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Bioetica

Considerazioni sull’utilizzo di linee cellulari provenienti da bambini abortiti allo stadio fetale

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Renovatio 21 pubblica questo testo dell’avv. Maria Cecilia Peritore.

 

 

 

L’occasione della riflessione nasce dalla – ormai acclarata – circostanza secondo la quale, nello sviluppo dei vaccini anti-SARS-CoV-2, sono impiegate linee cellulari ricavate da materiale biologico derivante da organi o tessuti prelevati da bambini abortiti allo stadio fetale. 

 

È bene premettere che le cellule in questione sono state espiantate, se non sempre, in un gran numero di casi ampiamente documentati (1), da bambini funzionalmente abortiti; e che le modalità dell’interruzione di gravidanza sono state fortemente condizionate dalle esigenze tecniche della sperimentazione, essendo necessario che il prelievo avvenisse da tessuti vivi, di bambini dissezionati vivi.  

 

Ma perché prelevare da bimbi abortiti e non da donatori di organi?

 

Perché le cellule embrionali e fetali (2) sono idonee ad una riproduzione differenziata pressoché infinita,e risultano immunologicamente incontaminate. Di fatto lo sviluppo della ricerca si è basato su prerogative superumane (potenza creativa e purezza), abusando, quindi, della natura angelica, senza macchia, di questi piccolissimi innocenti sacrificati.

 

Il quesito etico concerne, in primo luogo, la legittimità della sperimentazione svolta a partire da un aborto (e, analogamente, da materiale biologico derivante da embrioni soprannumerari); secondariamente, la liceità o scusabilità delle modalità di prelievo da organismi umani vivi, soprattutto quando queste siano la causa diretta della morte dell’abortito; in ultimo, la giustificabilità dell’utilizzo, da parte dell’utente finale, di prodotti che impieghino tale «materiale biologico» nelle fasi di ricerca e/o produzione.  

 

  

La posizione assunta dalla Chiesa Cattolica 

 

Le Riflessioni del 2005

Il primo intervento sulla questione, per la verità assai poco reperibile nella divulgazione, è costituito dalle Riflessioni morali sui vaccini preparati da cellule derivate da feti umani abortiti (3) della Pontificia Accademia per la Vita, pubblicate il 9 giugno 2005.

 

L’Accademia osserva che potrebbe prospettarsi una contraddizione nella condotta di chi, per un verso, condanna l’aborto volontario e, per altro verso, ammette l’uso di vaccini prodotti servendosi di materiale biologico derivato da feti abortiti. Si tratterebbe di cooperazione al male?

 

Lo studio dell’Istituzione pontificia distingue tra cooperazione formale e materiale, precisando che vi sarebbe cooperazione formale quando tra i due agenti vi fosse condivisione dell’intenzione illecita.

 

La cooperazione sarebbe materiale in assenza di tale condivisione d’intenti e si distinguerebbe in immediata o diretta (allorché vi sia cooperazione esecutiva nell’atto) e mediata o indiretta (allorché le condotte degli agenti, restando indipendenti, realizzino le condizioni o forniscano strumenti, o prodotti, tali da agevolare l’atto illecito). Infine, si distingue tra cooperazione prossima e cooperazione remota. (4)

 

Dopo avere esaminato le varie forme di cooperazione, l’Accademia conclude prospettando: il dovere di usare i vaccini alternativi; il dovere di invocare l’obiezione di coscienza; il dovere di promuovere i vaccini alternativi e di usarne solo nella misura in cui ciò sia necessario per evitare un pericolo grave per la salute dei propri figli e della popolazione.

 

 

Il riferimento alla morale alfonsiana

La categoria della cooperazione materiale è ripresa in particolar modo dall’insegnamento di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori (5), che ammette la liceità della condotta di cooperazione materiale qualora ricorrano tre condizioni: 1) che la condotta sia di per sé buona o almeno indifferente, cioè non sia di per se stessa illecita; 2) che la condotta sia dettata da motivazione ragionevole e da buona intenzione, e che non sia di aiuto al peccato; 3) che il soggetto non abbia l’obbligo di impedire l’evento. (6) 

 

Il ragionamento dell’Accademia iscrive quindi l’utilizzo delle linee cellulari in questione nella categoria della cooperazione al male e ne disapprova l’utilizzo ponendo una graduazione di colpa a seconda della condotta dell’agente, distinguendo se formale o materiale, se diretta o indiretta, se prossima o remota al male identificato con l’aborto. Offre quindi agli utilizzatori una giustificazione morale consistente nello «stato di necessità» legato alle esigenze della salute pubblica e familiare e alla indisponibilità di altri vaccini.

 

Questa impostazione, nella quale si coglie già una sorta di cesura logica tra la premessa (illiceità dell’aborto innanzitutto e, poi, della sperimentazione) e la conclusione (liceità dell’utilizzo sia pure in via di eccezione), è stata nel tempo revisionata con l’accentuazione dei profili di distanza dall’atto e di costrizione della coscienza nell’utilizzatore finale.

 

   Volendo, tuttavia, ricondurre il ragionamento nell’alveo dell’originale insegnamento alfonsiano, non sembrano ravvisabili nel caso in questione le tre condizioni sopra richiamate, per le quali la condotta di cooperazione materiale possa essere qualificata come lecita ovvero scusabile.

 

La prima di tali condizioni è che la condotta sia di per sé lecita, ossia buona o almeno indifferente.

 

Ora, non sembra potersi dubitare della illiceità in sé della condotta dei sanitari che operano il prelievo di tessuti da feto vivo, con modalità contrarie al rispetto della dignità della creatura umana.

 

Parimenti illecita pare la condotta dei ricercatori che, consapevoli delle modalità di reperimento e prelievo del «materiale biologico» in questione, ne fanno uso legittimando in tal modo l’industria dell’aborto e della sperimentazione.

 

A tutto concedere, «indifferente» potrebbe essere considerata la condotta di chi utilizza il vaccino qualora non vi sia consapevolezza della provenienza abortiva, anche se la gravità della materia di che trattasi ne rende di per sé inaccettabile l’utilizzo senza adeguata ponderazione.

 

 

La seconda di tali condizioni riguarda la motivazione ragionevole e la buona intenzione, purché non agevoli comunque il peccato. L’oggettiva agevolazione al peccato, quindi, costituisce in colpa l’agente anche qualora l’intenzione fosse buona. Il che certamente accade nel caso di specie, poiché l’utilizzo di «materiale biologico» proveniente da aborti indubbiamente rappresenta un’agevolazione per l’aborto stesso ed ancor più per l’aborto praticato con le specifiche modalità di cui s’è prima fatto cenno.

 

La terza condizione è che l’agente non abbia l’obbligo di impedire l’evento. A tal proposito appare indubitabile che il medico sia tenuto ad operare per la salute di ogni persona, ivi compreso il bambino-feto, evitando le sofferenze non finalizzate alla sua cura. Né il principio trova deroga allorché si intenda perseguire un progresso scientifico a beneficio della collettività, non essendo comunque consentito servirsi della sofferenza individuale e del sacrificio umano, specie se non volontario, per un ipotetico bene comune.

 

 

L’Istruzione del 2008

Il tema viene successivamente ripreso dalla Congregazione per la Dottrina della Fede con l’Istruzione Dignitas personae – Su alcune questioni di bioetica pubblicata l’8 settembre 2008. (7)

 

Secondo la Congregazione «l’uso degli embrioni o dei feti umani come oggetto di sperimentazione costituisce un delitto nei riguardi della loro dignità di esseri umani, che hanno diritto al medesimo rispetto dovuto al bambino già nato e ad ogni persona. Queste forme di sperimentazione costituiscono sempre un disordine morale grave».

 

Si condanna ancora una volta l’utilizzo del «materiale biologico di origine illecita» ma si conferma il criterio della distanza rispetto al fatto illecito (aborto) per una graduazione di responsabilità che finisce per elidere quella dell’utente finale (l’utilizzatore del vaccino, costretto da una sorta di necessità derivante dalla indisponibilità di vaccini «etici»).

 

 

La Nota del 2017

Con la Nota circa l’uso dei vaccini (8), pubblicata il 31 luglio 2017,la Pontificia Accademia per la Vita, unitamente all’Ufficio per la Pastorale della Salute della CEI e all’Associazione dei Medici Cattolici Italiani, riprende i temi sviluppati nello studio del 2005, rimarcando ancora il concetto di distanza dal male.

 

Di fatto, però, ribalta le conclusioni cui era pervenuta in precedenza l’Accademia medesima: la giustificazione, provvisoria e dettata da stato di necessità, diventa ora una vera e propria «assoluzione»; e ciò

 

«… in considerazione del fatto che le linee cellulari attualmente utilizzate sono molto distanti dagli aborti originali e non implicano più quel legame di cooperazione morale indispensabile per una valutazione eticamente negativa del loro utilizzo.  [] Per quanto riguarda la questione dei vaccini che nella loro preparazione potrebbero impiegare o avere impiegato cellule provenienti da feti abortiti volontariamente, va specificato che il male in senso morale sta nelle azioni, non nelle cose o nella materia in quanto tali. Le caratteristiche tecniche di produzione dei vaccini più comunemente utilizzati in età infantile ci portano ad escludere che vi sia una cooperazione moralmente rilevante tra coloro che oggi utilizzano questi vaccini e la pratica dell’aborto volontario. Quindi riteniamo che si possano applicare tutte le vaccinazioni clinicamente consigliate con coscienza sicura che il ricorso a tali vaccini non significhi una cooperazione all’aborto volontario».

 

Desta perplessità la considerazione secondo la quale il «male» sta nelle azioni e non nella materia.

 

Tale considerazione, che potrebbe facilmente scivolare verso una prospettiva gnostica, sembra funzionale ad una visione sempre più «incorporea» dell’illecito, che meglio si presta ad una rappresentazione in termini di cooperazione remota.

 

È vero che l’illiceità risiede nelle azioni, ma l’immanenza di ciò che materialmente deriva dall’azione illecita non può non condizionare il giudizio sulla liceità del prodotto finale dell’azione dell’uomo. (9)

 

 

La recente Nota sui vaccini anti-Covid

Da ultimo, con la Nota sulla moralità dell’uso di alcuni vaccini anti-COVID-19 (10), del 21 dicembre 2020, la Congregazione per la Dottrina della Fede è intervenuta con specifico riguardo ai vaccini anti-SARS-CoV-2. 

 

Il documento si pone in continuità argomentativa con i precedenti, adottando i criteri noti: la differenziazione delle responsabilità a seconda della maggiore o minore distanza dal fatto illecito (aborto); l’utilizzo del vaccino da parte del singolo costituisce cooperazione materiale passiva tanto remota da giudicarsi alfine inesistente, specialmente laddove, come di fatto è, non siano disponibili vaccini etici.

 

Tuttavia, quella che nel documento del 2005 era indubitabilmente condotta di cooperazione al male, sia pure variamente graduata e articolata e giustificata da stato di necessità, è ora considerata un comportamento moralmente lecito in sé, a motivo della distanza dal fatto-aborto e del carattere materiale e indiretto della cooperazione.

 

In sostanza, pur nel contesto della medesima linea argomentativa, v’è una sorta di rovesciamento di prospettiva: la disapprovazione dell’utilizzo di materiale biologico di provenienza abortiva è chiaramente espressa nel documento del 2005, e da essa scaturisce l’obiezione di coscienza del cattolico, solo eccezionalmente giustificata, quale extrema ratio, dallo stato di necessità. (11)

 

In virtù del documento del 2020 si perviene alla vaccinazione «con coscienza sicura» anche in riferimento ai vaccini anti-SARS-CoV-2.

 

Ciò in quanto, da un lato, la cooperazione all’aborto, perché «remota», viene considerata moralmente lecita; dall’altro, il pericolo, «altrimenti incontenibile», della diffusione pandemica del COVID-19 renderebbe inesigibile il dovere morale di evitare l’utilizzo di materiale biologico di provenienza fetale.

 

Tale ragionamento ha fatto da presupposto alla concreta azione di adesione e supporto alla campagna vaccinale capillarmente diffusa, anche nelle parrocchie, sebbene con qualche eccezione. 

 

 

Dalla cooperazione al male  alla corresponsabilità nell’appropriazione del male

 

Considerazioni critiche non si sono fatte attendere (12), sollecitando una presa di posizione più netta e auspicando una maggiore sensibilità sull’argomento. Per la maggioranza dei cattolici, però, la «soluzione» offerta dal documento del 2020 ha rappresentato una comoda via per partecipare «con coscienza sicura» alla campagna vaccinale senza dover fare alcuna riflessione ulteriore ed anzi facendosene sovente promotori e sostenitori.

 

Tuttavia, se proviamo a leggere secondo logica giuridica gli argomenti elaborati dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, perveniamo a conclusioni difformi da quelle da ultimo elaborate dall’organo pontificio. 

 

Il ragionamento svolto a partire dal concetto di «cooperazione» risulta subito miope, sganciato dalla realtà dei fatti e strumentale ad una visione parziale e aprioristicamente «orientata» della questione.

 

Co-operano, cioè operano insieme, i soggetti che perseguono un medesimo risultato. Se quindi l’illecito è rappresentato dall’aborto volontario, operano insieme i soggetti che lo decidono o vi prendono parte ponendo in essere condotte differenti ma finalizzate al medesimo unico risultato: l’interruzione della gravidanza.

 

Al contrario, le condotte poste in essere da quanti eseguono la dissezione del feto abortito e il trattamento dei tessuti prelevati a fini di sperimentazione, così come le condotte di quanti producono, commercializzano e utilizzano i prodotti così ottenuti, non sono eziologicamente ascrivibili alla serie causale propria dell’aborto, non prendono parte all’aborto, non co-operano allo stesso, ma si giovano delle sue conseguenze.

 

Se quindi il nostro riferimento concettuale va alla condotta di cooperazione, arriviamo facilmente alla conclusione che essa non è ravvisabile nel caso di specie: a maggior ragione quando sia «passiva» e «remota».

 

A margine, comunque, osservo: lo scienziato cerca il materiale biologico per i suoi esperimenti e il mercato acquista i prodotti della ricerca: sono condotte attive, non passive.

 

E se diamo al termine «remota» significato temporale, non mi pare significativa la relazione di distanza temporale rispetto all’aborto: anche il peccato originale è «remoto», ma «segna» irrimediabilmente la persona umana fino al lavacro del battesimo.

 

Se invece definiamo «remota» la cooperazione perché tra l’aborto e l’utilizzo del farmaco si interpongono molti passaggi, non mi pare che ciò possa affievolire la connessione, ossia il rapporto di utilità/necessità che ciascuna condotta trae da quella antecedente.

 

 In realtà si tratta di condotte indipendenti, aventi finalità diverse (quindi non di cooperazione) ma che, considerate nell’insieme, nella loro connessione, nella loro relazione di utilità/necessità reciproca, finiscono per alimentare un meccanismo che presuppone un delitto, l’aborto.  

 

 Se illecito è l’aborto, pure illecito è accettare l’aborto come antefatto necessario di una ricerca che utilizza la potenzialità creatrice e la purezza originaria di un corpo innocente, soppresso per mano «umana».

 

Né l’aborto rappresenta il mero antefatto teorico di una serie di illeciti ulteriori: della serie causale di illeciti, l’aborto è il luogo del primo reato morale, ed è un reato con un corpo tangibile (i tessuti sottratti alla loro vita naturale) che conserva tutta la sua materialità anche nei passaggi impropriamente definiti «remoti».

    

Nella procedura di sviluppo e produzione dei vaccini il male quindi non può essere isolato nel fatto remoto dell’aborto, la cui responsabilità, derivante dalla scelta e dalla operatività, può essere ascritta in senso stretto solo ai genitori e ai sanitari che lo hanno praticato.

 

Una volta deciso ed eseguito l’aborto, l’utilizzo di questa «opportunità» di avere a disposizione cellule «fresche» e vive, prelevate da una persona viva che prova dolore, con modalità in spregio della dignità umana, non è di per sé un «male»?

 

Diverso rispetto all’aborto, ma pur sempre un male? E se è così, mi pare vi sia la corresponsabilità di quanti si adoperano per questo “utilizzo” privo di pietà del corpo del bimbo abortito e anche di quanti se ne giovano, fino all’ultimo anello della catena, i vaccinati.

 

Al concetto di cooperazione al male, da cui partono i documenti dottrinali per pervenire, dapprima nella forma della giustificazione per stato di necessità, quindi in quella della  liceità incondizionata, sembra preferibile quello di «appropriazione del male» coniato dalla teologa Cathleen Kaveny. (13)

 

Secondo la studiosa l’utilizzo nella ricerca scientifica di materiale derivante da aborto più che costituire cooperazione al male si configura come appropriazione del male; e ciò in quanto l’azione adiuvante di un soggetto agente rispetto al fatto illecito non nasce nella sua sfera volitiva e non è il prodotto di una finalità comune a tutti gli agenti, ma si sviluppa per una serie di connessioni casuali ovvero dipendenti da fattori ultronei, sicché  il vantaggio non deriva da una premeditazione della condotta comune ma da una utilità reciproca comunque ricavata e individualmente posta in essere.

 

Nel caso dei vaccini anti-SARS–oV-2, il ricercatore, il vaccinatore e il vaccinato non cooperano in alcun modo all’atto abortivo, già compiuto nel passato, ma si appropriano degli esiti prodotti da quell’atto per trarne vantaggio.

 

Il quesito morale allora non è più se vi sia o non vi sia cooperazione al male (cooperazione che, quand’anche ritenuta in origine esistente, sarebbe poi destinata ad affievolirsi), bensì se e in quale misura sia lecito di per sè utilizzare il prodotto di una condotta iniqua compiuta da altri soggetti per ragioni diverse dalle proprie.

 

Ma a questo punto anche la Kaveny scivola verso una troppo facile «assoluzione»: la sperimentazione e l’utilizzo sarebbero lecite poiché il vantaggio scientifico e terapeutico è stato ricavato per accidens dall’atto abortivo, non essendo lo scopo dell’aborto ma rappresentando un sorta di conseguenza utile a suo tempo non voluta.

 

Neppure questa prospettiva risulta però convincente.

 

In realtà, ammesso e non concesso che l’aborto non fosse finalizzato all’espianto dei tessuti fetali, le condotte umane sono da considerarsi, ad un tempo, indipendenti ma interconnesse nell’agire collettivo.

 

Le condotte successive all’aborto, consistenti nelle varie forme di utilizzo del feto vivo come se si trattasse di mero «materiale biologico», fino all’utente finale che è il vaccinato, si appropriano dell’aborto mediante un utilizzo consapevole e volto a soddisfare un interesse proprio, quand’anche diverso e individuale per ciascuno degli agenti.

 

È responsabile non solo chi trae dall’illecito il profitto voluto, ma anche chi ne trae una qualsiasi utilità anche indiretta e non prevista ovvero diversa da quella inizialmente voluta.

 

Allo stesso modo, è responsabile non solo chi ha eseguito e deciso l’aborto, ma anche chi da tale fatto (l’aborto) tragga una utilità diversa (la possibilità dell’estrazione delle cellule) o consapevolmente ne profitti (vaccinazione).

 

La speculazione giuridica sulle condotte di partecipazione nel reato, finalizzata a definire l’area della partecipazione punibile rispetto a quella non punibile (e dunque dell’illecito rispetto al lecito) ha individuato categorie che possono essere qui utilmente richiamate.

 

La cooperazione al male si può assimilare al concorso di persone nel reato: sicché ciascuno degli agenti risponde dell’unico reato commesso, e le condizioni individuali (maggiore o minore apporto, dolo, stati soggettivi, etc.) incidono solo sulla determinazione della pena e su eventuali aggravanti/attenuanti. Condizione perché si applichi il concorso è il contributo causale dell’agente all’illecito e la consapevolezza dell’agire in cooperazione.

 

Se assumiamo l’aborto come unico illecito, l’ipotesi di responsabilità concorsuale deve necessariamente fermarsi ai genitori e agli ausiliari che vi abbiano preso parte. Ricercatori, sviluppatori, produttori, utilizzatori finali non prestano alcun contributo causale al fatto-aborto verificatosi prima e a prescindere dalle condotte successive.

 

Consideriamo però che: 

 

  • illecito è anche il prelievo di tessuti mediante dissezione di feto vivo e senziente, in spregio alla dignità dell’essere umano. Assumendo come illecito non solo l’aborto ma anche le modalità di prelievo, e con la consapevolezza, oggi possibile anche da parte dell’utente finale, circa le modalità di produzione dei vaccini, la cooperazione/concorso risulta evidente anche per le condotte successive e conseguenti all’aborto.

 

  • la cooperazione/concorso non esaurisce le categorie di partecipazione al reato. Infatti il diritto penale prevede il concorso di cause indipendenti e il favoreggiamento, riconducendo l’apporto agevolativo all’area dell’illecito anche se manchi identità del disegno criminoso (14) se la condotta sia successiva al reato già commesso (favoreggiamento). In questi casi la condotta di partecipazione è sempre illecita ma per un titolo proprio. 

 

Il concetto di appropriazione del male appare simmetrico a quelli di concorso di cause indipendenti e di favoreggiamento, a nulla rilevando l’accidentalità del profitto.

 

Peraltro, non può essere considerato accidentale il prelievo di tessuti da bambini abortiti quando assuma, come di fatto assume, caratteristiche di predeterminazione, organizzazione, sistematicità e rilevanza economica.

 

Non è ragionevole sostenere che in ambito morale le condotte di partecipazione al male, sia sotto forma di cooperazione che sotto forma di appropriazione, conoscano un margine di irrilevanza maggiore di quello riconosciuto comunemente dalla teoria generale del diritto penale.

 

Partecipazione materiale o formale, diretta o indiretta, prossima o remota, volontaria o accidentale sono elementi di caratterizzazione della condotta idonei ad influire sul giudizio di gravità o di tenuità, ma non consentono di operare il discrimine tra lecito e illecito.

 

In altri termini, l’illecita condotta di partecipazione al male può atteggiarsi in vario modo e con ampia graduazione, così come l’illecita condotta di reato può consistere nel concorso formale, nel concorso di cause indipendenti, nel favoreggiamento.

 

Il fatto che anche in campo morale, così come in campo giuridico, possano sussistere cause di giustificazione, quale lo «stato di necessità», non elide a priori illiceità alla condotta, semmai incide sulla colpevolezza del reo.

 

Nel caso di specie, peraltro, la richiamata esimente dello «stato di necessità» appare espediente debolissimo, data la incerta efficacia dei vaccini e le terapie disponibili per la cura del COVID-19.

 

La conclusione cui si perviene è dunque nel senso della generale illiceità, radicale e ingiustificabile, dell’uso di vaccini e altri farmaci nel cui processo di sviluppo e/o produzione vengano utilizzate linee cellulari provenienti da bambini abortiti.

 

Affermare la liceità dell’uso di questi vaccini perché utili a salvare la vita a più persone ricorda il discorso di Caifa: ne sacrifichiamo uno per salvarne tanti.

 

Ammesso che i tanti si salvino veramente – il che è quanto meno controverso –  e che nell’uno, piccolissimo, che siamo disposti a sacrificare non si nasconda proprio il «nostro» Gesù. 

 

 

Maria Cecilia Peritore

Avvocato

 

Licata, 7 luglio 2021

 

 

NOTE

1)  https://renovatio21.com/wp-content/uploads/2021/05/Renovatio-21-linee-cellulari-feto-abortito-nei-vaccini.pdf. https://www.avvenire.it/mondo/pagine/coronavirus-vaccini-da-aborti-cosa-dice-la-chiesa

2) M. Sampaolesi, , Cellule staminali, inhttps://www.treccani.it/enciclopedia/cellule-staminali_(XXI-Secolo)/: «Le cellule staminali sono cellule non specializzate presenti in tutti gli organismi viventi. […]Si distinguono diversi stadi di potenza delle cellule staminali: la totipotenza è la capacità di generare tutti i tessuti embrionali ed extraembrionali […]; la pluripotenza è la capacità di differenziarsi in tutti i tessuti embrionali, […]; la multipotenza è la capacità di differenziare in tutti i tipi cellulari di un foglietto germinativo (endoderma, mesoderma o ectoderma); l’unipotenza è la capacità di differenziarsi in un unico tipo cellulare, tipico dei progenitori».

3) https://www.pro-memoria.info/wp/wp-content/uploads/Riflessioni-morali-sui-vaccini-preparati-da-cellule-derivate-da-feti-umani-abortiti-PAV-09-06-2005.pdf. Il documento non si trova sul sito web della Pontificia Accademia per la Vita.  

4) «Nel caso specifico in esame, ci sono tre categorie di persone che sono coinvolte nella cooperazione al male, male che ovviamente è rappresentato dall’azione di un aborto volontario compiuto da altri: a) coloro che preparano i vaccini utilizzando linee cellulari umane in arrivo da aborti volontari; b) coloro che partecipano alla commercializzazione di massa di tali vaccini; c) coloro che necessitano di utilizzarli per motivi di salute. In primo luogo, si deve considerare moralmente illecita ogni forma di cooperazione formale (condivisione dell’intenzione malvagia) all’azione di chi ha compiuto un aborto volontario, che a sua volta ha consentito il recupero dei tessuti fetali, necessario per la preparazione dei vaccini. Pertanto, chiunque – indipendentemente dalla categoria di appartenenza – coopera in qualche modo, condividendone l’intenzione, alla realizzazione di un aborto volontario con l’obiettivo di produrre i suddetti vaccini, partecipa, in realtà, allo stesso male morale come la persona che ha eseguito quell’aborto. Tale partecipazione avverrebbe anche nel caso in cui qualcuno, condividendo l’intenzione dell’aborto, si astenga dal denunciare o criticare tale azione illecita, pur avendo il dovere morale di farlo.(cooperazione formale passiva). Nel caso in cui non vi sia tale condivisione formale dell’intenzione immorale della persona che ha eseguito l’aborto, qualsiasi forma di cooperazione sarebbe materiale , con le seguenti specifiche. Per quanto riguarda la preparazione, la distribuzione e la commercializzazione di vaccini prodotti a seguito dell’utilizzo di materiale biologico la cui origine è collegata a cellule provenienti da feti volontariamente abortiti, tale processo è dichiarato, in linea di principio, moralmente illecito, perché potrebbe contribuire ad incoraggiare l’esecuzione di altri aborti volontari, con lo scopo della produzione di tali vaccini. Tuttavia, va riconosciuto che, all’interno della catena di produzione-distribuzione-commercializzazione, i vari agenti cooperanti possono avere responsabilità morali diverse. Tuttavia, c’è un altro aspetto da considerare, ed è la forma di cooperazione materiale passiva che sarebbe svolta dai produttori di questi vaccini, se non denunciassero e rifiutassero pubblicamente l’atto immorale originale (l’aborto volontario), e se non si dedicano insieme alla ricerca e alla promozione di modalità alternative, esenti dal male morale, per la produzione di vaccini per le stesse infezioni. Tale cooperazione materiale passiva , se dovesse verificarsi, è ugualmente illecita. Per quanto riguarda coloro che hanno bisogno di utilizzare tali vaccini per motivi di salute, va sottolineato che, al di là di ogni forma di collaborazione formale , in generale, medici o genitori che ricorrono all’uso di questi vaccini per i propri figli, pur sapendo la loro origine (aborto volontario), svolgono una forma di cooperazione materiale mediata moltoremota , e quindi molto mite, nell’esecuzione dell’atto originario dell’aborto, e una cooperazione materiale mediata , per quanto riguarda la commercializzazione di cellule provenienti da aborti, e immediato, per quanto riguarda la commercializzazione di vaccini prodotti con tali cellule. La collaborazione è quindi più intensa da parte delle autorità e dei sistemi sanitari nazionali che accettano l’utilizzo dei vaccini. Tuttavia, in questa situazione, l’aspetto della cooperazione passiva è quello che spicca di più. Spetta ai fedeli e ai cittadini di retta coscienza (padri di famiglia, medici, ecc.) opporsi, anche facendo un’obiezione di coscienza, agli attacchi sempre più diffusi contro la vita e la “cultura della morte” che li sottende. Da questo punto di vista, l’uso di vaccini la cui produzione è collegata all’aborto procurato costituisce almeno una cooperazione materiale passiva remota media all’aborto, e una cooperazione materiale passiva immediata per quanto riguarda la loro commercializzazione. Inoltre, a livello culturale, l’uso di tali vaccini contribuisce alla creazione di un consenso sociale generalizzato al funzionamento delle industrie farmaceutiche che li producono in modo immorale. Pertanto, medici e padri di famiglia hanno il dovere di ricorrere a vaccini alternativi (se esistono), facendo pressioni sulle autorità politiche e sui sistemi sanitari affinché siano disponibili altri vaccini senza problemi morali. Devono ricorrere, se necessario, all’obiezione di coscienza per quanto riguarda l’utilizzo di vaccini prodotti mediante linee cellulari di origine fetale umana abortita. Allo stesso modo, dovrebbero opporsi con tutti i mezzi (per iscritto, attraverso le varie associazioni, mass media, ecc.) ai vaccini che non hanno ancora alternative moralmente accettabili, facendo pressione affinché vengano preparati vaccini alternativi, che non siano collegati all’aborto di un feto umano e richiedendo un rigoroso controllo legale dei produttori dell’industria farmaceutica. Per quanto riguarda le malattie contro le quali non esistono vaccini alternativi disponibili ed eticamente accettabili, è giusto astenersi dall’utilizzare questi vaccini se può essere fatto senza che i bambini, e indirettamente la popolazione nel suo insieme, subiscano rischi significativi per la loro salute. Tuttavia, se questi ultimi sono esposti a pericoli considerevoli per la loro salute, possono essere utilizzati anche vaccini con problemi morali ad essi pertinenti. La ragione morale è che il dovere di evitare la cooperazione materiale passiva non è obbligatorio in caso di grave inconveniente. Inoltre, troviamo, in tal caso, una ragione proporzionale, al fine di accettare l’utilizzo di questi vaccini in presenza del pericolo di favorire la diffusione dell’agente patologico, dovuto alla mancata vaccinazione dei bambini. Ciò è particolarmente vero nel caso della vaccinazione contro il morbillo tedesco. In ogni caso, resta il dovere morale di continuare a lottare e di impiegare ogni mezzo lecito per rendere la vita difficile alle industrie farmaceutiche che agiscono senza scrupoli e senza etica. Tuttavia, il peso di questa importante battaglia non può e non deve ricadere sui bambini innocenti e sulla situazione sanitaria della popolazione, soprattutto per quanto riguarda le donne incinte».

5) Della cooperazione materiale al peccato altrui, nn. 31-32, in Istruzione e pratica per i confessori: «La cooperazione materiale comunemente è ammessa per lecita da’ dottori quando v’è giusta causa. Intendasi qui, che altra è la cooperazione formale, la quale succede, quando si coopera direttamente al peccato (com’è in colui che fornicatur); o pure quando s’influisce nella mala volontà del prossimo, che vuol peccare, come sarebbe il guardare le spalle all’assassino o ladro, acciocché uccida o rubi con più sicurezza: lo scriver lettere amorose in nome del concubinario o portare doni alla di lui concubina: il ricever doni da persona che insidia l’onestà. Queste e simili cooperazioni sono intrinsecamente male, perché con esse si dà animo al prossimo ad eseguire il peccato, e almeno si fomenta la sua mala intenzione, e perciò per niuna causa, anche di morte, possono elle scusarsi da peccato mortale. Altra poi è la cooperazione materiale, la quale è, quando l’azione è indifferente, e ‘l prossimo può già servirsene senza peccato, ma egli per sua malizia se ne abusa a peccare, come sarebbe il prender danaro a mutuo da alcuno che non vuol darlo senza usura: porgere il vino a chi se ne serve per ubbriacarsi: dar le chiavi a chi le adopera per rubare. Or queste cooperazioni materiali possono esser lecite quando vi concorrono tre condizioni: 1. che l’atto della tua cooperazione (come già si è detto) sia per sé indifferente. 2. Che tu non sii tenuto per officio ad impedire l’altrui peccato. 3. Che tu abbi causa giusta e proporzionata di poter così cooperare; poiché allora il peccato del prossimo non proviene dalla tua cooperazione, ma dalla malizia di colui il quale si serve della tua azione per peccare. Sicché allora non è che la tua azione si congiunga alla mala volontà del prossimo, ma quegli congiunge la sua mala volontà alla tua azione, ond’è, che la tua azione non è causa del di lui peccato, ma è solamente occasione la quale tu non sei obbligato a togliere quando hai giusta causa di porla; e così è lecito all’oste dare il vino a chi vuole ubbriacarsi, semprecché altrimenti temesse grave danno, Sanch., Busem., Bon., Tourn. ed altri comunemente. Si è detto causa giusta e proporzionata, perché quanto più è vicina la tua cooperazione al peccato del prossimo, tanto più grave ha da essere la causa che ti scusi. Per giudicare poi quando la causa sia o no proporzionata, per primo bisogna regolarsi da ciò che ne dicono i dd., perché dipendendo ciò dall’estimazione de’ prudenti, l’esser in tal materia una sentenza più comune , fa ancora che sia più probabile, come diremo ancora parlando della materia grave del furto al cap. X. n. 22. In oltre trattandosi di pregiudizio del prossimo, bisogna aver la regola che noi non possiamo cooperare al danno altrui, se non quando il danno che temiamo de’ beni nostri, è d’ordine superiore: per esempio, quando alcuno ti minaccia la morte se tu non vuoi cooperare alla morte del di lui nemico con dargli v. gr. la spada, tu non puoi dargliela perché non puoi positivamente concorrere alla morte di un altro per liberare te dalla morte. Così ancora quando il ladro minaccia di toglier la roba tua se non cooperi a fargli prendere la roba altrui, tu neppure puoi in ciò cooperare. Altrimenti poi sarebbe, se non cooperando tu a fargli prendere quella roba avessi tu a perdere la vita o la fama; perché allora stando tu in estrema necessità, è obbligato il prossimo a permetterti quella cooperazione circa la perdita delle sue robe, acciò tu non perda la vita o la fama».

6) De praeceptocaritatis, De praeceptiscaritatis erga proximum,V,III, 59: «Resp. cooperari tantum materialiter, subministrando tantum materiam et facultatempeccandi, velexhibendoobjectum, licet. si sequentesconditionesadsint: I. Si tuum opus velcooperatiositsecundum se bona velsaltemindifferens; II. Si bona intentione et rationabili ex causa fiat, et non ut juvesalterum peccare; III. Si alteriuuspeccatum impedire nequeas, aut saltem non tenearisproptercausamrationabilem».

7) https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_20081208_dignitas-personae_it.html

8) http://www.academyforlife.va/content/pav/it/the-academy/activity-academy/note-vaccini.html

9) Tale concetto non è estraneo alla teoria generale del diritto penale, laddove il prodotto, il profitto o il prezzo del reato vengono sussunti nell’ambito dell’illecito mediante la previsione di una specifica aggravante. Recita infatti l’art. 61, c. 1 n. 2 del Codice Penale: «Aggravano il reato […]le circostanze seguenti: […] 2) l’aver commesso il reato […]per conseguire o assicurare a sé o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero l’impunità di un altro reato».

10) https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_20201221_nota-vaccini-anticovid_it.html (i corsivi sono dell’originale): «1. Come afferma l’Istruzione Dignitas Personae, nei casi di utilizzazione di cellule procedenti da feti abortiti per creare linee cellulari da usare nella ricerca scientifica, «esistono responsabilità differenziate» di cooperazione al male. Per esempio, «nelle imprese, che utilizzano linee cellulari di origine illecita, non è identica la responsabilità di coloro che decidono l’orientamento della produzione rispetto a coloro che non hanno alcun potere di decisione».2. In questo senso, quando non sono disponibili vaccini contro il Covid-19 eticamente ineccepibili (ad esempio in Paesi dove non vengono messi a disposizione dei medici e dei pazienti vaccini senza problemi etici, o in cui la loro distribuzione è più difficile a causa di particolari condizioni di conservazione e trasporto, o quando si distribuiscono vari tipi di vaccino nello stesso Paese ma, da parte delle autorità sanitarie, non si permette ai cittadini la scelta del vaccino da farsi inoculare) è moralmente accettabile utilizzare i vaccini anti-Covid-19 che hanno usato linee cellulari provenienti da feti abortiti nel loro processo di ricerca e produzione. 3. La ragione fondamentale per considerare moralmente lecito l’uso di questi vaccini è che il tipo di cooperazione al male (cooperazione materiale passiva) dell’aborto procurato da cui provengono le medesime linee cellulari, da parte di chi utilizza i vaccini che ne derivano, è remota. Il dovere morale di evitare tale cooperazione materiale passiva non è vincolante se vi è un grave pericolo, come la diffusione, altrimenti incontenibile, di un agente patogeno grave: in questo caso, la diffusione pandemica del virus SARS-CoV-2 che causa il Covid-19. È perciò da ritenere che in tale caso si possano usare tutte le vaccinazioni riconosciute come clinicamente sicure ed efficaci con coscienza certa che il ricorso a tali vaccini non significhi una cooperazione formale all’aborto dal quale derivano le cellule con cui i vaccini sono stati prodotti. È da sottolineare tuttavia che l’utilizzo moralmente lecito di questi tipi di vaccini, per le particolari condizioni che lo rendono tale, non può costituire in sé una legittimazione, anche indiretta, della pratica dell’aborto, e presuppone la contrarietà a questa pratica da parte di coloro che vi fanno ricorso.4. Infatti, l’uso lecito di tali vaccini non comporta e non deve comportare in alcun modo un’approvazione morale dell’utilizzo di linee cellulari procedenti da feti abortiti. Si chiede, quindi, sia alle aziende farmaceutiche che alle agenzie sanitarie governative, di produrre, approvare, distribuire e offrire vaccini eticamente accettabili che non creino problemi di coscienza, né a gli operatori sanitari, né ai vaccinandi stessi.5. Nello stesso tempo, appare evidente alla ragione pratica che la vaccinazione non è, di norma, un obbligo morale e che, perciò, deve essere volontaria. In ogni caso, dal punto di vista etico, la moralità della vaccinazione dipende non soltanto dal dovere di tutela della propria salute, ma anche da quello del perseguimento del bene comune. Bene che, in assenza di altri mezzi per arrestare o anche solo per prevenire l’epidemia, può raccomandare la vaccinazione, specialmente a tutela dei più deboli ed esposti. Coloro che, comunque, per motivi di coscienza, rifiutano i vaccini prodotti con linee cellulari procedenti da feti abortiti, devono adoperarsi per evitare, con altri mezzi profilattici e comportamenti idonei, di divenire veicoli di trasmissione dell’agente infettivo. In modo particolare, essi devono evitare ogni rischio per la salute di coloro che non possono essere vaccinati per motivi clinici, o di altra natura, e che sono le persone più vulnerabili.6. Infine, vi è anche un imperativo morale, per l’industria farmaceutica, per i governi e le organizzazioni internazionali, di garantire che i vaccini, efficaci e sicuri dal punto di vista sanitario, nonché eticamente accettabili, siano accessibili anche ai Paesi più poveri ed in modo non oneroso per loro. La mancanza di accesso ai vaccini, altrimenti, diverrebbe un altro motivo di discriminazione e di ingiustizia che condanna i Paesi poveri a continuare a vivere nell’indigenza sanitaria, economica e sociale».

11) Stato di necessità che nel 2005 era legato alla epidemia di rosolia,  che in quel momento concretizzava lo stato di costrizione della volontà dell’utilizzatore, e che gli estensori del documento hanno certamente tenuto presente.

12)  Per l’intervento di Athanasius Schneider:  https://www.lifesitenews.com/news/catholic-bishop-calls-for-new-pro-life-movement-to-protest-abortion-tainted-medicines-like-covid-vaccine

13) M.C. Kaveny, «Appropriation of Evil: Cooperation’s Mirror», Theological Studies 61 (2000) 280-313.Vedi anche S. Kampowski, https://veritasamoris.org/files/KAMPOWSKI-Cooperazioneappropriazioneevaccini2021028a.pdf

14) Cfr. art. 41 C.P.: concorso di cause indipendenti.

 

 

Bibliografia

 

Testi citati in nota nel presente contributo:

 

 

altri testi: 

 

 

 

 

 

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Bioetica

Morte cerebrale, trapianti, predazione degli organi, eutanasia: dai criteri di Harvard alla nostra carta d’identità

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Renovatio 21 pubblica la relazione del nostro collaboratore Alfredo De Matteo alla Conferenza «Il Dramma dell’eutanasia» organizzata da Federvita Piemonte a Torino lo scorso 11 ottobre.

 

Il tema che mi è stato assegnato è molto vasto e pieno di implicazioni mediche, giuridiche, etiche e filosofiche ed è pertanto molto difficile condensarlo nel tempo previsto per un singolo intervento. Mi perdonerete se tratterò questioni complesse in maniera non esaustiva, ma spero comunque che la mia esposizione risulti chiara, soprattutto nelle sue conclusioni.

 

Prima di affrontare lo spinoso tema della morte cerebrale e dell’espianto di organi vitali credo sia opportuno definire il concetto di «morte». Tradizionalmente, essa viene identificata con la cessazione di tutte le funzioni vitali di un organismo, che sono essenzialmente riconducibili a tre: sistema nervoso, respiratorio e circolatorio, ossia la cosiddetta tripode vitale. Tuttavia, la morte non è un evento che può essere osservato nel momento in cui si verifica ma solamente a posteriori, ossia dopo che essa è già avvenuta.

 

In altre parole, per avere la certezza dell’avvenuto decesso di un essere umano è necessario che vengano riscontrati sul cadavere i segni inequivocabili della morte, ossia l’inizio del processo di decomposizione del corpo: l’algor mortis (il raffreddamento del corpo), il rigor mortis (la rigidità cadaverica) e il livor mortis (il ristagno e la coagulazione del sangue). Tali segni rappresentano il punto di non ritorno alla vita.

 

La morte infatti è un evento complesso poiché l’uomo, in virtù dell’unione sostanziale con un’anima spirituale, non è un semplice agglomerato di organi, tessuti e funzioni né il suo principio vitale può essere ridotto alla funzionalità dei suoi organi o di un singolo organo. È possibile ritenere certamente viva una persona cosciente e certamente morto un corpo putrefatto o allo stato iniziale della putrefazione. La morte, intesa come il distacco dell’anima dal corpo, è collocabile nello spazio temporale compreso tra questi due stati. Un terzo stato dell’essere tra la vita e la morte, semplicemente, non esiste.

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La civiltà occidentale nel corso dei secoli ha uniformato il suo diritto e la sua morale alla tradizione filosofica secondo cui l’essere umano è composto, appunto, di anima e corpo e ha nell’anima razionale il principio vitale che lo caratterizza. È bene ribadire che questo principio vitale di natura spirituale, pur essendo nel corpo, non si trova nel cuore, nel cervello né in qualsiasi altro organo, tessuto o funzione.

 

Ciò che sostanzia l’uomo non è dunque l’intelletto, né l’autocoscienza e neppure l’interazione sociale, come ci vogliono far credere, bensì l’anima razionale che contiene in potenza l’uso di tutte queste funzioni. La vita umana inizia con l’infusione dell’anima nel corpo e termina con la separazione da esso, nel momento in cui l’organismo si dissolve nei suoi elementi.

 

I casi di morte apparente, ossia di ritorno alla vita dopo diverse ore in cui sono scomparse tutte le manifestazioni vitali, stanno a dimostrare che fra il momento della morte accertata e quella reale esiste sempre e comunque un periodo più o meno esteso di vita latente.

 

A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, l’avvento delle moderne tecniche di rianimazione ha permesso di salvare la vita di un gran numero di persone destinate a morte certa. In particolare, la ventilazione artificiale ha consentito di supportare la respirazione di tutti quei pazienti che sono parzialmente o totalmente incapaci di respirare spontaneamente.

 

Tuttavia, la diffusione in ambito ospedaliero di queste nuove procedure rianimatorie ha sollevato la questione di cosa fare con tutte quelle persone che sopravvivono grazie ad esse ma che non mostrano, almeno apparentemente, alcun segno di attività cerebrale e la cui prognosi risulta infausta. Parallelamente, proprio in quegli anni, alcuni chirurghi cominciarono a sperimentare la tecnica dei trapianti di organi.

 

Figura di spicco in questo ambito fu l’ambizioso chirurgo sudafricano Christiaan Barnard, il quale nel 1959 riuscì a portare a termine il primo trapianto di rene in Sudafrica dopo che esso era già stato effettuato con successo negli Stati Uniti nel 1953. Barnard sperimentò per anni, in gran segreto, il trapianto di cuore sugli animali, cercando di affinare la tecnica.

 

Il primo trapianto di cuore al mondo venne effettuato il 3 dicembre 1967: il cuore di Denise Darvall, una giovane donna caduta in coma considerato irreversibile, venne impiantato nel corpo di un atleta lituano affetto da una grave patologia cardiaca e prese a funzionare regolarmente. Il ricevente l’organo morì dopo soli 18 giorni a causa di una grave polmonite, ma la notizia fece comunque il giro del mondo e Barnard divenne una stella di fama internazionale. A questo punto però, c’era da risolvere il problema legale legato ai trapianti di organi vitali. Infatti, i chirurghi e le équipe mediche che effettuavano tali interventi correvano il rischio di venire incriminati per omicidio in quanto gli organi venivano prelevati a cuore battente e dunque da soggetti ancora in vita.

 

A tale scopo la comunità scientifica internazionale convocò, nel 1968, una commissione ad hoc, la famosa commissione di Harvard, composta da un certo numero di professionisti di diversa estrazione (tra costoro figurava anche uno storico), che venne incaricata di redigere un nuovo criterio di morte, basato sulla cessazione di tutte le funzioni encefaliche. La commissione stabilì, nell’agosto di quell’anno, che potevano essere dichiarate decedute non solamente le persone che non presentavano più alcun segno vitale ma anche quelle le cui sole funzioni cerebrali risultavano irrimediabilmente e irreversibilmente compromesse.

 

In pratica, l’escamotage utilizzato della comunità scientifica internazionale fu quello di dichiarare morte le persone ancora vive.

 

La commissione non presentò, di fatto, alcun argomento decisivo a supporto della nuova definizione di morte (del resto come avrebbe potuto?). Furono gli stessi membri del comitato di Harvard ad ammetterlo attraverso le seguenti dichiarazioni: «il peso è più grande per i pazienti che soffrono della perdita permanente dell’intelletto, per le loro famiglie, per gli ospedali, e per quanti hanno bisogno di posti letto già occupati da altri pazienti comatosi (…) Criteri obsoleti per la definizione di morte possono portare a controversie nell’ottenere organi per il trapianto».

 

Dunque, l’introduzione del criterio della morte cerebrale o encefalica non fu il risultato di una riflessione teorica e filosofica sulla morte, ma piuttosto della volontà di risolvere due esigenze di natura pratica: contenere il numero dei pazienti bisognosi di cure adeguate a lungo termine e legittimare l’espianto degli organi vitali. 

 

Passiamo ora ad analizzare le principali criticità di un costrutto artificiale che, è bene ricordare, non è mai stato validato da un punto di vista scientifico ma che anzi si pone sfacciatamente contro l’evidenza dei fatti.

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Innanzitutto, esso si basa sulla tesi secondo cui il principio vitale dell’uomo risiede nel cervello. Sulla base di tale assunto, questo meraviglioso e complesso organo rappresenterebbe, per così dire, la centralina che regola il funzionamento dell’organismo umano. Un cervello le cui funzioni sono totalmente e irrimediabilmente compromesse decreterebbe la fine dell’essere umano come un insieme integrato. In quest’ottica, i segni vitali ancora presenti nell’individuo dichiarato cerebralmente morto costituirebbero dei meri riflessi e/o funzioni mantenute in maniera artificiale mediante il supporto farmacologico o l’ausilio di macchinari. 

 

Tuttavia, non si capisce come possa un organismo completamente disgregato, un ammasso di organi senza più alcun coordinamento centrale, mantenere inalterate praticamente tutte le funzioni di base. Ad esempio, sia il sistema metabolico che quello immunitario dei pazienti dichiarati cerebralmente morti risultano perfettamente funzionanti. Il presunto cadavere conserva responsività agli stimoli e può anche mostrare dei movimenti spontanei come il cosiddetto fenomeno di Lazzaro, durante il quale egli compie dei movimenti anche ben coordinati che lasciano supporre il coinvolgimento del cervelletto e delle aree superiori dell’encefalo. Inoltre, vengono spesso rilevate nel soggetto in morte cerebrale delle risposte che di norma sono mediate dal tronco encefalico, come l’aumento della frequenza del battito cardiaco e della pressione sanguigna sia all’inizio che nel corso dell’intervento per la rimozione degli organi.

 

La presenza di movimenti spontanei nella persona che viene sottoposta all’espianto è tale che durante l’operazione è sempre necessario paralizzarla e in alcuni casi si provvede a sedarla. A ben vedere, il soggetto è anche in grado di respirare visto che ciò che ha smesso di funzionare, almeno temporaneamente, sono solamente i centri respiratori ma non la sua capacità di metabolizzare l’ossigeno.

 

Addirittura, le donne incinte possono portare a termine la gravidanza. Recentemente, si è verificato il caso di una donna di Atlanta incinta di due mesi, dichiarata cerebralmente morta a seguito di un malore, e «costretta» a vivere (può continuare a vivere una persona dichiarata morta?) per quattro mesi perché la legge vigente in Georgia vieta l’aborto in presenza di battito cardiaco del feto. La gravidanza non è uno stato che richiede necessariamente un alto livello di integrazione corporea? E ancora: è logico anche solo ipotizzare che un morto sia in grado di custodire e generare la vita?

 

Ma c’è un’ulteriore difficoltà nel considerare il cervello come sede dell’essere: visto che esso è l’organo che nello sviluppo fetale si forma più tardi (intorno al terzo mese della gravidanza), come è possibile ritenere imprescindibile alla vita il funzionamento dell’encefalo? In sostanza, nella nuova definizione di morte commissionata agli «esperti» di Harvard, al cervello viene arbitrariamente attribuito il ruolo che compete invece all’anima razionale, ossia dirigere e governare tutti gli organi e le funzioni che compongono l’organismo umano. 

 

Con l’introduzione del rivoluzionario criterio della morte cerebrale, il cogito ergo sum di cartesiana memoria entra prepotentemente nel diritto e nella prassi medica, finendo per relegare l’essere umano nell’angusto ambito dell’autocoscienza. Di conseguenza, a prescindere dalla condizione clinica e dallo stato di coscienza in cui si viene a trovare un determinato soggetto, il suo diritto alla vita è subordinato alla «qualità» della sua esistenza, che si fonda essenzialmente sulle sue capacità intellettive. I casi relativamente recenti di Vincent Lambert in Francia, di Charlie Gard e Alfie Evans in Inghilterra, di Eluana Englaro in Italia, stanno a dimostrare che una volta ridefinito il criterio di accertamento della morte si è passati consequenzialmente a ridefinire il significato stesso di essere umano, attraverso l’arbitraria distinzione tra vite degne e indegne di essere vissute. 

 

Ma c’è un secondo grosso nodo da sciogliere nella nuova definizione di morte. Come si fa a stabilire con assoluta certezza che il cervello ha definitivamente smesso di funzionare? Allo stato attuale delle conoscenze, siamo in grado di accertare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che tutte le funzioni cerebrali di un paziente clinicamente morto siano irreversibilmente compromesse?

 

Nel 2017 la rivista Current Biology ha reso noto un esperimento scientifico condotto dalla neuroscienziata Angela Sirigu, la quale è riuscita a recuperare la coscienza di un paziente in stato vegetativo attraverso una serie protratta nel tempo di elettrostimolazioni del nervo vago. La particolarità dell’esperimento effettuato dalla ricercatrice italiana è dovuta al fatto che il paziente non aveva più alcun contatto con il mondo esterno da ben 15 anni e la sua condizione era considerata irreversibile.

 

Anche secondo la neurologa Silvia Marino, la quale è riuscita attraverso la somministrazione di stimoli di vario genere a far passare un certo numero di pazienti dallo stato cosiddetto vegetativo a quello di minima coscienza, il termine irreversibile applicato ai disturbi della coscienza non è più utilizzabile. Dunque?

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In ogni caso, anche qualora si riuscisse a provare l’assenza di qualsiasi funzione cerebrale, è comunque privo di fondamento, come abbiamo visto, ritenere che la morte dell’encefalo sia un indicatore della morte di tutto l’organismo. Pensate, che anni fa si verificò il caso di un bambino entrato in stato di morte cerebrale all’età di quattro anni e morto, senza aver mai ripreso a respirare autonomamente, quando ne aveva ventitré!

 

Sulla base di questo e di altri casi simili è veramente difficile continuare a sostenere la tesi che un cervello funzionante sia la condizione necessaria per la vita di un essere umano. Tra l’altro, la stessa comunità scientifica è divisa su quali aree del cervello è necessario prendere in considerazione per decretare la morte cerebrale di un individuo.

 

Nel celebre documento di Harvard, la morte viene definita come la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo (morte cerebrale totale), ma dato che i criteri clinico-strumentali adoperati per accertarla non sono in grado di rilevare effettivamente la cessazione irreversibile di tutte le funzioni encefaliche, un neurologo inglese arrivò alla conclusione che fosse sufficiente accertare la distruzione del solo tronco encefalico (tesi anch’essa priva di fondamento scientifico).

 

Il risultato è che in alcuni paesi, tra cui l’Italia, è obbligatorio effettuare l’EEG, un esame diagnostico che misura e registra l’attività elettrica cerebrale, mentre in altri, come l’Inghilterra, esso non è ritenuto necessario. In effetti, oltre al fatto che un tracciato elettroencefalografico può essere normale anche se piatto (ad esempio, adulti ansiosi o neonati possono presentare un tracciato piatto non patologico), le modalità di registrazione elettroencefalografica non garantiscono risultati certi, dal momento che essi possono essere influenzati da diversi fattori, tra cui l’effetto tampone provocato da importanti addensamenti di sangue all’interno del cranio.

 

Non solo, il limite dei 2 microvolts di attività elettrica cerebrale sotto cui non ci sarebbe la vita costituisce una soglia convenzionale valida solo ai fini legali, visto che essa non corrisponde ad un ipotetico zero strumentale e visto che i risultati dell’esame elettroencefalografico dipendono anche dalle cangianti tarature degli apparecchi e dall’impossibilità tecnica di amplificare segnali elettrici più bassi. 

Un capitolo a parte è rappresentato dalle procedure atte a stabilire la morte cerebrale. Innanzitutto, è possibile constatare come la morte da evento naturale, oggettivo ed osservabile sia stata di fatto trasformata in un evento artificiale, niente affatto oggettivo né tantomeno osservabile, ma riscontrabile unicamente attraverso la tecnica medica.

 

In altri termini, la morte viene tolta allo sguardo dell’uomo e confinata nei reparti di rianimazione degli ospedali. Ciascuno di noi, in un modo o nell’altro, ha fatto l’esperienza della morte e ciascuno di noi è capace di riconoscerla, indipendentemente dal livello di istruzione o dalle conoscenze nel campo della medicina.

 

Un corpo freddo, bianco e rigido è certamente quello di un cadavere, mentre un corpo caldo, colorito e con un cuore che pulsa è certamente quello di una persona viva. Ebbene, con l’introduzione del nuovo criterio l’accertamento della morte diventa una questione riservata esclusivamente agli addetti ai lavori.

 

Anzi, a ben vedere nemmeno i medici sono in grado di stabilire se un uomo è deceduto oppure no (ai sanitari spetta solo il compito di applicare pedissequamente i protocolli); a certificarlo sono unicamente dei test clinici effettuati con specifici macchinari.

 

Ma quali sono questi test? In cosa consistono?

 

Innanzitutto, la prima cosa da rilevare è che essi non sono gli stessi in tutti i paesi del mondo oppure vengono applicati in maniera differente. Ad esempio, il tempo di osservazione della morte, il cosiddetto silenzio cerebrale, varia da paese a paese e va da un minimo di due ore di osservazione ad un massimo di sei ore.

 

Abbiamo già visto come in alcuni paesi l’elettroencefalogramma è obbligatorio ai fini della dichiarazione di morte mentre in altri non lo è. Per quanto riguarda la cosiddetta morte cardiaca (di cui parleremo meglio più avanti) il tempo di arresto necessario affinché si possa decretare la morte del cervello per mancanza di ossigeno è di 20 minuti in Italia, mentre è di soli 5 minuti in Spagna e in altri paesi.

 

È dunque possibile affermare senza timore di smentita che, in linea teorica, lo stesso paziente può essere dichiarato morto in Inghilterra o in Spagna e vivo in Italia (alla faccia dell’oggettività della morte cerebrale).

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Vale la pena soffermarsi su una procedura in particolare: il famigerato test di apnea, l’ultimo esame diagnostico che viene effettuato al termine dell’esplorazione dei riflessi del tronco encefalico, quando questi risultano assenti.

 

L’obiettivo del test è dimostrare la perdita della funzione del centro del respiro situato a livello bulbare attraverso l’accumulo di CO₂. In pratica, il paziente viene disconnesso dal respiratore e, una volta raggiunto un certo valore soglia di CO₂ nel sangue, se non si attiva la respirazione spontanea viene dichiarata la morte encefalica.

 

Per la legge italiana questo «esame» deve essere effettuato per ben due volte, all’inizio e al termine del periodo di osservazione.

 

Le linee guida per l’esecuzione del test di apnea raccomandano di sostituirlo con il test di flusso cerebrale qualora, nonostante le opportune precauzioni, la procedura causi la comparsa di gravi complicanze tali da compromettere seriamente le funzioni biologiche del paziente (quindi il fatto che sia potenzialmente letale è scritto nero su bianco) 

 

Pertanto, l’attivazione di una simile procedura in un paziente con estremo bisogno di cure non è esattamente un toccasana per la sua salute. Spesso, infatti, il test di apnea non fa che peggiorare il quadro clinico del paziente, riducendo se non addirittura azzerando le sue possibilità di recupero.

 

È un po’ come se una persona caduta in una piscina venisse salvata dalla morte per annegamento attraverso le tecniche di rianimazione cardiopolmonare, per poi essere gettata di nuovo nella piscina al fine di verificare la sua capacità di riemergere dall’acqua per riuscire a respirare…

 

Non rappresenta, domandiamo, una chiara violazione dei diritti del malato sottoporre il comatoso a dei test potenzialmente letali quando egli, fino a prova contraria, è ancora in vita?

 

Non solo: quando il paziente viene sottoposto ai test di accertamento deve essere libero dai farmaci che possono influenzare lo stato di coscienza o deprimere la respirazione. In altri termini, al paziente vengono sospese le cure.

 

C’è da sottolineare poi un fatto: di norma, le procedure di accertamento della morte encefalica vengono attivate molto in fretta, ossia poco tempo dopo il ricovero in ospedale; parliamo di pochi giorni o addirittura poche ore.

 

Allora ci si domanda: perché tutta questa fretta nell’avviare i protocolli e attivare una serie di procedure che non sono a rischio zero per i pazienti, ma che possono causare loro ulteriori danni?

 

C’è il fondato sospetto che questa immotivata celerità nel dichiarare la morte cerebrale risponda all’esigenza di evitare che la vittima possa dare segni di ripresa – ovvero che esca dal coma – rendendo vani gli sforzi delle strutture sanitarie nel reperire organi freschi da trapianto.

 

È noto come i centri autorizzati ad effettuare i trapianti sparsi nel territorio abbiano dei budget di produzione da rispettare e come il raggiungimento di questi obiettivi sia necessario all’acquisizione di rilevanti finanziamenti pubblici e privati. Del resto, i direttori generali delle unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere sono dei veri e propri manager d’azienda.

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A questo punto è quanto mai opportuno porsi la seguente domanda: per la legge, siamo tutti potenziali donatori di organi?

 

Dunque, la normativa italiana ha stabilito il principio del consenso o dissenso esplicito, sulla base di cui ad ogni persona maggiorenne viene data la possibilità di dichiarare validamente la propria volontà in merito alla cosiddetta donazione degli organi.

 

Nello specifico, la legge 91/99 agli articoli 4 e 5 ha istituito il principio del silenzio-assenso, in base a cui la mancata dichiarazione di volontà viene considerata come consenso alla donazione. Tuttavia, tale enunciato non può essere applicato, in quanto – come previsto dalla legge stessa – non è stata ancora costituita un’anagrafe informatizzata che consenta la notifica ad ogni cittadino, da parte di un Pubblico Ufficiale, di un modulo per la dichiarazione di volontà.

 

Per cui, allo stato attuale, le principali modalità con cui è possibile esprimersi in un senso o nell’altro sono le seguenti:

 

  • presso gli uffici comunali, firmando un apposito modulo predisposto al momento del rilascio o del rinnovo della carta d’identità;
  • presso gli sportelli delle Aziende sanitarie locali;
  • attraverso una dichiarazione in carta libera completa di tutti i dati personali, datata e firmata.

 

Le dichiarazioni di volontà sono considerate valide ai sensi di legge e sono registrate all’interno del Sistema Informativo Trapianti.

 

Nel caso in cui si scelga di non esprimersi secondo le modalità previste, il consenso viene chiesto ai parenti più stretti o agli aventi diritto. Pertanto, l’espianto può essere effettuato solo in presenza di un esplicito consenso.

 

È dunque sufficiente opporsi al trapianto per sfuggire alla trappola della morte cerebrale? Purtroppo no. Anche in caso di mancato assenso alla donazione, la legge impone il distacco dai supporti vitali del soggetto dichiarato cerebralmente morto, il quale viene così lasciato morire per mancanza di cure (del resto se il paziente è dichiarato deceduto deve essere necessariamente trattato alla stregua di un cadavere, quantomeno per coerenza).

 

Comunque, malgrado la massiccia propaganda massmediatica messa in atto dalle istituzioni – che tende a far leva sui sentimenti e sull’emotività per tentare di convincere più cittadini possibili a diventare donatori di organi (la cosiddetta «cultura del dono») – la percentuale di opposizioni ai trapianti si attesta, almeno nel nostro paese, intorno al 40% (una percentuale decisamente alta).

 

È anche per tale motivo che la macchina delle predazioni è sempre alla ricerca di nuove tecniche per reperire organi. Una di queste è la cosiddetta donazione a cuore fermo (donation after cardiac death o DCD), che mette in evidenza lo stretto legame tra la predazione degli organi e l’eutanasia.

 

Schematicamente, esistono due tipi di donatori a cuore fermo: controllati e non controllati.

 

La DCD non controllata concerne tutti i pazienti nei quali la morte per arresto cardiaco avviene in modo improvviso, solitamente fuori dall’ospedale o in pronto soccorso. In tali situazioni non è possibile controllare l’evento acuto che determina la morte e non è possibile studiare clinicamente il paziente come potenziale donatore, per cui a differenza degli altri organi il cuore non può essere prelevato.

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Diverso è il caso della DCD controllata, in cui l’arresto cardiaco è atteso, ossia previsto. Essa fa seguito alla sospensione dei trattamenti intensivi a motivo della loro supposta mancanza di proporzionalità. In altre parole, il malato viene staccato dai supporti vitali, in particolare dal supporto ventilatorio, in una circostanza prevista e medicalmente controllata.

 

In questo caso il cuore è sano e può essere prelevato dopo i venti minuti di assenza di battito e di circolo, come prescritto dalla legge italiana. Il muscolo cardiaco, già prima del prelievo e del trapianto, viene accuratamente valutato e spesso collegato ad un sistema di circolazione artificiale che permette di verificarne la funzionalità in vista del trapianto.

 

In pratica, si tratta di pazienti terminali che non soddisfano i criteri della morte encefalica e che hanno in qualche modo manifestato la loro volontà di sospendere i sostegni vitali, oppure che siano stati i familiari (si discute tanto in Italia di questi tempi di rischio eutanasico ma come possiamo constatare l’eliminazione programmata del malato terminale già viene fatta e sotto l’egida della legge).

 

In un articolo pubblicato sul New York Times il 20 luglio scorso sono stati riportati diversi casi di pazienti la cui morte è stata programmata in anticipo affinché potessero diventare donatori di organi.

 

C’è da considerare che il periodo di mancanza di battito cardiaco considerato necessario affinché l’ipossia danneggi irreversibilmente il tessuto cerebrale varia, in America, dai due ai cinque minuti, quando l’esperienza clinica dimostra che il cuore può riprendere a battere anche diverso tempo dopo.

 

In un caso descritto dal New York Times, una donna sottoposta alla DCD controllata ha cominciato ad ansimare in cerca d’aria mentre i chirurghi le segavano lo sterno e il suo cuore ha ripreso a battere. A quel punto l’operazione è stata annullata e dodici minuti dopo la sfortunata signora è stata dichiarata morta per la seconda volta.

 

Ora, è necessario comprendere che il problema non è solamente legato alla rigorosità delle procedure di accertamento o al fatto che ci sono casi come quelli descritti negli USA in cui le diagnosi di morte risultano, per così dire, «affrettate».

 

Il problema vero è la definizione stessa di morte cerebrale e la concezione filosofica dell’essere umano che c’è dietro.

 

E visto che non c’è, né ci potrà mai essere, un protocollo universalmente valido con cui si possa accertare ciò che semplicemente non esiste in natura, le scorciatoie procedurali per rendere più facile l’approvvigionamento degli organi sono inevitabili e tenderanno sempre più ad essere utilizzate in ambito ospedaliero.

 

A dimostrazione di quanto sia presente tale deriva, sempre il New York Times ha pubblicato un editoriale dal titolo: «Donor Organs Are Too Rare. We Need a New Definition of Death» («Gli organi donati sono troppo rari. Abbiamo bisogno di una nuova definizione di morte»), in cui alcuni cardiologi di fama mondiale sembrano lanciare un appello affinché la comunità scientifica elabori una nuova definizione di morte. Di seguito un breve estratto:

 

«Una persona può diventare donatrice di organi solo dopo essere stata dichiarata morta (…) La morte cerebrale è tuttavia rara (…) La soluzione, a nostro avviso, è ampliare la definizione di morte cerebrale per includere i pazienti in coma irreversibile sottoposti a supporto vitale».

 

«Le funzioni cerebrali più importanti per la vita sono la coscienza, la memoria, l’intenzione e il desiderio» – continuano i cardiologi intervistati – «Una volta che queste funzioni cerebrali superiori sono irreversibilmente perdute, non è forse corretto affermare che una persona (in contrapposizione a un corpo) ha cessato di esistere?»

 

È dunque evidente come la nuova definizione di morte sdoganata dai cosiddetti esperti di Harvard contenga al suo interno tutte le premesse per un suo superamento.

 

Infatti, privata del fine soprannaturale, l’esistenza umana perde il suo valore intrinseco e finisce per acquisire significato solamente in relazione a quanto essa può essere utile a qualcun altro.

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Non è dunque così improbabile che si arrivi a rendere obbligatoria la donazione degli organi. La cardiologa Maria Frigerio, ex direttrice del reparto di cardiologia dell’ospedale Niguarda di Milano, in un’intervista pubblicata lo scorso febbraio dal Corriere della Sera preconizza l’obbligatorietà dei trapianti.

 

Secondo la Frigerio, l’elevata percentuale di opposizioni ai trapianti limita pesantemente la possibilità di salvare delle vite ed è «per questo che la donazione potrebbe diventare un obbligo».

 

Per concludere, vorrei accennare ad un aspetto poco conosciuto che riguarda l’aspettativa e la qualità di vita dei trapiantati.

 

L’uso continuo e a vita dei farmaci immunosoppressori, necessari a sopprimere la risposta del sistema immunitario verso l’organo trapiantato, riduce la capacità del sistema immunitario stesso di combattere le infezioni e di distruggere le cellule tumorali.

 

Sussiste dunque un rischio molto elevato di contrarre alcuni tipi di cancro, in particolare i tumori della pelle, alcuni dei quali potenzialmente letali.

 

Attraverso una ricerca scientifica è stato scoperto inoltre che i trapiantati hanno un rischio particolarmente elevato di sviluppare melanomi che hanno già raggiunto uno stadio avanzato al momento della diagnosi.

 

Sempre a causa dei farmaci immunosoppressori, le persone che hanno ricevuto un trapianto di fegato, cuore o polmone hanno il 64% in più di probabilità, rispetto alla popolazione generale, di sviluppare patologie cardiovascolari.

 

Un altro aspetto che rende più probabile l’incidenza di tali malattie è l’obesità: ben il 50% dei trapiantati subisce un aumento di peso che oscilla tra il 10% e il 35% del loro peso corporeo.

 

Questo breve e niente affatto esaustivo elenco di problemi a cui vanno incontro i trapiantati ci fa comprendere meglio come la «medicina» dei trapianti, pur presentandosi come una vittoria della scienza, in realtà trasformi il malato in un paziente cronicizzato, dipendente a vita dai farmaci e costretto a sottoporsi a frequenti screening clinici, quindi inserito in una filiera che alimenta enormi interessi economici.

 

Questo non significa negare la sofferenza di chi è malato e ripone le sue speranze nel ricevere un organo, ma ci invita a guardare più in profondità: quando la vita viene piegata alle logiche di mercato e ridotta a un mezzo, essa perde il suo valore autentico. Ed è proprio qui che si gioca la posta più alta: riconoscere e difendere la dignità dell’uomo, che non è mai un insieme di funzioni biologiche, ma una persona unica, creata a immagine e somiglianza di Dio.

 

Ho concluso, grazie a tutti voi per l’attenzione.

 

Alfredo De Matteo

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Ambiente

Studi sui metodi per testare le sostanze chimiche della pillola abortiva nelle riserve idriche

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I funzionari governativi USA stanno valutando se sia possibile sviluppare metodi per rilevare le sostanze chimiche contenute nella pillola abortiva nelle riserve idriche degli Stati Uniti, in seguito all’iniziativa del gruppo Students for Life. Lo riporta LifeSite.   Quest’estate, i funzionari dell’Agenzia per la Protezione Ambientale americana (EPA) hanno incaricato gli scienziati di determinare se fosse possibile sviluppare metodi per rilevare tracce di pillole abortive nelle acque reflue. Sebbene al momento non esistano metodi approvati dall’EPA, è possibile svilupparne di nuovi, hanno recentemente dichiarato al New York Times due fonti anonime.   La divulgazione fa seguito alla richiesta di 25 membri repubblicani del Congresso USA che hanno chiesto all’EPA di indagare sulla questione.   «Esistono metodi approvati dall’EPA per rilevare il mifepristone e i suoi metaboliti attivi nelle riserve idriche?», chiedevano i deputati in una lettera del 18 giugno. «In caso contrario, quali risorse sono necessarie per sviluppare questi metodi di analisi?»

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I legislatori hanno osservato che il mifepristone è un «potente bloccante del progesterone» che altera l’equilibrio ormonale e potrebbe «potenzialmente interferire con la fertilità di una persona, indipendentemente dal sesso».   Dopo l’annullamento della sentenza Roe v. Wade, Students for Life aveva rilanciato una campagna per indagare sulle tracce di pillole abortive e sui resti fetali nelle acque reflue. Il gruppo ha affermato che il mifepristone e i resti fetali potrebbero potenzialmente danneggiare gli esseri umani, gli animali e l’ambiente.   Nel novembre 2022, i dipendenti di Students for Life si sono lamentati del fatto che le agenzie governative non controllassero le acque reflue per individuare eventuali sostanze chimiche contenute nelle pillole abortive e hanno deciso di assumere i propri «studenti investigatori» per analizzare l’acqua.   La campagna era fallita sotto l’amministrazione Biden. Nella primavera del 2024, undici membri del Congresso, tra cui il senatore Marco Rubio della Florida, attuale Segretario di Stato, scrissero all’EPA chiedendo in che modo il crescente uso di pillole abortive potesse influire sull’approvvigionamento idrico.   Secondo due funzionari, l’EPA ha scoperto di non aver condotto alcuna ricerca precedente sull’argomento, ma non ha avviato alcuna nuova indagine correlata.   Kristan Hawkins, presidente di Students for Life, ha annunciato venerdì: «tre presidenti democratici hanno promosso in modo sconsiderato l’uso della pillola abortiva chimica. Ora l’EPA sta finalmente indagando sull’inquinamento causato dalla pillola abortiva».   «Ogni anno oltre 50 tonnellate di sangue e tessuti contaminati chimicamente finiscono nei nostri corsi d’acqua», ha continuato su X. «Spetta al presidente Trump e al suo team ripulire questo disastro».   A giugno un rapporto pubblicato da Liberty Counsel Action indicava che più di 40 tonnellate di resti di feti abortiti e sottoprodotti della pillola abortiva sono infiltrati nelle riserve idriche americane.   «Come altri farmaci noti per causare effetti avversi sul nostro ecosistema, il mifepristone forma metaboliti attivi», spiega il rapporto di 86 pagine. «Questi metaboliti possono mantenere gli effetti terapeutici del mifepristone anche dopo essere stati escreti dagli esseri umani e contaminati dagli impianti di trattamento delle acque reflue (WWTP), la maggior parte dei quali non è progettata per rimuoverli».  
Non si tratta della prima volta che vengono lanciati gli allarmi sull’inquinamento dei fiumi da parte della pillola abortiva RU486, detta anche «pesticida umano».
Come riportato da Renovatio 21, le acque di tutto il mondo sono inquinate da fortemente dalla pillola anticoncenzionale, un potente steroide usato dalle donne per rendersi sterili, che viene escreto con l’orina con effetto devastante sui fiumi e sulla fauna ittica. In particolare, vi è l’idea che la pillola starebbe facendo diventare i pesci transessuali.   Danni non dissimili sono stati rilevati per gli psicofarmaci, con studi sui pesci di fiume resi «codardi e nervosi».

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Nonostante i ripetuti allarmi sul danno ambientale dalla pillola, le amministrazioni di tutto il mondo – votate, in teoria, all’ecologia e alla Dea Gaia – continuano con programmi devastatori, come quello approvato lo scorso anno a Nuova York di distribuire ai topi della metropoli sostanze anticoncezionali. A ben guardare, non si trova un solo ambientalista a parlare di questa sconvolgente forma di inquinamento, ben più tremenda di quello delle auto a combustibile fossile.   Ad ogni modo, come Renovatio 21 ripeterà sempre, l’inquinamento più spiritualmente e materialmente distruttore è quello dei feti che con l’aborto chimico vengono espulsi nel water e spediti via sciacquone direttamente nelle fogne, dove verranno divorati da topi, pesci, insetti, anfibi e altri animali del sottosuolo.   Su questo non solo non si trovano ambientalisti a protestare: mancano, completamente, anche i cattolici.   Come riportato da Renovatio 21, l’OMS poche settimane fa ha aggiunto la pillola figlicida alla lista dei «medicinali essenziali». Il segretario della Salute USA Robert Kennedy jr. aveva promesso una «revisione completa» del farmaco di morte (gli sarebbe stato chiesto dallo stesso Trump) ma negli scorsi giorni esso è stato approvato dall’ente regolatore FDA.

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Bioetica

Aborto, il governo spagnuolo chiede la lista degli obiettori di coscienza

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La Spagna ha richiesto la creazione di registri per i medici che rifiutano di praticare aborti, suscitando proteste da parte dei professionisti pro-life, che considerano la misura un tentativo di stilare una «lista nera».

 

Il primo ministro Pedro Sánchez ha recentemente scritto ai presidenti delle regioni a guida conservatrice, invitandoli a «istituire un registro degli obiettori di coscienza all’aborto», come riportato da OSV News.

 

Questa iniziativa segue una legge che obbliga tutti gli ospedali pubblici spagnuoli a effettuare aborti, con l’obiettivo di migliorare l’accesso alla procedura nelle aree dove è difficile trovare medici disponibili a praticarla.

 

Ad esempio, nella regione di La Rioja, a lungo governata dai conservatori, la maggior parte dei medici degli ospedali pubblici si è rifiutata di eseguire aborti per obiezione di coscienza. «Il problema era che tutto il personale sanitario si opponeva agli aborti, anche nelle cliniche private», ha dichiarato a Euronews nel 2023 Izaskun Fernández Núñez, presidente del gruppo Donne Progressiste di La Rioja.

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In Castiglia e León, cinque delle nove province «non avevano registrato un solo aborto dal 2010» fino al rapporto del 2023. «Le donne non potevano accedere all’aborto nella loro provincia, nemmeno pagando o rivolgendosi a cliniche private», ha spiegato Nina Infante Castrillo, vicepresidente del Forum femminista di Castiglia e León.

 

Questi dati hanno spinto il governo a imporre l’obbligo di registrazione degli obiettori di coscienza in tutte le comunità autonome, con una scadenza di tre mesi. Sánchez ha avvertito che, in caso di mancata compilazione dei registri, «saranno attivati i meccanismi legali per garantire il rispetto della norma». «Il rispetto della coscienza dei professionisti sanitari non deve mai ostacolare l’assistenza sanitaria delle donne» ha aggiunto.

 

I difensori dell’obiezione di coscienza hanno definito la misura incostituzionale e una «lista nera». «Qualunque cosa dica il primo ministro, l’obiezione di coscienza è un diritto costituzionale. Chi può obbligare i cittadini a registrarsi in un elenco non richiesto nemmeno dalla Corte Costituzionale? Si tratta solo di espedienti», ha dichiarato José Antonio Díez, coordinatore generale dell’Associazione Nazionale per la Difesa del Diritto all’Obiezione di Coscienza (ANDOC), alla testata cattolica Alpha y Omega.

 

«Perché non creare un elenco di medici disposti a praticare aborti ed eutanasia, che sarebbe più pratico? Questi registri di obiettori sono liste nere per escludere professionalmente i medici che esercitano il loro diritto», ha aggiunto Eva Martín, presidente di ANDOC, citata da Alpha y Omega.

 

Secondo i dati del ministero della Salute, in Ispagna i tassi di aborto sono in aumento, avvicinandosi al picco del 2011. Nel 2023 sono stati registrati 103.097 aborti, con un incremento del 4,8% rispetto al 2022 e dell’8,7% rispetto al 2014.

 

L’aborto è legale in Spagna, con alcune restrizioni, dal 1985, e il numero di procedure è più che raddoppiato, passando da 54.000 nel 1998 a 112.000 nel 2007. Nel 2010, il governo socialista di José Luis Rodríguez Zapatero ha ulteriormente liberalizzato la legge, consentendo l’aborto fino alla 14ª settimana di gravidanza, con estensioni fino alla 22ª settimana in caso di rischi per la salute della madre o di «gravi disabilità» del feto.

 

In Italia la situazione non è dissimile, con continui tentativi, compresi quelli dei sindacati lontani oramai anni luce dalla questione dei lavorativi, di limitare o cancellare l’obiezione di coscienza.

 

L’obiezione di coscienza, ritiene Renovatio 21, costituisce un compromesso non accettabile: chi «obietta» lascia tranquillamente che i bambini vengano trucidati dai colleghi nella stanza accanto, e quindi non si capisce esattamente in cosa credano gli «obiettori». Se pensano davvero che l’aborto sia omicidio, come possono vivere e lavorare tranquillamente in quegli spazi? Come possono magari pure andare fuori a pranzo con dei colleghi che hanno appena ammazzato degli esseri umani?

 

Si tratta della grottesca ipocrisia della legge 194/78, difesa oggi anche dai sedicenti «cattolici» perché appunto contiene la foglia di fico dell’obiezione, e più in generale dell’ipocrisia massimamente farisaica, e genocida, della Democrazia Cristiana e della sua opera.

 

Si aggiunga come, in Italia, l’obiezione agisce come una porta girevole carrieristica: il medico e l’infermiere diviene obiettore ad intermittenza, a secondo di chi sia il primario di turno.

 

La vera difesa della vita nascente non passa per la difesa dell’obiezione di coscienza – anzi, passa per la sua rimozione, di modo che quanti saranno costretti a praticare il diabolico feticidio di massa si sveglino e combattano per fermare il vero genocidio in atto.

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Immagine di PES via Flickr pubblicata su licenza CC BY-NC-SA 2.0

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