reali aspettative di vita, nonché la qualità della stessa delle persone che hanno ricevuto un organo.    La cardiologa milanese accenna al suddetto problema in maniera alquanto criptica e contraddittoria: «un paziente deve curarsi per vivere, non vivere per curarsi, anche se per sopravvivere a un trapianto di cuore è meglio essere ossessivi che trascurati».   In realtà, sappiamo che la vita di un trapiantato è, nella stragrande maggioranza dei casi, un vero e proprio calvario, fatto di frequenti visite ed esami, di medicinali presi per sempre nonché segnata dall’elevato rischio di prendersi una lunga sfilza di malattie, non di rado mortali.   Il fatto che l’esistenza delle persone che hanno ricevuto un organo sia tutt’altro che una «passeggiata di salute» tende a venir fuori molto raramente e in alcuni casi anche in maniera non del tutto voluta: è molto recente la notizia della morte della giovane Michelle Trachtenberg, divenuta famosa per aver interpretato ruoli da protagonista in alcune serie tv di successo come Gossip Girl e Buffy l’ammazzavampiri.   La sfortunata attrice, trentanovenne, è deceduta in maniera improvvisa all’interno della sua abitazione. Probabilmente, nel tentativo di smontare l’ipotesi del malore improvviso dovuto ai motivi che tutti conoscono ma che è vietato riportare, i media si sono affrettati a ragguagliare il pubblico circa le possibili cause della morte della ragazza, ossia i pesanti problemi di salute insorti a seguito del trapianto di fegato a cui è stata sottoposta di recente.   Dunque l’ipotesi più plausibile è legata al rigetto dell’organo. Sembrerebbe infatti che gli ultimi anni di vita dell’attrice siano stati molto difficili, come riferisce una sua cara amica: «Mi spezza il cuore. Le volevo bene. Negli ultimi anni ha lottato. Vorrei averla potuto aiutare».   Ma quali sono i problemi a cui vanno incontro i trapiantati?   L’elenco delle complicanze post trapianto è piuttosto lungo e include:  
  • rigetto
  • infezioni varie e spesso insolite
  • tumori
  • aterosclerosi
  • problemi renali
  • gotta
  • malattia del trapianto contro l’ospite
  • osteoporosi 

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L’uso continuo e a vita dei farmaci immunosoppressori, necessari a sopprimere la risposta del sistema immunitario verso l’organo trapiantato, riduce la capacità del sistema immunitario stesso di combattere le infezioni e di distruggere le cellule tumorali. Sussiste dunque un rischio molto elevato di contrarre alcuni tipi di cancro, in particolare i tumori della pelle, come il carcinoma a cellule squamose (SCC), il carcinoma basocellulare (BCC) e il melanoma-carcinoma a cellule di Merkel (MCC), tutti potenzialmente letali.   Per rendere l’idea dell’incidenza di tali patologie nei trapiantati basti dire che il rischio di contrarre l’SCC è 100 volte più alto rispetto alla popolazione generale, quello di sviluppare il BCC è di sei volte mentre è di 24 volte per l’MCC. Dal momento che il cancro della pelle non può essere prevenuto nei soggetti trapiantati, quest’ultimi devono sottoporsi a screening regolari, ancora più frequenti nelle persone con una storia personale di tumori della pelle.   Attraverso una ricerca scientifica è stato scoperto inoltre che i trapiantati hanno un rischio particolarmente elevato di sviluppare melanomi che hanno già raggiunto uno stadio avanzato al momento della diagnosi.    Sempre a causa dei farmaci immunosoppressori le persone che hanno ricevuto un trapianto di fegato, cuore o polmone hanno il 64 %in più di probabilità, rispetto alla popolazione generale, di sviluppare patologie cardiovascolari. Un altro aspetto che rende più probabile l’incidenza di tali malattie è l’obesità: ben il 50%dei trapiantati subisce un aumento di peso che oscilla tra il 10% e il 35% del loro peso corporeo; un problema che riguarda anche i soggetti senza una storia pregressa di accumulo patologico di tessuto adiposo.   L’elenco delle patologie e del calvario sanitario che subiscono i pazienti trapiantati è decisamente lungo e meriterebbe un approfondimento che esula dalle nostre competenze. In ogni caso, è lecito supporre che le persone riceventi un organo possano diventare dei malati cronici con una bassa qualità e un’altrettanto bassa aspettativa di vita.   Non è poi così infrequente che i trapiantati diventino a loro volta soggetti da espiantare o da eutanatizzare, secondo una spirale di malattia, sofferenza e morte voluta e pianificata a tavolino. Nel 1993, il fratello, racconta la cardiologa, fu colto da un ictus a 41 anni e il suo cuore trapiantato su un paziente che visse solamente una settimana. Lo stesso cuore venne impiantato in un terzo soggetto che visse per vent’anni.   «Aveva ragione la moglie», suggerisce la cardiologa, «non era più il cuore di mio fratello ma quello di suo marito (…) C’è sempre un rischio nel trapianto di un organo che ha già subito una manipolazione. Non è il pezzo di un’automobile, insomma», chiosa la specialista.    E se è la scienza dei trapianti ad affermare che non siamo pezzi di ricambio possiamo certamente dormire sonni tranquilli…   Alfredo De Matteo    

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Bioetica

«Non utilizzare gli organi di una ragazza di 16 anni mi pareva un delitto»: parla «l’uomo dei trapianti»

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Un quotidiano a tiratura nazionale, Il Giornale, lo scorso 20 gennaio ha pubblicato un singolare articolo-intervista a colui che nel titolo è definito «l’uomo dei trapianti». 

 

Si tratta di un professore ordinario di malattie infettive e tropicali considerato il principale soggetto di riferimento a livello nazionale per il trapianto di organi in caso di problematiche infettivologiche.

 

Apprendiamo così che dal 1999 il professore «vive reperibile giorno e notte, tutti i giorni dell’anno, Natale, compleanni, influenza, vacanze comprese perché è a lui che i centri di coordinamento regionali trapianti di tutta Italia fanno riferimento quando ci sono organi da donare». Da più di un quarto di secolo, dunque, costui «sceglie a chi dare gli organi», è scritto nell’occhiello del pezzo. Egli «è da 25 anni la Second Opinion Nazionale per le problematiche infettivologhe [sic] quando si tratta di donare gli organi. A lui spetta l’ultima parola, accendere o meno la luce verde anche quando i segnali non sono così chiari».

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«Un impasto perfetto di prontezza e coraggio e la responsabilità pesa a volte quanto la solitudine nell’essere un numero primo» continua l’articolo, che cita la spiegazione dell’uomo: «Da quando il soggetto diventa donatore, abbiamo tre ore di tempo per decidere se è o meno idoneo».

 

Sono forniti dati numerici interessanti: «ogni quanto mi squilla il telefono? Ho appena finito di stilare il report di fine anno: sono 900 telefonate, una media di tre al giorno».

 

Viene poi riportato un episodio specifico. «Un paio di anni fa venne trovata una giovane su una spiaggia in Puglia. Stava male e morì poco dopo. Aveva partecipato a un Rave party e non si sa cosa avesse fatto e con chi era stata. Mi chiedono cosa fare. Non era semplice decidere, i chirurghi di riferimento dei riceventi cercavano di convincere i pazienti a rinunciare».

 

«Eppure non utilizzare organi di una ragazza di 16 anni mi sembrava un delitto. Ho parlato con loro e ho condiviso gli algoritmi di compatibilità, ho spiegato la situazione, rischi e vantaggi. Alla fine hanno firmato tutti il consenso, si sono fidati e oggi stanno tutti bene» racconta il professore, definito da Il Giornale come un «pioniere dall’aria modesto, che parla delle sue straordinarie conquiste come se fosse cosa di tutti i giorni».

 

Apprendiamo che «è stato il primo a vincere una scommessa che tutti davano per folle: trapiantare gli organi di malati di COVID».

 

«Primi al mondo a usare donatori positivi. Era novembre del 2020, il vaccino non c’era ancora. Eravamo in piena pandemia e mi arriva una chiamata. Un ragazzo di 14 anni, si era suicidato» rammenta il professore. «Abbiamo trapiantato gli organi a pazienti guariti dal COVID. Pochi mesi dopo ci hanno seguito gli altri Paesi. Sembrava un azzardo ma abbiamo aperto la strada a centinaia di vite salvate».

 

A questo punto, l’intervistato si lascia andare ad alcune amare riflessioni: «si perdono tanti organi. L’Italia purtroppo è il secondo Paese con un tasso elevatissimo di germi resistenti all’antibiotico. Peggio di noi solo la Grecia, Questo significa che davanti ad alcune infezioni non abbiamo armi e gli organi sono inutilizzabili».

 

Tuttavia, «per l’HIV è un discorso diverso. Oggi si cura facilmente. Nel 2017 siamo stati il primo Paese in Europa a trapiantare organi tra HIV positivi. Il modello italiano è stato ancora una volta pionieristico. Da anni sono nel Consiglio d’Europa e ho potuto fare l’estensore delle linee guida europee in materia».

 

Si delinea dunque il prossimo obiettivo: «c’è altro che possiamo fare: il trapianto da positivi a negativi», dice il professore, e l’articolista conclude con un tono di utopica speranza: «sarebbe un’altra vittoria per l’uomo».

 

Ricordiamo, infine, il titolo dato al pezzo dal quotidiano: «Io sempre al telefono decido in un momento a chi donare una vita».

 

Come può vedere il lettore, non commentiamo nulla riguardo ai contenuti dell’articolo.

 

Ci sia consentito tuttavia andare indietro con la memoria al 1962: nel novembre di quell’anno la rivista Life pubblica un articolo intitolato «Decidono chi vive, chi muore: il miracolo medico pone il peso morale su un piccolo comitato». Si parlava di una «commissione-dio» di un ospedale che decideva quali pazienti si dovessero curare con i macchinari per la dialisi, allora appena introdotti e rarissimi.

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L’articolo, scritto dalla celebre giornalista americana Shana Alexander (1925-2005), aprì un immenso dibattito negli Stati Uniti e in tutto il mondo: davvero degli uomini potevano arrogarsi decisioni sulla vita e sulla morte del prossimo? In base a quali criteri? Chi stabiliva quali fossero questi criteri? Cosa accadeva poi a chi non veniva prescelto? E a chi veniva prescelto?

 

Si trattava del problema dell’allocazione delle risorse sanitarie, rispuntato – molto in sordina ma con episodi inquietanti se non sconvolgenti – anche durante il COVID. Nel 1962, la questione della dialisi favorì lo sviluppo di quel ramo della conoscenza chiamato Bioetica, con comitati e pensatori pronti a riflettere su questo dilemma.

 

Ora ci domandiamo: il «dilemma», in medicina, esiste ancora?

 

Parlare di poteri immensi in mano ai medici oggi non scandalizza più, anzi, può essere visto come una virtuosa responsabilità.

 

Vogliamo chiedere al lettore se non pare anche a lui che il mondo sia cambiato un pochino: chiamatelo pendìo scivoloso, chiamatela Finestra di Overton, chiamatela rana bollita, chiamatelo «Progresso».

 

Per noi non è altro che lo scivolamento della società verso la negazione della dignità umana, biologica e morale: in una parola, Necrocultura, vero volto della medicina moderna.

 

Roberto Dal Bosco

Alfredo De Matteo

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Predazione degli organi

Un italiano su tre si rifiuta di donare gli organi, ma la macchina della predazione continua la sua mostruosa corsa

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Gli organi di stampa ci informano che il 2024 è stato l’anno record per i trapianti di organi, con un incremento di quasi il tre percento rispetto al 2023, anno in cui l’Italia si è posizionata al secondo posto tra i paesi europei.   Secondo il ministro della Salute Schillaci tali risultati «sono stati resi possibili grazie alla generosità e alla solidarietà dei donatori di organi, delle loro famiglie e delle associazioni di volontariato». Tuttavia, continua il ministro, «Molte più vite potrebbero essere salvate se in numero sempre maggiore dicessimo sì alla donazione, un sì convinto».   Naturalmente, i fondi per foraggiare l’industria dei trapianti si trovano sempre e comunque, visto che nell’ultima legge di bilancio sono stati stanziati, a quanto pare, dieci milioni di euro l’anno per ridurre le liste di attesa per i trapianti e per l’acquisizione di nuovi dispositivi medici per la perfusione, conservazione e trasporto di organi e tessuti.

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Sembra anche che il ministero della Salute e il Centro Nazionale Trapianti metteranno in campo una serie di iniziative volte ad abbattere le reticenze alla cosiddetta donazione, tra cui un’indagine conoscitiva sulle motivazioni che spingono le persone a prestare o meno il loro consenso all’espianto.   In realtà, l’unico sistema che hanno le Istituzioni per aumentare il numero degli espianti non è, ovviamente, quello di informare correttamente la popolazione sui veri termini della questione, bensì quello di fare leva sull’emotività e sui sensi di colpa.   In pratica, se non presti il tuo consenso a cedere pezzi del tuo corpo sei un egoista che non ha a cuore il bene degli altri (ci ricorda qualcosa?). Tale mezzo di convincimento funziona soprattutto nelle rianimazioni, dove ai parenti del comatoso viene prospettata la possibilità che il prelievo dei suoi organi possa consentire a qualcun’altro di sopravvivere.   Del resto, l’alternativa non è molto allettante: il distacco del loro congiunto dal respiratore, come da prassi. Infatti, è proprio in tale contesto che la percentuale delle opposizioni all’espianto risulta più bassa. Tuttavia, né la pressione psicologica né la martellante propaganda massmediatica riescono a sortire gli effetti sperati: un italiano su tre rifiuta di lasciarsi squartare vivo (ma guarda un pò). Infatti, nel 2024 ben il 36,3% delle persone che hanno espresso la loro volontà nelle anagrafi comunali ha scelto di opporsi al prelievo degli organi, con un aumento di circa 5 punti percentuali rispetto all’anno precedente.    Come mai dunque crescono le opposizioni ma i trapianti aumentano di numero? Sono gli stessi organi di stampa a fornirci la spiegazione: «Un fattore determinante per l’aumento delle attività di donazione e trapianto è stata la crescita delle donazioni a cuore fermo, ossia quella che proviene da pazienti la cui morte viene accertata dopo un arresto cardiaco di almeno venti minuti (…) I centri ospedalieri che si occupano di questa attività sono attualmente 85, contro i 72 di un anno fa”».   Il prelievo di tessuti da pazienti in arresto cardiaco (DCD) sembra rappresentare la nuova frontiera che consentirà all’industria dei trapianti di reperire un maggior numero di organi freschi, vista la grande incidenza delle malattie cardiovascolari nella popolazione. In sostanza, grazie all’utilizzo di appositi macchinari adibiti alla circolazione extracorporea, è possibile mantenere attiva la funzionalità degli organi anche in assenza di battito cardiaco.   Per determinare la morte con criteri cardiologici è obbligatorio osservare un’assenza completa di battito cardiaco e di circolo per il tempo necessario affinché si verifichi con «certezza» la necrosi encefalica. In Italia, la DCD può avvenire solo dopo che un medico abbia certificato la morte del paziente tramite l’esecuzione di un elettro-cardiogramma protratto per un tempo di almeno venti minuti, mentre nella maggioranza degli altri Paesi europei il tempo necessario è compreso tra i 5 e i 10 minuti.   Sì, avete capito bene: nel nostro Paese siamo certamente morti dopo venti minuti di arresto cardiaco e assenza di circolo, mentre in Spagna dopo soli 5 minuti. La cosa buffa è che tale evidente, incredibile mancanza di oggettività insita in tali criteri, invece di invalidare l’intera procedura di accertamento della morte viene spacciata come la prova provata dell’eccellenza italiana nel settore dei trapianti.   Del resto, come abbiamo potuto mettere in evidenza in altre occasioni, anche le procedure di accertamento della morte basate sui soli criteri neurologici (morte cerebrale) presentano la stessa, assurda mancanza di coerenza intrinseca.

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Tornando alla DCD, essa sembra collidere con le tecniche di rianimazione dei pazienti in arresto cardiaco, che sono di fondamentale importanza per la sopravvivenza degli stessi. Del resto, le manovre mirate a mantenere i tessuti vascolarizzati iniziano ben prima dei venti minuti necessari affinché, secondo la legge italiana, possa essere dichiarare la morte del paziente.   Non sembra così azzardato supporre che in questi casi, malgrado sulla carta i sanitari siano tenuti a non modificare l’approccio e la qualità delle cure delle persone in rianimazione, gli sforzi degli stessi siano perlopiù tesi a mantenere sani gli organi per l’espianto, piuttosto che a salvaguardare la vita del paziente in arresto cardiaco.     L’invenzione di nuove tecniche per la predazione degli organi è la dimostrazione che nel momento in cui agli oggettivi criteri di accertamento della morte, fondati sulla cessazione di tutte le funzioni vitale dell’individuo, sono stati affiancati altri criteri niente affatto oggettivi, basati sulla presunta cessazione della funzionalità di un organo, si è aperta la strada ad ogni sorta di abuso – e ad una strage infinita che è sotto i nostri occhi.   Alfredo De Matteo  

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