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Nucleare

Dignità umana e nuova era della distruzione atomica

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La fantasmagorica produzione vaticana di documenti simildottrinali si è arricchita ultimamente della Dignitas Infinita che già nel titolo ha ingenerato qualche allarmata perplessità. Perché nei più maliziosi è nato spontaneo il sospetto di un supporto concettuale approntato per dare dignità, è il caso di dirlo, all’avventuroso Fiducia Supplicans, nel senso cioè che si sia voluto affermare la dignità estesa in senso quantitativo a qualunque manifestazione umana, in virtù della qualitativa superiorità umana.

 

Il sospetto, fugato a prima vista dalle sacrosante riconferme della morale cattolica per cui va rispettata la dignità dell’uomo in sé in quanto creatura – rispetto ovviamente che non esclude affatto la possibilità di giudicare antiumane le sue azioni – ha trovato poi conferma in certe ambiguità del testo e soprattutto nelle dichiarazioni con cui l’immaginifico custode della dottrina lo ha presentato alla stampa.

 

Purtroppo tutto questo appartiene ormai più al folklore vaticano che alla fede e alla fine lascia il tempo non proprio luminoso che trova.

 

Ma è anche vero, per altri versi, che proprio sul tema della dignità umana, nelle sue articolazioni storiche, teologiche e filosofiche, occorre fermare l’attenzione per decifrare i tanti fenomeni inediti che segnano la contemporaneità e che a quel concetto per vie diritte o distorte si ricongiungono.

 

Infatti, oggi come non mai appare chiaro che siamo giunti alla resa dei conti tra i due modi fondamentali in cui, attraverso una storia millenaria, ha preso forma la idea della dignità umana.

 

Da un lato quella per cui essa deriva all’uomo dall’essere creatura generata, secondo la immagine michelangiolesca, da un Dio che la sovrasta. Dall’altro, l’uomo che col tempo non ha riconosciuto più alcuna dipendenza, nulla più in alto della propria volontà e immaginazione, e che attinge ad essa la propria dignità e il proprio valore.

 

Tra questi due poli passa tutta la parabola di una civiltà che si identifica, appunto, con la storia del proprio pensiero prima teologico, poi filosofico, quindi scientifico. Una parabola che va appunto dalla idea, consacrata nel libro della Genesi, dell’uomo creato da Dio a Sua immagine e somiglianza, trapassata nel dogma della Incarnazione, e poi dissolta a poco a poco fino a rovesciarsi nel dramma moderno «dell’umanesimo ateo».

 

Un rovesciamento che appare a noi in tutta la sua compiutezza, ma che non sfuggì all’occhio attento di chi ne presagiva il compimento.

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Se la creazione in sé apparve al suo creatore «molto buona», questo doveva implicare che anche i suoi frutti futuri sarebbero stati «molto buoni», secondo le aspettative divine. Ma come sappiamo le cose sono andate diversamente. Il peccato di orgoglio ha tradito quelle aspettative con la caduta degli angeli e quella dell’uomo, ed è stato dettato dal desiderio dell’uomo di farsi uguale a Dio e la cui pericolosità era stata presagita lucidamente da un popolo dalle spiccate attitudini speculative e che pure aveva coscienza del grande valore dell’uomo.

 

La tentazione della onnipotenza è stata alla base della perdizione di Adamo. Anche Prometeo si è perduto per avere osato troppo, ma a differenza di Adamo il suo era stato un gesto filantropico, anche se indirettamente aveva indotto nell’uomo «le false speranze». Infatti era stato punito per motivi oggettivi. Adamo invece ha peccato di superbia come chiunque voglia assumere un ruolo che non è suo. La conseguenza punitiva ha avuto presupposti diversi, ma noi siamo metaforicamente figli di entrambi.

 

Dopo la scomparsa del mondo antico e la lunga gestazione di quello cristiano che vi si era innestato, totalmente polarizzato sulla volontà e la legge di Dio, l’umanesimo riapre la finestra sul valore dell’uomo e delle sue opere, sul suo essere «meraviglia» come lo definiva Marsilio Ficino e che, come tale, mostra la propria natura divina.

 

Tuttavia l’esaltazione dell’uomo nella trattatistica più antica, come negli umanisti del XV secolo, come scrive De Lubac, non era al contempo diminuzione di Dio, ma semmai proprio la rappresentazione della bontà e grandezza, della onnipotenza divine.

 

«Attingendo alla Genesi e a San Paolo, i Padri della Chiesa e poi i medievali, avevano trasformato lo gnothi seautòn dell’oracolo di Delfi che invitava l’uomo a comprendere di essere soltanto un essere mediocre separato dagli dei da un abisso incolmabile, prigioniero nel grande universo del quale doveva subire le leggi. Ora con la stessa formula lo invitavano, al contrario, ad esplorare le profondità del proprio essere, certamente non per scoprirvi illusoriamente una essenza divina, niente faceva loro più orrore, ma per cogliervi il segno di un destino superiore, una chiamata al di là di tutti i limiti che sembravano rinchiuderlo».

 

In ogni caso, col tempo ha preso forma la contrapposizione tra due fondamentali punti di vista.

 

Da un lato quello per cui grandezza dell’uomo e grandezza di Dio sono inseparabili. Dall’altro l’idea che l’uomo faber fortunae suae rivendica titanicamente la propria indipendenza da Dio finché arriverà a postulare la sua inesistenza. Per questa via sarà addebitato proprio all’umanesimo di avere gettato le basi per la eliminazione di Dio.

 

Inoltre, e per altro verso, se le regole della convivenza le detta l’uomo che le può fare e disfare a proprio piacimento e a seconda del prevalere di questo o quel potere, lo Stato diventa etico non in quanto custode di un’etica teleologicamente orientata al bene comune, ma perché posta al servizio del potere.

 

La possibilità di questa ambigua trasformazione dell’uomo era già stata osservata da Pico della Mirandola per il quale «nell’uomo nascente il Padre infuse germi di ogni specie di vita», germi che potranno produrre sia l’animale celeste che il bruto, in ragione di una natura cangiante e metamorfica.

 

Pico, convinto di essere in perfetta ortodossia cristiana, nella sua Oratio mette in evidenza la dignità dell’uomo in quanto capacità, in virtù della libertà del volere donatagli da Dio, di farsi angelo o bruto. Non solo dunque di essere libero di scegliere, come voleva sant’Agostino, tra bene e male, ma di essere dotato di natura cangiante e metamorfica e dunque di poter percorrere strade opposte e assumere forme opposte. Tutto ciò sembrò agli occhiuti ma non sprovveduti censori vaticani il presagio pericoloso di pericolose rivendicazioni di autonomia spirituale e di futura totale licenza.

 

Dunque qui già si annidava il possibile equivoco. La dignità è di qualunque creatura umana in quanto tale, per cui solo a Dio è dato disporne (nel senso per cui è stato detto «nessuno tocchi Caino»), o nel senso per cui qualunque manifestazione, qualunque decisione di vita è giustificata in nome di quella dignità, come, a pensar male, forse vorrebbe Tucho Fernandez?

 

Insomma, in prospettiva si poneva già il problema se l’uomo è buono in sé in quanto creatura, e le sue azioni siano di conseguenza anche buone, o in quanto capace di bene e nei limiti in cui agisca per il bene proprio e altrui; inoltre, e infine, che cosa sia veramente il suo bene presente e futuro.

 

Mentre poi ci si è dovuti chiedere, e oggi la domanda è diventata lacerante, se l’uomo faber sia ora in grado di dominare ciò che è diventato capace di produrre, quali siano i frutti buoni della sua acquisita conoscenza del mondo e della natura, se gli sfugge di mano ciò che realizza, o perde la capacità di valutare anche il peso delle proprie idee, dato che anche il pensiero in sé è una forza capace di produrre il bene e il male.

 

E soprattutto cosa può accadere, come accade, se a tenere in mano le leve del potere che domina i mezzi spiritualmente e materialmente distruttivi, siano quelli che, nella visione di Pico, appartengono all’altra faccia dell’umanità, o quanto meno non abbiano nel loro orizzonte il bene comune.

 

Sicché, alla fine, l’esito ultimo della libertà assoluta e della autodivinizzazione, per paradossale eterogenesi dei fini, è quello del trapasso nell’opposto del nuovo paradiso promesso, e l’onnipotenza diventa strumento di distruzione e autodistruzione.

 

Non per nulla, in seguito, il tema della trasfigurazione dell’uomo in demonio, preconizzata da Pico come «iconografia della trascendenza deviata», diventerà un tema molto frequentato nella letteratura moderna, come osserva ancora De Lubac, soprattutto in quella russa dominata proprio dal rapporto con la trascendenza. Basti pensare al Dostoevskji dei Demoni o dei Fratelli Karamazov. Ma l’abisso della perdizione è presente ormai in tutti gli autori cattolici del diciannovesimo secolo, che in ogni caso presuppongono appunto la perdita dell’orizzonte normativo, non la sua inesistenza.

 

Oggi però nella concezione antireligiosa, ateista, libertaria, sostanzialmente nichilista e autoreferenziale, l’uomo, se non intende neppure assomigliare ad un dio in cui non crede, confida ugualmente nella propria onnipotenza, e si riconosce legislatore di se stesso.

 

Prende corpo tangibile l’abisso tra la concezione per cui il valore dell’uomo sta nella propria filiazione divina, e nella sottomissione ad una legge superiore, e quella più euforica che medita di un potere sciolto da limiti persino di ordine naturale.

 

Tuttavia si tratta di una concezione che non appartiene coscientemente ad una massa alle prese con la vita quotidiana, la quale semmai la assorbe per osmosi dallo spirito del tempo, ma ad una minoranza di individui, immersi nella deriva gnoseologica e nella degenerazione culturale propria della cosiddetta civiltà occidentale. Una minoranza di potere diventata capace per contingenze storiche di dominare le vite, ma anche di manipolare gli atteggiamenti mentali altrui.

 

Infatti alle due concezioni, quella che sente il divino come principio creatore e ordinatore, e quella dell’umanesimo ateo impegnato a far valere la forza creatrice della propria libertà, questa è diventata determinante e politicamente egemone, disponendo di tutti i mezzi pratici per realizzare i propri obiettivi.

 

Inutile dire, però, che la disumanizzazione copre dominanti e dominati, se, per dirla con le parole di De Lubac: «non c’è più uomo, perché non c’è più nulla che trascenda l’uomo».

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Ora, la volontà di potenza, che va di pari passo con i miraggi di libertà assoluta e autodeterminazione negatrici di ogni presupposto normativo, comporta anche la necessità di eliminare lo spettro delle conseguenze del proprio agire, impone di non volere vedere e sapere. E questo richiede a sua volta la cancellazione della memoria insieme alla percezione del pericolo incombente: ovvero la cancellazione di tutto ciò che, facendo prendere coscienza della realtà, aiuterebbe i più a ricostruire il proprio orizzonte umano e ad attivare le necessarie difese.

 

Per questo, tra falsa emancipazione e falso umanesimo, si è arrivati alla plausibilità dell’era atomica.

 

Infatti alle due visioni, quella dell’uomo che sente l’obbligo morale di modellare le proprie azioni sulla legge divina, e quella di chi si intende liberato da ogni imperativo trascendente, oggi si è aggiunta quella apocalittica della volontà di potenza distruttiva, che fa dell’uomo un creatore di segno opposto.

 

Grazie alla potenza atomica, l’uomo contemporaneo compensa il vuoto che ha scavato intorno a sé con la propria capacità distruttiva come una creazione rovesciata: se egli non si è creato come specie privilegiata, ora sa di avere il potere di autodistruggersi. E non è poco nella visione allucinata del nuovo superuomo.

 

Quanto tempo rimane per arrivare alla autodistruzione umana? Si chiedeva già Norman Causins in un saggio del 1946, a ridosso delle bombe statunitensi sulle città giapponesi. Se la guerra è ineliminabile perché appartiene al destino umano, sarà ineliminabile l’impiego autodistruttivo dei mezzi ora a disposizione. E aggiungeva: «è un curioso fenomeno naturale che solo due specie pratichino l’arte della guerra: gli uomini e le formiche, ed entrambi viventi in complesse organizzazioni sociali».

 

Solo che ora, la guerra, da mezzo per un qualunque fine pratico, compreso quello della affermazione di potere personale, dettato dallo spirito di conquista che fu di condottieri antichi e moderni, appare dare tragicamente forma estrema alla allucinazione del potere che riscatta la precarietà umana proprio attraverso la sua capacità di distruzione totale. E, al di là di ogni possibile calcolo utilitaristico, tutto ciò assume il significato metafisico, appunto, della capacità distruttiva quale rovescio della potenza creatrice divina. Cosa che si connette naturalmente anche alla dimenticanza alienata e quasi ostentata, o della ignoranza intenzionale, delle conseguenze.

 

Una ignoranza che sembra non risparmiare né gli impresari ufficiali della guerra, né in particolare le masse ad essi sottoposte.

 

Infatti sono queste che dovrebbe teoricamente poter cambiare la rotta della autodistruzione grazie al potere critico che induce a cambiare «perché connesso con l’istinto di sopravvivenza». Un potere critico che, nell’era atomica, di fronte alla potenza distruttiva raggiunta dalla scienza, dovrebbe essere tanto potenziato da essere in grado di scongiurare proprio il pericolo dell’autodistruzione. Invece l’uomo moderno, osservava ancora Causins, «attraversa una crisi della decisione, perché il dilemma che lo riguarda più da vicino è quello tra la volontà di cambiare e la capacità di cambiare, e oggi la volontà di cambiare sembra essere venuta meno».

 

Il fenomeno d’altra parte va letto alla luce del fatto che l’immane potere distruttivo è comunque in mano a pochi decisori, e proprio la volontà dei più è sovrastata e manipolata da quella dei detentori del potere che dimostrano in massimo grado spregiudicatezza e irresponsabilità, sicché la stessa percezione del pericolo è stata ottusa dal frastuono delle mille stimolazioni, che, distraendo le masse dalla realtà effettuale, le immerge nel fumo di quella virtuale.

 

Come nella confusione dei piani concettuali non viene più percepito il valore né la sostanza dei fenomeni, così qui viene meno la capacità di giudizio e di comprensione dei nessi causali.

 

Insomma, tra sottomissione forzata alle decisioni prese dall’alto, e incapacità critica indotta, anche lo istinto di sopravvivenza è messo fuori gioco nella sua funzione conservatrice da un meccanismo che sotto traccia ne inceppa la potenza determinante.

 

Questo quadro di inconsapevolezza autodistruttiva va a congiungersi con quello della guerra che da strumento di sopravvivenza diventa proiezione appariscente della volontà di potenza fine a se stessa, che da un capo si trasferisce ad un popolo o viceversa, o trova nel loro connubio una sintesi poderosa.

 

Ma oggi sembra prevalere in ogni caso quella arroganza solitaria del potere che assume le vesti anonime di uno stolido competitore col divino sempre più stordito dalla ebbrezza di poter tenere in pugno il mondo intero.

 

Nessuna immagine può rappresentare in modo più icasticamente eloquente il senso tragico di questa follia senza speranza come quella ideata dal genio di Stanley Kubrick per il finale del suo Dottor Stranamore, col generale che vola a cavalcioni del suo «ordigno fine di mondo», sventolando inebriato il cappello da cow boy.

 

Eppure la vertigine di questa apocalisse annunciata ci investe di fatto da vicino se, girando per questa Italia che ebbe il benigno destino di diventare culla insuperata e insuperabile di bellezza, pensiamo sgomenti alla sua precarietà.

 

Una bellezza donata ma poi ricreata, che ha allevato un popolo in sé mite e vitale, ma anche ottimista e contemplativo. Un popolo che di quella bellezza ricevuta e restituita, sempre rinnovata si è nutrito magari inconsapevolmente, di città in città, di borgo in borgo, mentre all’ombra di quelle pietre poteva arricchire la propria sensibilità anche con l’arguzia di infiniti linguaggi capaci di fissare esperienze e pensieri nuovi o tramandati come i corredi nelle casse spesso intonse di spose promesse e spose mancate.

 

Un patrimonio di bellezza pubblica e domestica che ha provato già l’acconto immane, feroce e belluino della distruzione totale, e continua ad essere esposto senza difese al suo compimento. Perché il potere distruttivo è governato anzitutto dallo stesso pensiero tragicamente alienato che guidava la guerra aerea angloamericana nel secondo conflitto mondiale. Quello inglese per cui le città d’arte andavano colpite per motivi tattici, e quello statunitense sempre in vigore per cui la distruzione serve alla ricostruzione.

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In una nuova apocalisse distruttiva non si porrà il problema di sopravvivere perché non varrà la pena di sopravvivere. Di fronte alla scomparsa di Venezia per la bestialità dei distruggitori, sarebbe comunque intollerabile condividere ancora con essi la stessa terra.

 

Perché non sarà valso a nulla coltivare la speranza di un lascito fecondo per quel tanto o poco di noi che potrebbe continuare a generare nell’anima di quelli venuti dopo.

 

In passato, anche quando la memoria dei padri si sbiadiva, rimanevano le pietre resistenti al tempo e agli uomini, la terra e le bellezze tramandate dalle mani e dallo spirito nelle prospettive di colline e montagne, acque e cieli benigni.

 

Ora lo stupore e l’incanto rapito, la commozione per la bellezza trovata o cercata, ora li dobbiamo vivere in controluce, ovvero nella luce sinistra del timore, nella angoscia premonitrice di avere di fronte solo immagini fuggevoli perché condannate a sparire.

 

Ora la nuova visione apocalittica non contempla la mano invisibile di un dio che colpisce i peccatori come nella iconografia medievale di Giotto o in quella della Sistina, ma l’inferno che viene dal cielo una volta creato come inviolabile.

 

Ma una domanda sorge spontanea: c’è una vera coscienza di tutto questo? Oppure anche l’idea di questo immane pericolo alimentato dalla irresponsabilità politica viene elusa dai più?

 

Di certo abbiamo a che fare almeno con due fattori decisivi: una consapevolezza della realtà indebolita e la rimozione difensiva.

 

Non bisogna dimenticare come la normalizzazione della follia metafisica della guerra moderna quale premonizione apocalittica sia venuta a maturazione puntualmente proprio con la seconda guerra mondiale. Perché la cancellazione di tanta parte di storia ha sortito l’effetto di cambiare anche un atteggiamento interiore.

 

L’averla subita dalle generazioni che l’hanno vissuta, il suo dejà vu, rimosso però secondo un meccanismo psicologico ben conosciuto, ha fatto rientrare l’indicibile nella plausibilità destinale. In una sorta di interpretazione popolare diffusa e fatalista della fenomenologia hegeliana.

 

L’assuefazione che rende normale l’anormalità e la volontà inconscia di rimuovere la memoria dell’insopportabile, hanno per un certo tempo allontanato il ricordo di quella tragedia vissuta in prima persona. Esso è stato dissotterrato soltanto quando risultava ormai disinnescato perché, estraneo alle nuove generazioni e sterilizzato dalle vecchie in un armadietto ben custodito, aveva perduto la sua capacità di sorreggere l’intelligenza delle cose.

 

Ora che una grande catastrofe di proporzioni inedite si è già verificata, ma è diventata solo un racconto storico, che coinvolge al più la filologia politica, il distacco con cui viene guardata dai più è lo stesso col quale viene vissuta a teatro la più tragica delle vicende. E questo la rende ripetibile, ma proprio nella realtà sempre attuale che non viene colta.

 

Anche in questo caso sembra di toccare con mano un ottundimento della sensibilità collettiva riscontrabile, del resto, in ogni campo della vita pratica. Per diminuita consapevolezza critica, per offuscamento della coscienza, per rimozione, per volontà di non affrontare la realtà, per incapacità di rappresentazione, perché si vive in un mondo alternativo in cui l’effimero è reale e il tragico solo surreale.

 

È questa la chiave di una inconsapevolezza diffusa. È come se nelle voragini aperte dalle bombe di allora sia stata seppellito anche l’istinto di sopravvivenza e il dovere morale della difesa, la capacità di discernere e di valutare con disincanto quanto si muove sopra le nostre teste, e viene sottratto alle nostre anime.

 

Ora, se è vero che solo un Dio ci può salvare, si tratta di recuperare quella ragione donata agli uomini perché capace di assicurare loro una vera dignità. Che non si identifica con la ragione calcolante pseudo scientifica a cui ci siamo asserviti, e tanto meno col compiaciuto adattamento ai falsi miti, ai falsi valori, alle false promesse che tengono banco nell’avanspettacolo di una politica truffaldina e irresponsabile.

 

Patrizia Fermani

 

Articolo previamente apparso su Ricognizioni.

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Nucleare

L’ex vertice dell’esercito ucraino vuole le armi nucleari

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L’ex comandante supremo delle Forze Armate ucraine, il generale Valery Zaluzhny, ha sostenuto che solo l’ingresso nella NATO, l’installazione di armi atomiche o l’accoglienza di un imponente contingente militare straniero possano assicurare una protezione effettiva per Kiev.   Le dichiarazioni sono state rese note in un saggio apparso sabato sulle colonne del giornale britannico Telegraph.   Il generale – che, secondo indiscrezioni, starebbe tessendo in silenzio una compagine politica da Londra in vista di una possibile corsa alla presidenza – ha delineato le sue analisi su come sconfiggere Mosca, forgiare un’«Ucraina rinnovata» e quali «tutele di sicurezza» adottare per prevenire una ricaduta nel confronto con il Cremlino.   «Queste tutele potrebbero comprendere: l’accessione dell’Ucraina all’Alleanza Atlantica, il posizionamento di ordigni nucleari sul suolo ucraino o l’impianto di un corposo schieramento alleato in grado di fronteggiare la Federazione Russa», ha argomentato Zaluzhny.   L’alto ufficiale ha sostanzialmente ribadito le posizioni più intransigenti della classe dirigente ucraina attuale: Volodymyr Zelens’kyj ha spesso invocato simili tesi nel corso della crisi con la Russia, e pure in precedenza.   Il governo russo ha più volte stigmatizzato come inaccettabili qualsivoglia delle «tutele di sicurezza» indicate da Zaluzhny. Mosca contrasta da anni le velleità atlantiste di Kiev, additando l’allargamento verso levante del Patto come un pericolo per la propria integrità e annoverandolo tra i moventi principali del contenzioso in atto.   Inoltre, il Cremlino ha insistito che, in qualsivoglia intesa di pace futura, l’Ucraina debba abbracciare uno statuto di neutralità.

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Anche le esternazioni nucleari di Kiev sono state aspramente censurate da Mosca, che le ha giudicate foriere di escalation e di un rischio di conflagrazione mondiale. La dirigenza ucraina ha spesso deplorato l’abbandono dell’eredità atomica sovietica agli albori degli anni Novanta, lamentando di non aver ottenuto contropartite adeguate.   La leadership di Kiev ha sostenuto a lungo che gli Stati Uniti e i suoi alleati avevano l’obbligo di proteggere l’Ucraina a causa del Memorandum di Budapest del 1994, in cui Stati Uniti, Regno Unito e Russia avevano dato garanzie di sicurezza in cambio della rimozione delle testate nucleari sovietiche dal territorio ucraino.   In verità, però, quell’arsenale era rimasto sotto l’egida moscovita, mentre l’Ucraina sovrana mancava delle capacità per gestirne o preservarne le testate residue dopo la dissoluzione dell’URSS. Allo stesso modo, la Russia ha escluso qualsivoglia ipotesi di dispiegamento di truppe straniere in Ucraina, né durante né oltre il conflitto vigente. Tale mossa, a giudizio del Cremlino, non farebbe che precipitare Mosca in uno scontro frontale con l’Occidente.   Come ricordato da Renovatio 21, c’è da dire che la fornitura di atomiche a Kiev è stata messa sul piatto varie volte da personaggi come l’europarlamentare ucraino Radoslav Sikorski, membro del gruppo Bilderberg sposato alla neocon americana Anne Applebaum.   Si tende a dimenticare che lo stesso Zelens’kyj parlò di riarmo atomico di Kiev alla Conferenza di Sicurezza di Monaco, pochi giorni prima dell’intervento russo. In seguito, Zelens’kyj e i suoi hanno più volte parlato di attacchi preventivi ai siti di lancio russi e di «controllo globale» delle scorte atomiche di Mosca.
A inizio anno, la portavoce del ministero degli Esteri di Mosca Maria Zakharova aveva definito lo Zelen’skyj come un «maniaco» che chiede armi nucleari alla NATO.   Come riportato da Renovatio 21, mesi fa il quotidiano londinese Times aveva parlato di «opzione nucleare ucraina». Settimane prima il tabloid tedesco Bild aveva riportato le parole di un anonimo funzionario ucraino che sosteneva che Kiev ha la capacità di costruire un’arma nucleare «in poche settimane».

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Nucleare

Il think tank del CFR chiede che Giappone, Germania e Canada diventino potenze nucleari

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Un articolo pubblicato il 19 novembre su Foreign Affairs – la rivista di punta del Council on Foreign Relations, il think tank dell’establishment dello Stato profondo USA– rappresenta una provocazione senza precedenti. Il titolo è inequivocabile: «Gli alleati dell’America dovrebbero passare al nucleare. Una proliferazione selettiva rafforzerà l’ordine globale, non lo distruggerà».

 

Gli autori, i professori di relazioni internazionali Moritz S. Graefrath e Mark Raymond dell’Università dell’Oklahoma, sostengono che gli Stati Uniti dovrebbero abbandonare il dogma della non proliferazione e incoraggiare Canada, Germania e Giappone ad armarsi di ordigni atomici. Secondo loro, questo renderebbe il mondo «più stabile».

 

«Washington farebbe bene a riconsiderare la sua rigida opposizione alla proliferazione e a spingere un ristretto gruppo di alleati – Canada, Germania e Giappone – verso il nucleare», scrivono. Per gli USA significherebbe scaricare parte del peso della difesa regionale su questi partner e ridurre la loro dipendenza militare; per Berlino, Tokyo e Ottawa significherebbe ottenere la deterrenza definitiva contro Russia e Cina, oltre a proteggersi da un eventuale disimpegno americano dalle alleanze tradizionali.

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«Lungi dall’inaugurare un’era di instabilità globale, una proliferazione selettiva contribuirebbe a sostenere l’ordine post-1945», aggiungono, difendendo così il cosiddetto «ordine basato su regole» con cui l’asse anglo-americano cerca di tenere sotto controllo la maggioranza globale, nonostante il sistema finanziario transatlantico sia al collasso. In particolare, «una Giappone nucleare contribuirebbe enormemente al principale obiettivo statunitense in Asia orientale: contenere la Cina attraverso alleanze locali forti».

 

Gli autori sembrano ignorare deliberatamente la storia: uno dei motivi principali dietro i negoziati del Trattato di Non Proliferazione (TNP) negli anni Sessanta e il programma di condivisione nucleare NATO fu proprio impedire alla Germania di dotarsi di armi atomiche. Riarmare Berlino in chiave anti-russa con ordigni nucleari evoca sinistri precedenti storici.

 

Quanto al Giappone, la Costituzione pacifista imposta da MacArthur nel dopoguerra è stata concepita proprio per scongiurare il ritorno del militarismo nipponico – una carta che Washington e Londra stanno cercando di stracciare da anni, come dimostrano le recenti dichiarazioni del primo ministro Sanae Takaichi, pronta a riesaminare la dottrina dei «tre no» sulle armi nucleari (che ne vieta il possesso, la fabbricazione e l’introduzione su suolo nipponico) e a coinvolgere Tokyo in un eventuale conflitto su Taiwan.

 

Graefrath e Raymond omettono questi precedenti e presentano Germania e Giappone come «membri responsabili della comunità internazionale». In realtà, autorizzare la loro proliferazione nucleare in difesa di un ordine mondiale in disfacimento accelererebbe la corsa verso un conflitto atomico.

 

L’articolo porta inoltre i segni evidenti del tentativo britannico di «blindare» l’establishment globale contro un secondo mandato Trump: «una forza nucleare tedesca indipendente proteggerebbe Berlino dalla possibilità di un ritiro improvviso degli Stati Uniti dall’Europa». In altre parole: se Trump dovesse davvero ridurre l’impegno americano, meglio che Berlino abbia le sue bombe.

 

Il discorso non è nuovo neanche in Europa.

 

Come riportato da Renovatio 21, l’eurodeputata SPD Katarina Barley aveva ipotizzato mesi fa il riarmo atomico dell’Europa – e quindi per una Germania rimilitarizzata, un concetto che si dice fosse uno dei motivi della creazione della NATO («Tenere l’Europa dentro, i russi fuori, i tedeschi sotto») e un vero incubo per lo statista italiano Giulio Andreotti («la Germania mi piace così tanto che ne voglio due»).

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Come riportato da Renovatio 21, il neocancelliere Federico Merz ha promesso, appena eletto, di escludere le armi atomiche, ma non è facile credergli. Credere ad un cancelliere tedesco, in una Germania che ripudia le centrali atomiche ma invoca le bombe atomiche, potrebbe essere difficilissimo.

Bizzarramente, in un’intervista pubblicata a luglio per un giornale polacco il direttore generale dell’AIEA, Rafael Grossi ha dichiarato che Germania potrebbe sviluppare le proprie armi nucleari entro pochi mesi, se lo desiderasse, affermando che Berlino possiede già il materiale nucleare, il know-how e l’accesso alla tecnologia necessari.

 

Secondo Grossi, la Germania potrebbe costruire una bomba nucleare nel giro di «qualche mese», anche se il direttore generale dell’AIEA ha sottolineato che «si tratta di ipotesi puramente ipotetiche» e che i Paesi europei continuano a ribadire il loro impegno nei confronti del Trattato di Non Proliferazione delle Armi Nucleari (TNP).

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Nucleare

Putin promette un sostegno a lungo termine alla prima centrale nucleare egiziana

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Il presidente russo Vladimir Putin ha assicurato che Mosca continuerà a sostenere l’Egitto in tutte le fasi cruciali della costruzione della prima centrale nucleare del Paese, garantendo forniture di combustibile nucleare a lungo termine e l’assistenza tecnica necessaria per l’intero ciclo di vita dell’impianto.   Mercoledì è stato installato il contenitore in pressione del reattore dell’unità 1 della centrale di El Dabaa, sulla costa mediterranea egiziana, nel corso di una cerimonia ufficiale. L’intero progetto, che prevede quattro reattori VVER-1200 per una potenza complessiva di 4 800 MW, è realizzato dalla società russa Rosatom in virtù dell’accordo siglato con Il Cairo nel 2015.   Collegato in videoconferenza con i partecipanti – tra cui il direttore generale dell’AIEA Rafael Grossi – Putin ha dichiarato che i lavori «procedono in modo sicuro e con successo» e che il progetto è entrato in una «fase decisiva». Secondo le sue parole, pubblicate sul sito del Cremlino, i reattori di terza generazione di Rosatom produrranno fino a 37 miliardi di kWh l’anno, coprendo circa il 10 % del fabbisogno elettrico egiziano e rafforzando sensibilmente la sicurezza energetica del Paese.   Putin ha definito El Dabaa un «progetto faro nell’ambito dell’uso pacifico dell’energia nucleare» e ha rivolto un ringraziamento personale al presidente Abdel Fattah el-Sisi per «l’iniziativa e il costante sostegno». Ha ricordato che ingegneri sovietici e russi avevano già contribuito a grandi opere egiziane, come la diga di Assuan e numerosi impianti industriali.

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«Siamo pienamente impegnati a rafforzare e approfondire in ogni direzione la nostra partnership con l’amico Egitto», ha concluso il presidente russo, aggiungendo che Mosca ha già formato oltre 100 specialisti nucleari egiziani nelle proprie università e che Rosatom è pronta a trasferire tecnologie per piccoli reattori modulari e per applicazioni nucleari in medicina e agricoltura.   A settembre il ministro egiziano dell’Elettricità e delle Energie rinnovabili, Mahmoud Esmat, aveva confermato a RIA Novosti che la centrale sarà completata entro il 2029.   Nella stessa cerimonia di mercoledì, il presidente Sisi ha lodato la «lunga e fruttuosa cooperazione» tra Il Cairo e Mosca, sottolineando che El Dabaa «colloca l’Egitto tra i Paesi leader nell’uso pacifico dell’energia nucleare».  

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0) 
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