Economia
Bitcoin, dalla la rivolta in Kazakistan alla messa al bando in Russia
Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews.
I russi vogliono proibire le transazioni con le valute digitali, difficilmente tracciabili dalle autorità. Usate dalle organizzazioni criminali, ma anche da quelle umanitarie per sfuggire ai controlli del Cremlino. In Kazakistan il traffico di criptovalute ha avuto un ruolo nei recenti tumulti.
La Banca centrale di Russia ha proposto di proibire ogni tipo di operazione con le criptovalute, per non diffonderne l’uso nel Paese.
Secondo fonti di Bloomberg, la presidente della Banca Elvira Nabiullina avrebbe preso tale iniziativa sotto le pressioni dell’FSB, il servizio di sicurezza nazionale, soprattutto dopo i recenti eventi in Kazakistan, considerata una nazione molto pericolosa dal punto di vista finanziario.
Le criptovalute al mondo sono molto diffuse e diverse tra loro per volatilità, popolarità e soprattutto per livello di privacy. Spesso i trasferimenti in criptovaluta sono impossibili da tracciare perfino per i servizi speciali dei vari Stati.
L’analista finanziario Vladimir Levčenko commenta al proposito su Currentime.tv che «si sa che le criptovalute si usano anzitutto per il commercio delle armi, della droga e per articoli simili legati alla criminalità organizzata, ma si utilizzano anche in tantissimi altri casi; molte persone vi fanno ricorso per far fruttare i propri risparmi, senza commettere nulla di illegale, come un utile strumento d’investimento».
La presidente della Banca Elvira Nabiullina avrebbe preso tale iniziativa sotto le pressioni dell’FSB, il servizio di sicurezza nazionale, soprattutto dopo i recenti eventi in Kazakistan, considerata una nazione molto pericolosa dal punto di vista finanziario
Sette anni fa la criptovaluta più popolare, il Bitcoin, costava circa 250 dollari l’una, ora è arrivata a circa 40mila, con picchi vicini ai 70mila; l’11% al mondo di queste criptovalute viene realizzato in Russia. Non è chiaro chi siano gli operatori di questo nuovo tipo di mercato finanziario.
Quando la scorsa estate le autorità hanno dichiarato il Fondo anti-corruzione di Naval’nyj «organizzazione estremista», il suo leader Leonid Volkov ha invitato tutti gli aderenti a fare trasferimenti al Fondo proprio in criptovaluta, perché «non è soggetta al controllo delle Banche centrali e dei governi».
Il Fondo di Naval’nyj sopravvive all’estero dopo lo scioglimento in Russia e pubblica le entrate ricevute: a oggi avrebbe incassato 666 bitcoin, ma è assai difficile tradurre questa cifra in dollari, euro o rubli, senza sapere le date dei trasferimenti e delle operazioni, e soprattutto è impossibile conoscere l’identità dei donatori, ciò che fa impazzire i membri dell’FSB.
Questo infatti è lo scopo del cripto-sistema, secondo Volkov: «siccome lo Stato fa pressioni su chi opera bonifici tradizionali del sistema bancario, dobbiamo con pazienza imparare ad usare un sistema più libero».
In generale, stanno cercando di usare le criptovalute tutte le organizzazioni russe inserite nella lista nera degli «agenti stranieri», anche se è impossibile quantificarle. Il problema spesso è che chi opera con questo sistema si sottomette alle regole di chi le propone, senza possibilità di controllo non solo da parte delle autorità competenti, ma anche degli stessi investitori. Il divieto a questo tipo di operazioni, del resto, è assai poco realistico, a meno di chiudere completamente l’accesso a internet.
Le criptovalute sono necessarie al potere non meno che alle opposizioni, per muovere i mezzi finanziari al di là di ogni confine, soprattutto in presenza di sanzioni internazionali.
In Kazakistan il «mining» (validazione di transazioni in criptovalute) è favorito dai bassi costi dell’energia, proprio il fattore che ha provocato gli scontri di piazza per la prevalenza delle logiche di mercato sulla vita dei cittadini, oltre alla tassazione molto «amichevole»
Dopo che la Cina ha bandito le criptovalute lo scorso autunno, il Kazakistan è balzato al secondo posto a livello mondiale in questo campo, e per molti questo è stato un fattore non secondario nelle contese che hanno poi portato anche agli scontri di piazza di Almaty di inizio gennaio. Secondo le ricerche dell’università di Cambridge, il Kazakistan è impegnato nel mercato delle criptovalute per una fetta del 18%; in vetta ci sono gli Usa con il 35,4%.
In Kazakistan il «mining» (validazione di transazioni in criptovalute) è favorito dai bassi costi dell’energia, proprio il fattore che ha provocato gli scontri di piazza per la prevalenza delle logiche di mercato sulla vita dei cittadini, oltre alla tassazione molto «amichevole».
I vantaggi andrebbero tutti alla casta al potere, da cui le rivolte contro il «clan Nazarbaev» (…)
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Economia
La Turchia sospende ogni commercio con Israele
Il governo turco ha sospeso tutti gli scambi con Israele in risposta alla guerra di Gaza, ha dichiarato il Ministero del Commercio di Ankara in una dichiarazione pubblicata giovedì sui social media.
La Turchia è stato uno dei critici più feroci di Israele da quando è scoppiato il conflitto con Hamas in ottobre. La sospensione di tutte le operazioni di esportazione e importazione è stata introdotta in risposta all’«aggressione dello Stato ebraico contro la Palestina in violazione del diritto internazionale e dei diritti umani», si legge nella dichiarazione.
Ankara attuerà rigorosamente le nuove misure finché Israele non consentirà un flusso ininterrotto e sufficiente di aiuti umanitari a Gaza, aggiunge il documento.
Israele è stato accusato dalle Nazioni Unite e dai gruppi per i diritti umani di ostacolare la consegna degli aiuti nell’enclave. I funzionari turchi si coordineranno con l’Autorità Palestinese per garantire che i palestinesi non siano colpiti dalla sospensione del commercio, ha affermato il ministero.
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La sospensione totale fa seguito alle restrizioni imposte il mese scorso da Ankara sulle esportazioni verso Israele di 54 categorie di prodotti tra cui materiali da costruzione, macchinari e vari prodotti chimici. La Turchia aveva precedentemente smesso di inviare a Israele qualsiasi merce che potesse essere utilizzata per scopi militari.
Come riportato da Renovatio 21, il mese scorso il governo turco ha imposto restrizioni alle esportazioni verso Israele per 54 categorie di prodotti.
In risposta alle ultime restrizioni, il ministero degli Esteri israeliano ha accusato la leadership turca di «ignorare gli accordi commerciali internazionali». Giovedì il ministro degli Esteri Israel Katz ha scritto su X che «bloccando i porti per le importazioni e le esportazioni israeliane», il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si stava comportando come un «dittatore». Israele cercherà di «creare alternative» per il commercio con la Turchia, concentrandosi sulla «produzione locale e sulle importazioni da altri Paesi», ha aggiunto il Katz.
.@RTErdogan is breaking agreements by blocking ports for Israeli imports and exports. This is how a dictator behaves, disregarding the interests of the Turkish people and businessmen, and ignoring international trade agreements. I have instructed the Director General of the…
— ישראל כ”ץ Israel Katz (@Israel_katz) May 2, 2024
Come riportato da Renovatio 21 il leader turco ha effettuato in questi mesi molteplici attacchi con «reductio ad Hitlerum» dei vertici israeliani, paragonando più volte il primo ministro Beniamino Netanyahu ad Adolfo Hitler e ha condannato l’operazione militare a Gaza, arrivando a dichiarare che Israele è uno «Stato terrorista» che sta commettendo un «genocidio» a Gaza, apostrofando il Netanyahu come «il macellaio di Gaza».
Il presidente lo scorso novembre aveva accusato lo Stato Ebraico di «crimini di guerra» per poi attaccare l’intero mondo Occidentale (di cui Erdogan sarebbe di fatto parte, essendo la Turchia aderente alla NATO e aspirante alla UE) a Gaza «ha fallito ancora una volta la prova dell’umanità».
Un ulteriore nodo arrivato al pettine di Erdogan è quello relativo alle bombe atomiche dello Stato Ebraico. Parlando ai giornalisti durante il suo volo di ritorno dalla Germania, il vertice dello Stato turco ha osservato che Israele è tra i pochi Paesi che non hanno aderito al Trattato di non proliferazione delle armi nucleari del 1968.
Il mese scorso Erdogan ha accusato lo Stato Ebraico di aver superato il leader nazista uccidendo 14.000 bambini a Gaza.
Israele, nel frattempo, ha affermato che il presidente turco è tra i peggiori antisemiti della storia, a causa della sua posizione sul conflitto e del suo sostegno a Hamas.
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Immagine di Haim Zach / Government Press Office of Israel via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported
Economia
La Republic First Bank fallisce: la crisi bancaria USA non è finita
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Economia
BlackRock si unisce al pressing sull’Arabia Saudita: deve uscire dai BRICS
L’Arabia Saudita è oggetto di una pressione da parte di tutta la corte progettata per tirarla fuori dai BRICS e riallinearla con Londra e Washington.
Nello stesso momento in cui il Segretario di Stato americano Tony Blinken era in Arabia Saudita questa settimana per lavorare sulla «normalizzazione delle relazioni» tra Israele e Arabia Saudita – vale a dire, affinché i Sauditi riconoscano Israele in cambio di un patto militare con gli Stati Uniti – erano presenti nel regno wahabita anche Larry Fink e altri alti dirigenti di BlackRock per firmare un accordo con il governo saudita per il lancio della società BlackRock Riyadh Investment Management.
La nuova entità, detta anche BRIM, sarà una nuova «società di investimento multi-class» a Riyadh, con 5 miliardi di dollari di capitale iniziale di origine saudita, che dovrà «gestire fondi che investono principalmente in Arabia Saudita ma anche nel resto del Medio Oriente e del Nord Africa», ha riferito il Financial Times.
«L’obiettivo è attrarre ulteriori capitali esteri in Arabia Saudita e rafforzare i suoi mercati dei capitali attraverso una gamma di fondi di investimento gestiti da BlackRock», che ha in gestione una bella somma di 10,5 trilioni di dollari. Il CEO di BlackRock Larry Fink ha dichiarato in una nota che «l’Arabia Saudita è diventata una destinazione sempre più attraente per gli investimenti internazionali… e siamo lieti di offrire agli investitori di tutto il mondo l’opportunità di parteciparvi».
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L’Arabia Saudita aveva segnalato il suo interesse ad entrare nei BRICS ancora due anni fa.
Come riportato da Renovatio 21, pare che il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman – capo de facto del regno islamico – cinque mesi fa abbia snobbato i britannici per incontrare il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin. Negli stessi mesi il Regno aveva stipulato con la Cina un accordo di scambio per il commercio senza dollari.
Lo scambio di petrolio senza l’intermediazione del dollaro, iniziata nel 2022 con le dichiarazioni dei sauditi sulla volontà di vendere il greggio alla Cina facendosi pagare in yuan, porterà alla dedollarizzazione definitiva del commercio globale.
A gennaio 2023, il ministro delle finanze dell’Arabia Saudita Mohammed Al-Jadaan ha dichiarato al World Economic Forum che il Regno è aperto a discutere il commercio di valute diverse dal dollaro USA.
«Non ci sono problemi con la discussione su come stabiliamo i nostri accordi commerciali, se è in dollari USA, se è l’euro, se è il riyal saudita», aveva detto Al-Jadaan in un’intervista a Bloomberg TV durante il WEF di Davos. «Non credo che stiamo respingendo o escludendo qualsiasi discussione che contribuirà a migliorare il commercio in tutto il mondo».
Il rapporto tra la Casa Saud e Washington, con gli americani impegnati a difendere la famiglia reale araba in cambio dell’uso del dollaro nel commercio del greggio (come da accordi presi sul Grande Lago Amaro tra Roosevelt e il re saudita Abdulaziz nel 1945) sembra essere arrivato al termine.
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Immagine di pubblico dominio CCO via Flickr
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