Sport e Marzialistica
Storia e forme della kickboxing

Storicamente, la kickboxing può essere vista come un’arte marziale ibrida, nata dalla combinazione di elementi di diversi stili tradizionali. Questo approccio è diventato sempre più popolare a partire dagli anni Settanta e, dagli anni Novanta, il kickboxing ha contribuito all’emergere delle arti marziali miste, integrandosi ulteriormente con le tecniche di combattimento a terra del jiu-jitsu brasiliano e del wrestling.
Il termine «kickboxing» ha avuto origine in Giappone negli anni Sessanta e si è sviluppato a partire dalla fine degli anni Cinquanta come una fusione tra il karate e la boxe, influenzato dalle competizioni che si sono svolte da allora. La kickboxing americana è nata negli anni Settanta e ha guadagnato notorietà nel settembre del 1974, quando la Professional Karate Association (PKA) ha organizzato i primi Campionati del Mondo.
Il termine «kickboxing» (キックボクシング, kikkubokushingu) può essere usato in senso stretto o ampio.
In senso stretto, si riferisce agli stili che si identificano specificamente come kickboxing, vale a dire il kickboxing giapponese (e i suoi stili o regole derivate come shootboxing e K-1), il kickboxing olandese e il kickboxing americano.
In senso più ampio, il termine include tutti i moderni sport da combattimento in piedi che permettono sia pugni che calci. Tra questi rientrano, oltre ai già menzionati, il Sanda, il Muay Thai, il Kun Khmer, il Lethwei, il Savate, l’Adithada, il Musti-yuddha e alcuni stili di karate (soprattutto il karate a contatto completo).
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Il termine stesso fu introdotto negli anni Sessanta come anglicismo giapponese dal promotore di boxe giapponese Osamu Noguchi per un’arte marziale ibrida che combinava Muay Thai e Karate, introdotta nel 1958. Successivamente, il termine fu adottato anche per la variante americana.
Poiché c’è stata molta contaminazione tra questi stili, con molti praticanti che si allenano o competono secondo le regole di più di uno stile, la storia dei singoli stili non può essere considerata separatamente l’una dall’altra.
Il termine francese Boxe pieds-poings (letteralmente «pugilato-piedi-pugilato») è usato anche nel senso di «kickboxing» in senso generale, includendo la boxe francese (la cosiddetta Savate), così come la kickboxing americana, olandese e giapponese, quella birmana e la boxe tailandese, qualsiasi stile di karate full-contact, etc.
- Kickboxing Giapponese: stile di combattimento creato in Giappone e origine del termine «kickboxing».
- Karate full contact (a contatto completo): qualsiasi stile di karate che prevede il contatto pieno.
- Sanda (Kickboxing Cinese): componente applicabile del wushu/kung fu, include tecniche di takedown, proiezioni e colpi (braccia e gambe).
- Shootboxing: forma giapponese di kickboxing che permette lancio e sottomissione in piedi, simile al Sanda.
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- Kickboxing americano: stile di kickboxing originario degli Stati Uniti.
- Kickboxing olandese: incorpora tre arti di combattimento: Muay Thai, boxe e karate Kyokushin.
- Savate francese: sport sviluppato nel XIX secolo, noto per le sue tecniche di calci con i piedi.
- Combat Hopak ucraino: basato principalmente su tecniche di pugni e calci.
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- Musti Yuddha e Adithada indiani: Musti Yuddha, noto anche come boxe Muki, e Adithada, una forma di kickboxing che utilizza colpi di ginocchio, gomito e fronte nel Kalaripayattu del sud.
- Kickboxing Coreano: conosciuto anche come Kun Gek Do, è un’arte marziale sudcoreana che combina boxe e Taekwondo.
- Famiglia degli sport di kickboxing del Sud-Est Asiatico: conosciuti anche come «muay» ai Giochi del Sud-Est Asiatico, includono diversi stili:
- Pradal Serey (Kun Khmer): sport da combattimento con enfasi sui calci e uso della clinciatura per le tecniche del gomito, basato sulle tecniche dell’antico impero Khmer.
- Thai Muay Boran («pugilato antico»): predecessore della Muay Thai, consente l’uso di colpi di testa.
- Kickboxing thailandese o Muay Thai: arte marziale moderna thailandese che consente colpi di pugni, calci, ginocchiate e gomiti.
- Lethwei birmano: arte marziale tradizionale birmana che permette colpi di testa, ginocchia e gomitate, utilizza anche tecniche di soffocamento e lancio. Non vengono utilizzati guantoni da boxe e il sistema di punteggio è assente, con la vittoria possibile solo per eliminazione diretta.
- Muay Lao laotiana: boxe laotiana simile alla Muay Thai.
- Yaw-Yan filippino: Sayaw ng Kamatayan («Danza della morte»), un’arte marziale filippina sviluppata da Napoleon Fernandez, che assomiglia alla Muay Thai ma con movimenti di torsione dell’anca e calci a taglio verso il basso, con enfasi sugli attacchi a lunga distanza.
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Poiché come si può vedere il termine «kickboxing» risulta essere assai ampio, comprenderne la storia può essere complesso, dato che il combattimento è una parte intrinseca dell’essere umano. Calci e pugni come atti di aggressione sono probabilmente esistiti in tutto il mondo fin dalla preistoria.
La prima rappresentazione conosciuta di qualsiasi tipo di boxe proviene da un rilievo sumero in Iraq del III millennio a.C. Forme di kickboxing esistevano nell’antica India.
I primi riferimenti all’arte marziale del musti-yuddha si trovano in poemi epici vedici classici come il Ramayana e il Rig Veda, compilati a metà del II millennio a.C. Il Mahabharata descrive due combattenti che boxano con i pugni chiusi e combattono con calci, colpi con le dita, colpi con le ginocchia e testate. Mushti Yuddha ha viaggiato lungo l’Indosfera ed è stato un precursore e una forte influenza in molte famose arti marziali del sud-est asiatico come Muay Thai, Muay Lao e Pradal Serey (della Cambogia).
Nel Pancrazio, un’arte marziale mista dell’antica Grecia, veniva utilizzata una forma definibile come kickboxing nella sua modalità Ano Pankration, permettendo l’uso di qualsiasi estremità per colpire. Inoltre, si discute se i calci fossero consentiti nella boxe dell’antica Grecia e, sebbene esistano prove di calci, questo è oggetto di dibattito tra gli studiosi.
I francesi furono i primi a includere i guantoni da boxe in uno sport che prevedeva tecniche di calcio e pugni. Nel 1743, l’inglese Jack Broughton inventò i moderni guantoni da boxe. Il francese Charles Lecour, pioniere della moderna savate o la boxe française, aggiunse i guantoni da boxe inglesi a questa disciplina. Lecour creò una forma di combattimento che combinava calci e pugni, e fu il primo a considerare il savate sia come sport sia come sistema di autodifesa.
I coloni francesi introdussero i guantoni da boxe europei nelle arti marziali asiatiche native dell’Indocina francese. L’uso dei guantoni da boxe europei si diffuse anche nel vicino Siam (l’attuale Thailandia), influenzando le pratiche locali di combattimento.
Fu durante gli anni Cinquanta che Tatsuo Yamada, un karateka giapponese, stabilì per la prima volta lo schema di un nuovo sport che combinava Karate e Muay Thai. Questo concetto fu ulteriormente esplorato nei primi anni Sessanta, quando iniziarono le competizioni tra karate e Muay Thai, permettendo di apportare modifiche alle regole. A metà del decennio, si tennero nella città di Osaka i primi eventi utilizzando il termine «kickboxing».
Il 20 dicembre 1959, presso il municipio di Asakusa a Tokyo, si tenne un incontro di Muay Thai tra combattenti tailandesi. Tatsuo Yamada, fondatore del «Nihon Kempo Karate-do», era interessato alla Muay Thai perché desiderava organizzare incontri di karate con regole di contatto pieno, dato che ai praticanti non era consentito colpirsi direttamente negli incontri di karate dell’epoca.
A quel tempo, era impensabile colpirsi direttamente negli incontri di karate in Giappone. Yamada aveva già annunciato il suo piano chiamato «bozza dei principi del progetto per la creazione di una nuova arte marziale e la sua industrializzazione» nel novembre 1959 e aveva proposto il nome provvisorio di «karate-boxing» per questa nuova arte marziale.
Non è chiaro se il combattente tailandese Nak Muay sia stato invitato da Yamada, ma è certo che Yamada fosse l’unico karateka veramente interessato alla Muay Thai. Yamada invitò un campione Nak Muay (precedentemente sparring partner di suo figlio Kan Yamada) e iniziò a studiare la Muay Thai. In quel momento, il combattente tailandese fu notato da Osamu Noguchi, un promotore della boxe che era anche interessato alla Muay Thai. La foto del combattente tailandese apparve su rivista del Nihon Kempo Karate-do pubblicata da Yamada.
Negli anni Novanta, il kickboxing è stato principalmente dominato dalla promozione giapponese K-1, con alcuni concorrenti provenienti da altre organizzazioni e promozioni. Questo periodo ha visto una crescente popolarità delle competizioni di kickboxing, accompagnata da una maggiore partecipazione ed esposizione nei mass media, nel fitness e nell’autodifesa.
Il 12 febbraio 1963, si tennero quindi i «combattimenti di Karate contro Muay Thai». Tre combattenti di karate del dojo di Masutatsu «Mas» Oyama (successivamente chiamnato Kyokushinkai, o, «associazione dell’estrema verità») si recarono allo stadio di boxe Lumpinee in Tailandia e affrontarono tre combattenti di Muay Thai. I tre karateka kyokushin erano Tadashi Nakamura, Kenji Kurosaki e Akio Fujihira (noto anche come Noboru Osawa). La squadra di Muay Thai consisteva in un unico autentico combattente tailandese.
Il Giappone vinse per 2-1: Tadashi Nakamura e Akio Fujihira misero KO entrambi i loro avversari con un pugno, mentre Kenji Kurosaki, che combatté contro il tailandese, fu messo KO con un gomito. Il solo giapponese sconfitto, Kenji Kurosaki, era all’epoca un istruttore di kyokushin piuttosto che un contendente e fu temporaneamente designato come sostituto del combattente scelto assente.
Nel giugno dello stesso anno, il karateka e futuro kickboxer Tadashi Sawamura affrontò il miglior combattente tailandese Samarn Sor Adisorn, venendo abbattuto 16 volte e sconfitto. Sawamura avrebbe utilizzato ciò che aveva appreso da quel combattimento per influenzare l’evoluzione dei tornei di kickboxing.
Il Noguchi studiò la Muay Thai e sviluppò un’arte marziale combinata che chiamò kickboxing, la quale assorbì e adottò più regole che tecniche della Muay Thai. Le principali tecniche di kickboxing derivano ancora da una forma di karate giapponese a pieno contatto in cui sono consentiti i calci alle gambe, il Kyokushin. Nelle prime competizioni, erano ammessi lanci e colpi per distinguere questa disciplina dalla Muay Thai, ma questa regola fu successivamente abrogata.
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La Kickboxing Association, il primo organismo di governo della kickboxing, fu fondata da Osamu Noguchi nel 1966, subito dopo. Il primo evento di kickboxing si tenne quindi a Osaka l’11 aprile 1966.
Tatsu Yamada morì nel 1967, ma il suo dojo cambiò nome in Suginami Gym e continuò a formare kickboxer per supportare lo sviluppo della kickboxing.
Il kickboxing ebbe un boom e divenne popolare in Giappone quando iniziò a essere trasmesso in TV. Nel 1970, la kickboxing veniva trasmessa in Giappone su tre diversi canali tre volte alla settimana. Le carte di combattimento includevano regolarmente incontri tra pugili giapponesi (kickboxer) e tailandesi (Muay Thai). Tadashi Sawamura era uno dei primi kickboxer particolarmente popolari.
Nel 1971 fu fondata la All Japan Kickboxing Association (AJKA), che registrò circa 700 kickboxer. Il primo commissario dell’AJKA fu Shintaro Ishihara, governatore di lunga data di Tokyo. I campioni erano presenti in ogni divisione di peso, dalla mosca alla metà. Noboru Osawa, praticante di lunga data del Kyokushin, vinse il titolo dei pesi gallo AJKA, che mantenne per anni.
Raymond Edler, uno studente universitario americano che studiava alla Sophia University di Tokyo, iniziò a praticare il kickboxing e vinse il titolo dei pesi medi AJKC nel 1972. Fu il primo non tailandese ad essere ufficialmente classificato nello sport della boxe thailandese quando, nel 1972, il Rajadamnern lo classificò al terzo posto nella divisione dei pesi medi. Edler difese il titolo All Japan più volte prima di rinunciarvi.
Altri campioni famosi includevano Toshio Fujiwara e Mitsuo Shima. Fujiwara fu il primo non tailandese a vincere un titolo ufficiale di boxe thailandese quando sconfisse il suo avversario tailandese nel 1978 allo stadio Rajadamnern, vincendo il campionato dei pesi leggeri.
Nel 1980, a causa degli scarsi ascolti e della scarsa copertura televisiva, l’età d’oro del kickboxing in Giappone ebbe improvvisamente termine. Il kickboxing non fu più trasmesso in TV fino alla fondazione del K-1 nel 1993.
Nel 1993, quando Kazuyoshi Ishii, fondatore del karate Seidokaikan, introdusse il K-1 secondo regole speciali del kickboxing (senza lotta con gomito e collo), il kickboxing tornò in auge. Tra la metà degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, prima del primo K-1, Kazuyoshi Ishii contribuì anche alla promozione del karate con i guanti come sport amatoriale in Giappone.
Il karate con i guanti si basava sulle regole del karate knockdown, ma con l’aggiunta di guantoni da boxe e il permesso di pugni alla testa. Di fatto, queste regole richiamavano il kickboxing orientale, con punteggio basato sugli atterraggi e sull’aggressività piuttosto che sul numero di colpi.
Con la crescente popolarità del K-1, il cosiddetto Glove Karate («karate con guantoni») divenne per un periodo lo sport amatoriale in più rapida crescita in Giappone.
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Negli anni Settanta e Ottanta, la kickboxing si espanse oltre il Giappone e raggiunse il Nord America e l’Europa. Fu durante questo periodo che si formarono molti degli organi governativi più importanti.
Per la kickboxing non esiste un unico organo di governo internazionale. Tuttavia, alcune organizzazioni internazionali di rilievo includono la World Association of Kickboxing Organizations (WAKO), la World Kickboxing Association, la Professional Kickboxing Association (PKA), la International Sport Karate Association, la International Kickboxing Federation e la World Kickboxing Network, tra le altre.
Di conseguenza, non esiste un unico campionato mondiale di kickboxing; i titoli dei campioni sono assegnati da diverse promozioni individuali come Glory, K-1 e ONE Championship. Gli incontri organizzati da diversi organi di governo seguono regole variabili, ad esempio permettendo l’uso delle ginocchia o del clinching, etc.
Nel Nord America lo sport aveva regole poco chiare, quindi kickboxing e karate a pieno contatto erano essenzialmente la stessa cosa. In Europa lo sport ha riscontrato un successo marginale ma non ha prosperato fino agli anni Novanta, anche a seguito dei film del kickboxeur belga Gianclaudio Van Damme, in particolare la fortunata pellicola marzialista Senza esclusione di colpi (1988), il film preferito del 45° presidente americano Donaldo J. Trump.
In Italia si registra la creazione negli anni Ottanta anche di un’arte marziale fusionale chiamata Kick jitsu, che univa tecniche della kickboxing a quelle del Ju Jitsu. con elementi provenienti anche dal pancrazio e dall’arte marziale mista coreana Hapkido.
La Kick Jitsu, disciplina riconosciuta dal CONI, è amministrata in Italia dalla Federkombat, cioè l’associazione italiana Kickboxing, Muay Thai, Savate e Shoot Boxe.
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Immagine di Joao Pelica via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial 2.0 Generic
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Sport e Marzialistica
La boxe oltre il sogno olimpico. Renovatio 21 intervista il pugile medaglia d’oro Roberto Cammarelle

Tre medaglie olimpiche (un bronzo ad Atene 2004, un fantastico oro a Pechino 2008 e un argento – preso in una finale molto, molto contestata – a Londra 2012), due medaglie d’oro ai mondiali, tre ori ai Giochi del Mediterraneo, qualche argento europeo e numerosi campionati italiani vinti. Un atleta, un uomo, che ha fatto della boxe la sua ragione di vita. Renovatio 21 ha incontrato Roberto Cammarelle al Centro Nazionale di Pugilato a Santa Maria degli Angeli, dove attualmente ricopre il ruolo di Direttore Tecnico del gruppo sportivo delle Fiamme Oro. Ne è seguita una lunga conversazione, attraversata dalle risate e dal buonumore del grande pugilista, che tocca i vari punti di una carriera stellare, dipinge un grande affresco scena del pugilato globale, racconta la prospettiva personale di chi arriva ai vertici della noble art. Prima dell’Olimpo c’è un sogno. C’è qualcosa anche dopo. Ce lo spiega direttamente il campione.
Il tuo incontro con questa disciplina sportiva avviene per caso, se non sbaglio.
Non ho nessun parente che mi ha avvicinato a questo sport. Io e mio fratello andammo in palestra con l’obiettivo di dimagrire, perché all’età di undici e dodici anni, eravamo alti, ma grassottelli e volevamo essere più in forma. Le alternative non erano molte, o facevi pesistica in palestra oppure una disciplina come la boxe. Il maestro di pugilato Biagio Pierri era un amico di famiglia e ci invitò a provare senza grandi garanzie sul fatto che potessimo dimagrire, ma di sicuro sarebbe stato divertente imparare questo sport.
Le prime volte che andavo in quella palestra ebbi l’effetto opposto, perché vedevo tutti questi che si menavano e avevano anche gusto nel farlo, ma io non capivo perché dei ragazzini si prendessero a pugni. «Ma chi glielo fa fare?», pensavo io. Poi mi sono messo in guardia davanti allo specchio, il sapersi muovere con le gambe nello spazio, portare i colpi e oltretutto sfidare mio fratello e sapersi pure difendere, per me è stata una prima rivelazione. Dovevo fare quello sport.
All’inizio non andavo bene, perché in guardia col sinistro avanti ero più lento rispetto a mio fratello. L’intuizione del mio maestro è stata quella di farmi cambiare guardia. Mi sono messo in guardia mancina – io sono destro naturale – e ho avuto una folgorazione: così potevo tirare in scioltezza sia di destro che di sinistro. La prima vittima fu proprio mio fratello [ride], perché dopo che cambiai guardia, non ci capiva più nulla e ha iniziato a prenderle! Lui ha debuttato nelle gare prima di me, ma non ha mai superato i regionali, invece l’anno dopo io sono andato agli interregionali.
Vinco l’incontro degli interregionali, vado ai nazionali e vinco anche lì. Dopo tre match divento campione italiano. Per quel traguardo il mio maestro mi diede cinquecentomila lire come premio. Era mezzo stipendio di un operaio. Facevo questo sport con leggerezza e all’inizio era tutto divertimento, ma volevo diventare il numero uno. Fui convocato per la prima volta in nazionale a sedici anni. Andare in palestra e osservare i grandi allenarsi che vedevo in televisione era meraviglioso.
Chi c’era a quell’epoca?
Un mito per me – e mi ci sono allenato anche insieme – era Giacobbe Fragomeni. A quel tempo faceva parte della selezione che poi andò alle Olimpiadi di Atlanta ’96. Lì nasce il mio sogno olimpico.
Uno sogno che nasce da lontano, ma avevi già le idee abbastanza chiare.
Sono arrivato in nazionale con leggerezza, ma con la forza delle vittorie, perché avevo vinto tre campionati italiani di fila. Ero una giovane speranza. Pensavo di essere pronto e arrivo all’ultima qualificazione olimpica per andare a Sidney 2000 con speranze concrete di poter staccare quel biglietto per l’Australia. In semifinale incontro un macedone – che avevo mesi prima battuto – ma lo affronto con superficialità e assegnano a lui la vittoria. Ero a un passo dal sogno, ma non ce l’ho fatta.
Ho sempre sofferto di dolori alla schiena e arrivo a questa qualificazione olimpica con già un’operazione addosso. Dopo questo intervento chirurgico sono stato fermo quasi un anno. Non andare ad un’olimpiade significa riprogrammare quattro anni di lavoro, ma io ero ancora molto giovane e non ho avuto grossi problemi. Nel 2000 abbandonai Biagio Pierri e feci il concorso per entrare nel gruppo sportivo delle Fiamme Oro.
Dalla tua avevi anche l’entusiasmo della giovane età e una carriera da scrivere.
In quel periodo c’è stato il passaggio di direzione tecnica con Nazareno Mela e Francesco Damiani. Riprogetto la mia nuova scalata, e passo ai supermassimi. Nell’ultimo periodo facevo fatica a rimanere nei limiti di peso dei massimi. Nonostante cedessi qualche cosa come fisico, ero sicuramente uno dei più veloci. Fu un periodo duro e triste per me, perché emerge Aleksandr Povetkin, il fortissimo pugile russo. La mia caratteristica della velocità con lui viene meno, perché lui, oltre che la velocità, ha anche la quantità [ride]!
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Ti sei scontrato più volte con lui.
Cinque volte, di cui due finali europee e la semifinale olimpica. La Russia – è inutile nasconderlo – era all’interno di una geopolitica sportiva importante ed era dura riuscire a vincere contro uno che dovevi quasi per forza mettere al tappeto se volevi avere la meglio. A me batteva ai punti, mentre agli altri prima del limite. Detto ciò, secondo me era battibile.
Prendi coscienza dei limiti dell’avversario.
Lo incontro anche nella finale dei campionati europei in Russia. Quello era l’ultimo match e i russi avevano già fatto man bassa di medaglie d’oro, ma non volevano perdersi l’ultimo oro. A venti secondi dal termine eravamo pari. Lui fa una combinazione che ancora oggi faccio fatica a spiegarmi, e gli entrano quattro punti. Per me fu dura.
Immagino.
Se guardo il lato positivo, il primo anno da supermassimo sono vice campione europeo. Rivinco i campionati italiani e sono ancora in nazionale, ma mi esce un’altra ernia del disco. Mancava troppo poco per le olimpiadi, quindi decidemmo di sacrificare il 2003 per esser poi pronti nel 2004.
La Federazione ci credeva in te.
La Federazione mi ha sostenuto e non potevo rinunciare al mio sogno olimpico. Nell’agosto del 2003 mi sono operato e non andai al mondiale, ma a dicembre vinsi in scioltezza i campionati italiani.
Per te sembra che i campionati italiani siano una formalità.
È stato un grande onore e una grande responsabilità parteciparvi e non ho vi rinunciato neanche quando stravincevo in ambito internazionale, perché quando tornavo a boxare in Italia volevo che fosse chiaro il concetto che io ero il più forte. Vinco all’estero perché sono il più forte in patria. Ad inizio 2004 ci furono i campionati europei per la qualificazione olimpica. Arrivo in finale e mi trovo Aleksandr Povetkin. Rispetto all’altra finale in cui ci scontrammo, ero convinto di aver vinto nettamente. Politicamente è protetto, tant’è che lì in Croazia il verdetto fu fischiatissimo dal pubblico.
Dopo qualche mese parto per Atene 2004. Nel primo incontro finisco la terza ripresa sopra di diciotto punti. Per soli due punti devo fare ancora un minuto e lo affronto con ingenuità. Peccato che di fronte a me avevo un nigeriano mastodontico che a trenta secondi dalla fine mi colpisce bene e quasi vado al tappeto.
Fortunatamente suona il gong e arrivo alla fine del match. Il mio maestro mi guarda e mi dice: «se c’erano altri dieci secondi era finita per te». Nel match seguente mi scontro con un ucraino vecchia scuola e l’asticella si era alzata, ma arrivo in semifinale. Medaglia garantita. In semifinale incontro Aleksandr Povetkin e ammetto la sconfitta [ride].
Una medaglia di bronzo al tuo esordio olimpico, non è poi tanto male alla fine. Poi c’è un siparietto curioso. Al momento che rientri a Casa Italia per prenderti la gloria e le interviste della stampa, Stefano Baldini vince l’oro nella maratona e inevitabilmente il clamore mediatico si sposta su di lui.
Chi vince una medaglia ha il suo momento di gloria e La Gazzetta dello Sport ti mette in prima pagina. Arrivo a Casa Italia con la mia medaglia, incontro i giornalisti, ma Stefano Baldini vince l’oro nella maratona e tutti si fiondano verso di lui. Tant’è vero che non ho la foto su La Gazzetta dell’Olimpiade 2004. Vedendo Baldini ho capito che l’oro è la cosa più importante.
Aleksandr Povetkin pare essere la tua bestia nera.
Al mondiale del 2005 Aleksandr Povetkin già è passato professionista, ma trovo un altro russo in semifinale. L’incontro fu meraviglioso, perché sembravamo due pesi mosca per quanto eravamo rapidi! Fine del secondo round 23 a 22 per me. Nella terza e quarta ripresa ho però pagato la mia non perfetta preparazione atletica e ho perso. Persi per quattro punti di svantaggio.
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In quell’anno vinci anche i Giochi del Mediterraneo.
Li vinsi a mani basse e devo dire che il 2005 è stato positivo, anche se, finito il regno di Aleksandr Povetkin, sono stato sconfitto da un altro russo [ride]!
Atene 2004 per te fu la prima olimpiade. Che clima si respirava a Casa Italia e nel villaggio olimpico?
La partecipazione olimpica è meravigliosa per uno sportivo. Fai un torneo insieme al gotha dello sport e la parte più bella, secondo me, è la cerimonia di apertura. È lo spettacolo nello spettacolo e tu sei il protagonista. Mentre aspettavamo, tutta l’Italia si raduna insieme e il campione di pallavolo Andrea Giani mi dice: «Ti seguo, so che sei forte». Io sono nato e cresciuto mangiando il Maxicono Motta con la pubblicità di Andrea Giani! Per me quella fu la vera vittoria [ride]!
C’era un bel clima mi pare di intuire.
Quando stai all’olimpiade hai un grosso senso di appartenenza. Poi c’è la gara olimpica vera e propria. Negli anni è anche un po’ migliorata l’atmosfera che c’è nei nostri palazzetti, però nella mia epoca, era molto freddo il clima. Ricordo un impatto – per me inedito – che mi fece venire i brividi: prima del match si apre un sipario, un tappeto rosso davanti e una marea di fotografi che immortalano quel momento mentre tu vai verso il ring seguito dalla telecamera. Sali sul ring, alzi gli occhi e vedi un maxischermo con la tua faccia che va in mondovisione. Tanta roba. Avevo già fatto due campionati europei, ma nulla a che vedere con questo tipo di impatto mediatico.
Questo clamore mediatico ti ha creato più tensione del solito?
Assolutamente, perché tu pensi di fare una grande cosa, ma poi quando la vai a fare la realtà supera sempre la tua aspettativa. Dopo quell’esperienza il segreto per Pechino 2008 è stato: divertirsi alla cerimonia, ma quando poi si va in gara sul ring si deve combattere, come in qualsiasi altro torneo. A tal proposito nel 2006 un’importante produzione televisiva decide di seguire il pugilato e ci segue fino ai campionati europei di quell’anno. Durante il percorso di avvicinamento all’europeo emerge la mia qualità di capitano, vinco sempre, ma una volta arrivati all’evento clou, ai quarti di finale perdo con un russo.
Strano scherzo del destino.
La Federazione pensa che io abbia un problema con i russi e allora decidono di assumere un allenatore russo, Vasiliy Filimonov, ma il primo impatto non fu dei migliori e di concerto con la Federazione abbiamo deciso di prendere il mio preparatore atletico Ennio Barigelli, perché avevo bisogno di un allenamento differenziato, viste le mie problematiche con la schiena. Poi abbiamo convissuto bene con bei risultati. Ennio Barigelli è poi purtroppo venuto a mancare e ho dovuto trovare la quadra insieme a Filimonov.
Filimonov iniziò ad allenarti l’anno dei Mondiali a Chicago nel 2007, giusto?
Si.
In America come è percepita la boxe rispetto all’Italia?
La boxe lì è tutta un’altra cosa, quasi un modo di vivere. Noi arrivammo qualche giorno prima dell’inizio del mondiale e andammo nelle palestre lì intorno e peraltro non sono poi così meravigliose come le nostre, però la boxe è spettacolo alla fine. Per loro sei un attore che deve interpretare uno show. Nonostante quando io mossi i primi passi nel pugilato imperversava Mike Tyson, il mio mito vero era Muhammad Alì e proprio Alì era il padrino dei mondiali di Chicago. Aver avuto l’opportunità di vederlo da vicino – ho la pelle d’oca solo a ripensarci – per me è stato meraviglioso, tanto più che io ero la sua categoria.
In semifinale ho trovato un russo, ma fortunatamente non stava bene e non ha potuto affrontarmi. Vinco i campionati mondiali nettamente davanti a Muhammad Alì. È stato incredibile! Avrei potuto anche ritirarmi [ride]! Beh, comunque poi c’erano le olimpiadi, mica potevo smettere?!
Direi!
Due anni dopo il mondiale si gioca a Milano. Nel frattempo un procuratore – di cui non ti farò il nome – mi dà la possibilità di passare professionista. Mi offrì trentacinque mila euro all’anno. Guadagnavo di più in Polizia, quindi non vedevo un valido motivo per passare professionista. Oltretutto volevo fare prima le olimpiadi e poi, in caso, ne avremmo riparlato.
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Immagino che averti da campione del mondo era importante per la manifestazione mondiale. Tanto più che la sede scelta era a Milano, ma prima c’è Pechino 2008.
La cerimonia d’apertura a Pechino è stata bellissima. All’interno della mensa olimpica trovi di tutto. Ricordo che c’era Ronaldinho che non riusciva mai a mangiare perché tutti gli chiedevano la foto. Una delle cose meravigliose che mi è capitata, è che ho mangiato di fronte a Usain Bolt. Anche questa è l’olimpiade.
C’è un’atmosfera bellissima.
Meraviglioso! Però oltre al cibo buono, ci sono anche i fast food. Era in fila in uno di questi, mi pare fossi ad Atene 2004, e davanti a noi c’erano i calciatori, tra cui c’era De Rossi. Io gli bussai sulla spalla e gli dissi: «Mi prendi un panino anche a me?». «Ci mancherebbe altro! E chi te dice de no!» [ride]!
Vorrei ben vedere!
Sono cose belle questi incontri e questo ambiente che si crea. E ciò fa parte del bello delle olimpiadi, al di là delle gare ovviamente.
L’audience delle cerimonie di apertura è incredibile. È l’evento sportivo più visto al mondo. Raccoglie circa due miliardi e mezzo di telespettatori.
Esatto.
Tornando al pugilato, ci racconti la tua Pechino 2008?
Nel primo incontro sfido un croato e lo batto facilmente. Prima dell’inizio dei match, mi ricordo che Mario Mattioli – giornalista Rai – mi chiese: «Che ti aspetti da questa olimpiade?». «Mario, da campione del mondo sono qua per vincere l’oro». Ricordiamo che al Mondiale di Chicago io vinsi l’oro, Clemente Russo vinse l’oro, Domenico Valentino vinse l’argento e Vincenzo Picardi vinse il bronzo. Fu un mondiale meraviglioso. Quella generazione si è portata a casa ben quattro medaglie.
Tanto di cappello.
Tornando alle Olimpiadi, il secondo match l’ho gestito perché non volevo forzate troppo e la mia mobilità del ring ha iniziato un po’ a rallentarsi, ma non la velocità. Finì otto a quattro. Ero tranquillo e rilassato, ma il coach Damiani mi rimproverò: «Non va bene. Tu sei campione del mondo, gente così la devi spazzare via. Non devi vincere, devi stravincere».
Il caso volle che il mio compagno di stanza e amico vero, Domenico Valentino, perde. A quel punto fa il turista a Pechino e acquista una bicicletta, ma io gliela sequestro. Da quel momento la mia Olimpiade ha una svolta significativa, perché non devo più camminare. Girando in bici il mio fastidio alla schiena dovuto al camminare troppo sparisce. L’avversario successivo è un inglese che avevo già battuto, ma comunque mi riguardo i suoi incontri per studiarlo al meglio. Prima del match vado verso il suo angolo e gli dico: «Oggi vinco io!». Alla seconda ripresa l’arbitro chiude il match. Una vittoria straordinaria.
Immagino che dopo una vittoria così netta Damiani si sia dovuto ricredere.
Damiani era contento, ma c’era molta tensione. La finale nostra era l’ultima gara dei giochi. C’era molto nervosismo, perché sembrava già tutto apparecchiato per la vittoria di Zhilei Zhang, ma io ero sicuro: «Come fanno a pensare che io possa perdere?». Tra l’altro Zhang lo avevo già incontrato in Italia e battuto. È un atleta di oltre due metri, mastodontico, ma è lento. La mia qualità era la velocità, quindi ero molto tranquillo. Prima di salire sul ring di Pechino, si aprono le porte degli spogliatoi, io lo guardo e dico: «Ti ricordi? Vinco io anche stavolta!».
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Negli istanti che ti separano dall’uscita dello spogliatoio a quando sali sul ring – nonostante l’importanza del match – eri moderatamente tranquillo.
Si, perché dopo l’esperienza ateniese ho cancellato tutto quello che era il contorno della finale.
Ti sei isolato da tutto e tutti.
Non esisteva nulla fuorché io e il mio avversario con le nostre rispettive squadre.
Ho un ricordo nitido di quell’incontro, lo vidi in diretta.
Me lo sono rivisto più volte, e ho visto quello che ho fatto. Entrato nel palazzetto io avevo soltanto il match. Il pubblico era tutto contro di me, ma alla fine mi hanno applaudito tutti.
Damiani ha esultato quasi più di te!
Damiani era contentissimo perché da tecnico è riuscito a vincere quell’oro che gli mancò per un soffio da atleta.
Che rapporto avevi con Damiani?
Molto buono, però ha un carattere particolare. Abbiamo anche molto litigato.
Però quel matrimonio professionale ha portato grandi risultati.
C’era grande rispetto e grande fiducia. Il fatto che lui litigava un po’ con tutti, era un suo vanto, però ti dice sempre le cose in faccia. A volte è molto crudo, ma è sincero. E siccome io non sono da meno, ogni tanto tanto c’è stata qualche discussione [ride].
Il tuo oro olimpico arriva vent’anni dopo l’oro di Giovanni Parisi a Seoul ’88.
Grande Giovanni Parisi. Insieme a Fragomeni, per me è un altro mito. Da piccolo sono andato spesso a Voghera nella palestra dove si allenava Parisi e l’ho incontrato diverse volte. Con Fragomeni facevo lo sparring e ho avuto la fortuna di farlo quando avevo solo quindici anni. Il livello era alto. Ero un talento già da piccolo. Uno che ha segnato molto la mia carriera è stato Nazareno Mela, con lui sono diventato molto veloce. Mi ha fatto capire la catena cinetica che andava sfruttata in una certa maniera che, insieme alla tecnica, fanno la differenza. Nell’apice della mia carriera con lui, portavo cinque colpi efficaci in sette decimi di secondo.
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Vedendo molti tuoi match, una tua peculiarità è proprio la rapidità. Come del resto si vede anche nella finale olimpica vinta.
Lì è stato l’apice del successo e i giornali e telegiornali aprono con la mia vittoria.
Finalmente direi.
Ho vissuto il clamore mediatico dopo essere sbarcato in Italia, perché tutti mi riconoscevano per strada.
Penso che ti abbia fatto molto piacere.
Se la gente mi identifica con il mio sport, io ho vinto.
Dopo quell’oro ci sono stati altri prestigiosi traguardi.
In accordo con il mio staff, decidemmo di cambiare la mia preparazione fisica e il mio modo di combattere, perché non riesco più a saltellare come prima. Stando più fermo devo essere più efficace; devo imparare a fare male, molto più male. Tra l’altro il sistema di conteggio punti a macchinette premia molto di più i colpi forti.
Leggevo in una tua intervista, che tu prediligi vincere i match ai punti che ko, o mi sbaglio?
Assolutamente, però i colpi devono essere efficaci per ottenere il punto.
Arrivano finalmente i mondiali del 2009 a Milano. Che ambiente hai trovato? Combattere in una manifestazione così importante a pochi chilometri da dove sei nato creda sia un’emozione particolare.
C’era Mediaset con i suoi giornalisti di punta. Molto bello.
Io me lo ricordo bene perché giustappunto lo vidi in televisione.
Il fatto che lo trasmetteva Mediaset è stato un upgrade importante.
È molto importante per una disciplina come la boxe avere dei passaggi televisivi sulle reti più viste.
Oserei dire fondamentale. Tornando alle gare, feci sei match.
A ridosso dei mondiali milanesi, ricordo un tuo bel KO che hai inflitto a un pugile cubano.
Mentre lui porta il montante io porto il gancio e lui va al tappeto. Ero pessimista sul match, però ricordo bene quella sera: misi i guantoni e li sentivo aderenti come un guanto. Stasera ci facciamo male. Come poi avrai notato la differenza tra prima e dopo Pechino, io inizio a essere un attaccante.
Sei più stabile sulle gambe.
Inoltre andavo più verso l’avversario, paravo, rientravo, giocavo anche d’anticipo.
Il momento del ko ho dovuto rivederlo più volte per capire bene il tuo colpo. È troppo veloce per vederlo a occhio nudo in tempo reale.
Per capirlo lo devi vedere a rallentatore.
Si fa fatica a vedere quando parte il colpo.
Neanche lui l’ha visto [ride]! Avevo questa combinazione gancio-gancio che in quel momento mi è venuta d’istinto. Poi quel mondiale è stato molto bello e i miei match sono state tutte vittorie nette. La finale è stata emozionante perché inizio piano e dopo la prima ripresa sono sotto. Seconda ripresa pari e poi vinco facile. È stata una vittoria emozionante.
A livello emotivo, quale dei due mondiali ti emozionato di più?
Onestamente faccio fatica a dirtelo. Quello in casa è stato perfetto sotto tutti i punti di vista, in particolare dal punto di vista organizzativo. Di contro ti dico che a me l’America mi affascina da sempre, quindi puoi ben immaginare la gioia nel combattere a Chicago. Dal 2007 al 2009 ho fatto settanta incontri senza una sconfitta. Tre anni memorabili.
Complimenti sinceri!
Grazie! A quel punto, dopo l’oro mondiale, volevo smettere perché di fatto non avevo più nulla da vincere e oltretutto le olimpiadi di Londra erano ben lontane dal venire. Tra l’altro nel 2009 vinsi di nuovo i giochi del Mediterraneo. Avevo vinto tutto quello che potevo vincere.
Però l’idea di andare a Londra nel 2012 non l’avevi ancora maturata.
No. Volevo smettere, ma rimanere nell’ambiente per dare una mano agli altri pugili. Nel 2011 rifaccio l’europeo e arrivo in finale, ma perdo con il russo Magomed Omarov.
I russi sono una tua maledizione personale.
Chiamarono uno psicologo pensando che io avessi dei problemi con i pugili russi. Ma quali problemi! I russi sono forti e politicamente – nel mondo della boxe intendo – sono potenti. Non sono imbattibili, ma io facevo fatica con loro [ride]. Oltre all’europeo, a fine anno c’è il mondiale che determinava la qualificazione olimpica. Io non avevo aspettative, ma alla fine mi son detto: «Sono Roberto Cammarelle, vice campione europeo». Da lì ho iniziato e riprogrammare le olimpiadi in maniera seria.
Ti è tornata la determinazione di prima.
Ho due anni e ce la posso fare. Al mondiale prima di Londra 2012 però perdo ai quarti di finale contro una giovane speranza, tale Anthony Joshua. Io non avevo perso, anzi, ti dirò di più, ho vinto più quel match che quando lo incontro in finale alle olimpiadi di Londra, ed è tutto dire. Damiani anche lì mi fece un cencio, perché secondo lui non mi ero impegnato abbastanza. Dopo il match con Joshua gli dissi: «Va bene che ho perso, ma vedi di andare in finale perché voglio partecipare alle olimpiadi» [ride]. Anthony arrivò in finale e così mi si sono aperte le porte per Londra 2012.
Sei entrato dalla porta di servizio.
Esatto! La preparazione va bene, ma poco prima della partenza per Londra, mi blocco la schiena. Damiani era sfiduciato, ma io gli dissi: «Io voglio venire per vincere».
Sei subito tornato in modalità vincente.
Era la mia terza Olimpiade, oltretutto non distante da casa.
Come la valuti dal punto di vista sportivo invece?
Non arrivavo con i favori del pronostico, ma ero pur sempre Roberto Cammarelle. Il primo match con un venezuelano lo vinsi 18 a 10. Ho vinto bene, ma ero preoccupato perché questo qua non mi ha dato nemmeno dieci cazzotti e non riuscivo a capire come aveva fatto a fare 10 punti. Il match seguente fu contro un marocchino molto bravo e girava voce che una medaglia sarebbe stata vinta da un paese africano prima o poi. E lui era l’ultimo africano in gara. Tu stai a vedere che perdo, eh… proprio a me doveva capitare [ride]! Se non fosse stato per l’arbitro che gli fa un richiamo ufficiale penalizzandolo di due punti, io per i giudici avevo perso. In semifinale vinco contro l’azerbaigiano campione del mondo [Magomedrasul Majidov, ndr] e credo di aver fatto una delle prestazioni più belle della mia carriera. E così mi ritrovo in finale dopo quattro anni.
Per me la finale che disputi contro Anthony Joshua è oro, ci tengo a dirlo, anche se, ahinoi, il risultato dice diversamente.
Lo so. Ero convinto di essere superiore al mio avversario e quindi sono salito sul ring molto tranquillo, anche se sapevo delle pressioni che c’erano. L’inglese giocava in casa, non ce lo dimentichiamo.
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Al tuo angolo c’era sempre Damiani.
Assieme a Raffaele Bergamasco. Facemmo l’analisi dei match dell’avversario la sera prima. Avevamo studiato un piano tattico che secondo me aveva funzionato. L’errore che posso imputarmi in quella gara è che il primo round faccio molto bene e lo vinco di un solo punto. Il secondo round, che secondo me ho fatto meno bene, guadagno altri due punti e sto tre punti sopra. Recuperare per lui è quasi impossibile. Avrebbe dovuto letteralmente ribaltare il match. Rivedendo più volte quell’incontro, mi sento di dirti che ho vinto anche l’ultima ripresa. Vogliamo fare che finisce in pareggio? Mi può anche andare bene. Perdo invece di tre punti, ma se io vinco due riprese su tre, è proprio una questione di matematica, non posso perdere.
Lo vidi in diretta e la delusione e l’amarezza da spettatore fu enorme.
Lui era strafottente anche se non era sicuro di aver vinto dopo il gong.
L’istante in cui è stato proclamato vincitore Anthony Joshua, cosa ti è passato per la testa?
Si vede anche in video, finisce il match e io ho una sensazione non bella perché in quell’ultima ripresa c’era stato anche il fattore del pubblico che aveva super pompato l’idolo di casa. Vado all’angolo scuotendo la testa, mentre invece il mio staff stava già festeggiando e gli dissi: «Finché non danno il verdetto state calmi». Quando andiamo al centro del ring, passa più tempo del previsto, perché siamo in pareggio e devono ricalcolare tutto.
Lì ho iniziato a capire che c’era qualcosa che non andava e pure il mio angolo si stava preoccupando. Quando hanno detto il suo nome – quello del vincitore – ti confesso che ho avuto una grande delusione. In quel momento ho pensato all’errore storico che stavano facendo e il togliermi la medaglia d’oro era togliermi la fama che mi spettava. Ho tre medaglie olimpiche e credo che nel breve non ci sia nessuno che possa battere questo record, ma un doppio oro sarebbe stato un atto definitivo di portata storica.
Sarebbe stato meritato.
È stata dura da accettare. Finito il match, gli inglesi si sono pure arrabbiati perché hanno dovuto attendere oltre venti minuti per la cerimonia di premiazione, causa legittimo ricorso. Con Anthony Joshua ci siamo incontrati all’antidoping e ci siamo scambiati le nostre opinioni e lui sosteneva che nell’ultima ripresa aveva un po’ recuperato. Io gli risposi: «Lascia perdere, non hai recuperato nulla. Prenditi l’oro e sta’ zitto». Poi ci siamo scambiati la canottiera in segno di riconoscenza e fair play.
Quella fu una delusione, ma di successi ne hai collezionati tanti.
Un lato positivo è che avevo una medaglia di bronzo e una d’oro, mi mancava l’argento. Magra consolazione, ma poteva andare peggio [ride]! Il Regno Unito, essendo paese ospitante, aveva grandi aspettative per i propri atleti olimpici e di fatto, chi organizza, viene sempre un po’ aiutato, anche in maniera indiretta.
Tu sei stato un esempio per la tua carriera sportiva, dove hai ottenuto grandi risultati, grandi vittorie e non hai mai sfruttato questa tua popolarità per emergere nel mainstream televisivo partecipando a qualche reality di dubbio valore etico.
Un po’ per carattere e poi a me piace emergere come sportivo. Ho partecipato a Ballando con le stelle, perché chiamano anche uno sportivo a ballare. Altri reality non li concepisco. In Ballando con le stelle ero lo sportivo che si applicava in un’altra disciplina sportiva, perché il ballo è uno sport. Rientrava nelle mie competenze.
Fu divertente?
Io subentrai a Teo Teocoli e feci la metà delle puntate. Fu impegnativo. Per recuperare quella metà che mi mancava feci una preparazione di due settimane piene con la ballerina più brava che avevano, Natalia Titova. Un allenamento come fa uno sportivo.
Oggi alcuni personaggi sportivi, grazie a un uso massivo dei social, hanno una sovraesposizione mediatica a prescindere dalla loro attività principale che è lo sport. La tua fama invece è dettata esclusivamente dai tuoi risultati sul ring.
In una preparazione pre-mondiali a Bergamo, quando scendiamo dal pullman ci sono delle signore che urlano a Clemente Russo: «Dovevi vincere tu e non Karina Cascella!», riferito al programma televisivo La Talpa dove ambedue avevano recentemente partecipato. Allora io ho fatto questa riflessione e ho detto a Clemente «dopo quindici anni di pugilato, diversi risultati importanti, ti ricordano per questo?». Lui mi ha risposto: «lascia perdere. L’importante è che se ne parli». Sempre in quei giorni ci stavamo allenando fuori dall’hotel e qualcuno esclama: «quello è Clemente Russo, quello che ha vinto le Olimpiadi!». Io mi fermo e la correggo: «No signora, lui ha vinto la medaglia d’argento». «Va beh, è uguale». «No signora, sennò io che l’ho vinto a fare l’oro?!». Questo è un po’ il concetto. Lui aveva la fama pubblica perché l’aveva ottenuta grazie a partecipazioni a programmi nella tv generalista. Ma il risultato sportivo? Ecco che va in secondo piano.
Clemente Russo è un ottimo pugile.
Certo! È subito dietro di me come palmares di medaglie. Io ti parlo di quello che percepisce la gente. Spesso l’apparenza sovrasta la sostanza. Non mi piace molto questa cosa e non mi rappresenta.
Se la boxe tornasse alla sua essenza di popolarità grazie a più passaggi televisivi, ecco che forse, questo problema si risolverebbe da solo.
Si scrive sempre di meno di pugilato, tu sei una mosca bianca. Una volta c’erano giornalisti che si occupavano quasi esclusivamente di pugilato.
I tempi sono cambiati, ma chissà non tornino.
La ruota gira, ma dobbiamo farla girare! Dobbiamo aiutare questo sport ad avere più visibilità con personaggi che riescano a calamitare sempre più pubblico. Abbiamo gente valida, ma non passando professionisti, hanno meno seguito di pubblico. Fa più notizia scrivere del calciatore che litiga con il suo allenatore, che di un evento agonistico di boxe. Il volume di soldi che gira nel calcio non ha paragone con altri sport. Su un giornale sportivo di trenta pagine, venti sono solo di calcio e un’azienda sceglie ovviamente di sponsorizzare il calcio, perché finisce in una di quelle venti pagine.
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A proposito di esposizioni mediatiche. Ci sono molti youtuber che espongono e spiegano tecniche di autodifesa e di lotta. I ragazzi, che a loro volta stanno parecchio tempo incollati allo smartphone, apprendono da questi qua, ma credo sia un apprendere passivo. Tu cosa ne pensi?
È uno dei mali delle nuove generazioni. Vedono queste immagini, pensano di averle assimilate e quando tu vai a proporgli dei lavori pensano di saperne più di te, scavalcando la figura del tecnico. Quando uno arriva in Nazionale, deve sapere che i tecnici sono i migliori. Deve pensare che siano così e non il contrario. Molti ragazzi, oggi, hanno più presunzione e meno umiltà. Non si rispetta l’autorità e sono difesi troppo spesso dai loro genitori.
Ci sono ragazzi che arrivano da voi un po’ troppo esuberanti?
Noi qua stiamo già ad alto livello, vengono qua che sono tra i migliori in Italia pensando di essere già molto forti, ma poi arriva una squadra, magari tra le più scarse, e vanno al tappeto. Nessuno mette in dubbio il loro valore, ma c’è sempre tanto da fare per crescere. I talenti ne abbiamo, non fraintendermi.
Quanto è importante per un atleta il sostegno delle Fiamme Oro?
I gruppi sportivi in generale ti permettono di fare questo sport come un professionista. Io mi alzo la mattina e penso solo a quello. Uno che sta in una palestra civile a una certa età dovrebbe anche pensare quale sarà il suo futuro in caso non diventasse un campione. Molti atleti rimangono nel nostro ambiente come tecnici.
Hai una carriera veramente invidiabile.
Nel 2014, proprio grazie alla Polizia, sono riuscito a studiare e a diventare una persona migliore.
Per un atleta vincere un’Olimpiade è il massimo, ma a volte non c’è sempre un’adeguata corrispondenza economica per una vita spesa a raggiungere un obiettivo così prestigioso, che arriva dopo anni di duri sacrifici. Ci sono sport che hanno un’esposizione mediatica notevolmente maggiore e gli atleti, anche senza alcun tipo di risultato, guadagnano molto di più penso al calcio ovviamente.
Il problema non è neanche economico, ma è di trattamento. Quando uno vince le Olimpiadi, è come un giocatore di serie A, anzi forse pure di più. Dovrebbe avere la stessa riconoscenza mediatica quantomeno. Per la medaglia d’oro ci spettano centoquaranta mila euro – dati ufficiali del Coni – mentre un campione di calcio guadagna qualche milione di euro all’anno.
Non c’è gara. Anthony Joshua per esempio, al debutto da professionista, ha riempito Wembley con novantamila persone, perché era campione olimpico. Questa è la mentalità che a noi manca. Ora tu puoi pensare: «Perché non sei passato anche tu professionista?». Se io lo avessi fatto, sarei stato bravo se fossi riuscito a radunare in un palazzo dello sport otto o dieci mila persone al massimo. Capito la differenza di numeri?
È più importante la preparazione fisica o la preparazione mentale per un pugile?
Il bello del pugilato è che prima di tutto è un incontro tra due menti, però l’aspetto fisico è determinante. Un buon atleta allenato, senza testa, non vince. Un atleta non allenato, ma con la testa, può fare un buon match, ma in un torneo non può andare avanti. Le due cose devono andare di pari passo.
C’è il rispetto nel mondo della boxe?
Oggi credo ce ne sia ancora di più di prima. Ai miei tempi ci guardavamo più in cagnesco. Vedo più collaborazioni anche tra le Nazionali e ci sono più scambi, ma c’è sempre tanto agonismo perché tutti vogliono vincere.
È un cambio di mentalità importante.
Si, perché rende questo mondo più bello e più vivibile.
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Che consiglio daresti alle nuove generazioni?
Il consiglio è quello di crederci per davvero in quello che si fa. Quando ci si scontra con la realtà, è dura, perché la realtà significa sacrificio, dolore, sopportazione. Le sconfitte vanno analizzate e devono essere motivo di crescita. Io su duecentotrenta incontri ho solo venti sconfitte, ma me le ricordo tutte molto bene. Di cui dieci le posso anche contestare [ride]! Una sconfitta per me è una delusione forte, quasi un lutto, che non vuoi più che si ripeta. Perdere fa male e ricordarsi il dolore è importante, perché significa crescere. Invece nelle generazioni nuove vedo che c’è la voglia di voltare pagina troppo in fretta dopo una sconfitta, scaricando su altri l’alibi della sconfitta.
Prima di salire sul ring avevi paura?
Ci deve essere un timore reverenziale, perché ti tiene vigile. Prima di tutto perché non giochiamo a calcio, bensì è uno scontro fisico dove l’obiettivo è colpire l’avversario. Chi abbassa la guardia mentale, chi abbassa il livello d’attenzione, è quello che le prende.
Devi avere sempre la massima attenzione e il livello alto lo mantieni proprio se hai il timore che l’avversario possa colpirti. Devi inoltre avere un super-ego: io sono il migliore, tu non mi puoi toccare. Io ho usato sempre questa filosofia.
Poi c’è l’oggettività, come quando capisci al primo secondo che il tuo avversario è nettamente inferiore, e non potrebbe mai toccarti. Io sono stato sempre riconosciuto come una persona buona e corretta e in quei casi non ho forzato troppo la mano.
Mi ricordo un pugile sloveno, nel 2009 a Milano, che non mi portava neanche un colpo e l’arbitro richiamava me perché portavo colpi leggeri, in quanto lui pareva non riuscisse proprio a combattere. L’ho portato ai punti, e ho vinto ovviamente. Dopo il match, accompagnato da suo padre, mi ha detto: «per me è stata un’emozione combattere con te. Ho il tuo poster in camera». Questa cosa mi emozionò non poco e lì ho capito perché non portava i colpi.
Tra i tanti match che hai vinto, mi ricordo di un tuo fulmineo KO dopo pochi secondi. Meraviglioso!
Ai Mondiali di Milano contro un bielorusso che tra l’altro era vice campione olimpico ad Atene 2004.
C’è amicizia nel vostro mondo, tra pugili intendo.
Sì! Tra quelli della stessa categoria è un po’ più difficile, perché prima o poi ci si può affrontare. Ad esempio con Daniel Betti abbiamo fatto i primi due anni di massimi insieme e l’ho sempre battuto [ride]. Poi io sono passato ai supermassimi, ma siamo sempre amici, anche perché abitiamo nella stessa città. Con coloro che ci ho condiviso il percorso olimpico, siamo come fratelli. Con Clemente siamo amici, anche se ci fu un periodo in cui ci siamo un attimo allontanati per motivi di lavoro. Lui adesso è tornato nel giro della Nazionale e ci frequentiamo di più.
Grazie per la bellissima chiacchierata e viva la boxe!
Sempre! Grazie a te.
Francesco Rondolini
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