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Cina

I «10 comandamenti» di Pechino sulla morte e successione del Dalai Lama

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Vietate foto, immagini o attività che possano minare «l’unità nazionale» o promuovano una «ideologia separatista». Il governo cinese da tempo vuole controllare la scelta del futuro leader spirituale tibetano. In risposta, l’88enne Tenzin Gyatso fa sapere di godere di buona salute e voler «vivere per più di 100 anni». Il mistero irrisolto della sorte del Panchen Lama.

 

I 10 comandamenti di Pechino per la morte del Dalai Lama. Una lista di direttive emanate dalla leadership comunista cinese e indirizzata a monaci e abitanti della regione tibetana, in previsione del decesso della massima guida spirituale (e fra i nemici giurati del dragone).

 

Sono contenute in un cosiddetto «manuale di comportamento» che sta iniziando a circolare sulle chat e i social della Cina. Un vademecum di «cose da non fare», per soffocare sul nascere manifestazioni di dissenso – non sono rari i casi di auto-immolazioni di monaci e cittadini della regione come avvenuto anche nel recente passato – o manifestazioni di larga scala pro democrazia, diritti e libertà religiosa.

 

In caso di morte del Dalai Lama, dunque, i monaci buddisti non potranno mostrare foto o immagini del loro leader spirituale, così come – usando una definizione quantomeno vaga – non potranno svolgere «riti o attività religiose illegali».

 

A darne notizia è Radio Free Asia (RFA), che rilancia testimonianze interne al Tibet secondo le quali le autorità hanno distribuito questo «manuale di condotta» nei monasteri della provincia di Gansu, nel nord-ovest del Paese. Del decalogo di condotta ne parla anche l’ex prigioniero politico, ora in esilio, Golok Jigme il quale sottolinea che queste norme guardano anche oltre l’attuale leadership, perché mirano a “interrompere il processo di riconoscimento” della reincarnazione e futura guida.

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Il Dalai Lama e il dragone

La Cina, che ha annesso il Tibet nel 1951, governa la regione autonoma occidentale con il pugno di ferro e afferma che solo Pechino può scegliere il successore e prossimo leader spirituale dei buddisti tibetani, come stabilito dalle stesse leggi interne al Paese.

 

Di contro, i tibetani ritengono che sia lo stesso Dalai Lama a scegliere il corpo in cui reincarnarsi, processo che si è verificato 13 volte dal 1391 quando nasce la prima guida.

 

A inizio mese l’attuale leader, l’88enne Tenzin Gyatso si è rivolto a centinaia di fedeli che gli offrivano una preghiera di lunga vita dicendo di godere di buona salute e di essere «determinato a vivere per più di 100 anni». In più occasioni ha sottolineato che il successore – che i tibetani vogliono determinare per reincarnazione, come stabilisce la loro fede, mentre Pechino vuole controllare mediante selezione – sarebbe venuto da un Paese libero, senza interferenze cinesi.

 

Del resto egli stesso è dovuto fuggire dal Tibet durante la fallita rivolta del 1959 contro il dominio cinese e da allora vive in esilio a Dharamsala, in India, dove è diventato nel tempo il leader spirituale più longevo della storia della regione di origine.

 

Ad aprile, inoltre, secondo calendario dovrebbero ricorrere i 35 anni del «numero due» del buddismo tibetano, quel Panchen Lama rapito dalle autorità comuniste cinesi in Tibet quando era solo un bambino: Gedhun Choekyi Nyima fu catturato con la sua famiglia dalle autorità cinesi il 17 maggio 1995, tre giorni dopo essere stato riconosciuto come Panchen Lama dall’attuale Dalai Lama, Tenzin Gyatso.

 

Per il buddismo tibetano, il Panchen Lama è importante perché ha il compito di riconoscere la nuova rinascita del Dalai Lama, dopo la sua morte. Anche questo è un segno di come la Cina stia cercando di assicurarsi la scelta del prossimo Dalai Lama dopo la sua morte.

 

In risposta all’ingerenza di Pechino, Tenzin Gyatso in passato ha teorizzato che egli potrebbe essere l’ultimo Dalai Lama o la reincarnazione scelta da una sorta di «conclave» composto dai maggiori abati buddisti della diaspora.

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L’accusa di separatismo

Gruppi attivisti e ong pro-diritti umani affermano che il manuale, distribuito nella Prefettura autonoma tibetana di Kanlho, nella regione storica di Amdo, sarebbe solo l’ultimo sforzo di Pechino per reprimere la libertà religiosa del popolo tibetano. Inoltre, esso sarebbe «parte dei tentativi sistematici di rendere i buddisti tibetani più fedeli al Partito comunista cinese e alla sua agenda politica più che alla dottrina religiosa», come ha dichiarato Bhuchung Tsering capo dell’unità di ricerca e monitoraggio della Campagna Internazionale per il Tibet a Washington. «Questo – ha spiegato a RFA – va contro tutti i principi della libertà di religione del popolo tibetano, accettata a livello universale e che la Cina dice di sostenere».

 

La Cina ha imposto diverse misure per costringere i monasteri a sottostare ad una rieducazione politica e ha vietato severamente ai religiosi e alle persone comuni di avere contatti con lo stesso Dalai Lama o altri tibetani in esilio, che il dragone accusa apertamente di «separatismo».

 

Negli ultimi anni Pechino ha intensificato la repressione nella regione e in altre aree del Paese popolate da tibetani, come sta avvenendo nello Xinjiang con la minoranza musulmana uiguri. «Le ultime campagne governative contro il Dalai Lama e le pratiche religiose dei buddisti tibetani nella provincia di Gansu – dichiara Nury Turkel, della Commissione bipartisan USA per la libertà religiosa internazionale (USCIRF) – rappresentano un altro tentativo del governo cinese di interferire nel processo di reincarnazione del Dalai Lama».

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La repressione cinese

Il manuale-decalogo intima ai monaci di evitare qualsiasi attività che possa minare l’unità nazionale, danneggiare la stabilità sociale in nome della religione o che possa implicare la collaborazione con gruppi separatisti al di fuori del Paese. Nessuna organizzazione o istituzione illegale potrà accedere ai monasteri e il sistema educativo dei monaci stessi dovrà evitare di accogliere o promuovere elementi che sostengono una «ideologia separatista».

 

Infine, le norme proibiscono anche la diffusione di «propaganda separatista» via radio, internet e televisione o con altri mezzi, e potranno punire ogni «inganno» sotto forma di frode, aperta o nascosta.

 

Golog Jigme, imprigionato nel 2008 e torturato dalle autorità cinesi per aver co-prodotto un documentario sulle ingiustizie subite dai tibetani sotto il dominio di Pechino accusa: «mentre il governo cinese mette in atto diverse attività di educazione politica e attività rivolte ai tibetani, l’obiettivo principale sembra essere quello di sradicare l’identità tibetana attraverso lo smantellamento della religione e della cultura».

 

Oggi egli vive in Svizzera, è un apprezzato attivista e si batte per far conoscere le violazioni ai diritti umani e alla libertà religiosa. Anche nelle province cinesi confinanti con il Tibet, in cui vi sono 10 prefetture autonome tibetane tra cui quelle di Gansu, Sichuan, Qinghai e Yunnan, dove vivono molti tibetani etnici.

 

La prefettura autonoma tibetana di Kanlho, nella provincia di Gansu, dove le autorità hanno distribuito i manuali, ospita circa 415mila tibetani che parlano il dialetto Amdo.

 

La provincia ha circa 200 monasteri grandi e piccoli sotto la sua amministrazione. Durante una visita a due contee della prefettura autonoma tibetana di Kanlho, a marzo, He Moubao, segretario del Comitato del Partito di Stato cinese, ha sottolineato la necessità per i tibetani di «sinicizzare» la religione e di attuare la politica del partito, avvertendo che i monaci «vanno guidati» in questo senso per «mantenere l’unità nazionale e la stabilità sociale».

 

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Condanna finita, ma nessuna notizia della blogger che raccontò la pandemia a Wuhan

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   Cristiana in prima linea per i diritti umani a Shanghai, oggi quarantenne, Zhang Zhan avrebbe dovuto essere liberata oggi scontati i quattro anni di reclusione, ma alla famiglia è stato imposto il silenzio e non si hanno notizie certe su di lei. Gli attivisti che seguono il suo caso temono che la sua detenzione stia proseguendo sotto altre forme, come già accaduto in altri casi.   Trascorsi i quattro anni di carcere a cui era stata condannata con la classica accusa di «provocare litigi e creare problemi», oggi doveva essere il giorno della liberazione di Zhang Zhan, la blogger cristiana di Shanghai che nel febbraio 2020 si era recata a Wuhan e dalla città epicentro della pandemia da COVID-19 come «cittadina giornalista» per tre mesi aveva provato a raccontare quanto stava succedendo.   A fine giornata, però, dal carcere femminile di Shanghai dove ha scontato la sua detenzione non è ancora filtrata alcuna notizia. E la preoccupazione degli attivisti per i diritti umani è che la sua privazione della libertà stia semplicemente continuando sotto un’altra forma.   Quarant’anni, laureata alla Southwestern University di Chengdu, Zhang Zhan era un avvocato a cui a Shanghai le autorità locali avevano già sospeso la licenza a causa delle sue battaglie per i diritti umani. Era già stata arrestata una prima volta nel settembre 2019 per aver marciato con un ombrello su Nanjing Road a Shanghai, a sostegno delle proteste di Hong Kong.

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Alle prime notizie della pandemia si era quindi recata a Wuhan per documentare quanto stava succedendo, pubblicando un centinaio di video in tre mesi e rispondendo anche a domande di media internazionali. Arrestata nel maggio 2020 era diventata la prima blogger a essere condannata per le notizie diffuse sulla pandemia.   In una nota diffusa questa sera alle ore 19,30 di Pechino la campagna Free Zhang Zhan – che dalla Gran Bretagna ha tenuto accesi i riflettori sul suo caso – ha confermato che non è arrivata nessuna conferma sul fatto che la donna abbia effettivamente lasciato il carcere e sia tornata a casa.   «Sappiamo che la famiglia di Zhang Zhan è stata sottoposta a enormi pressioni e ha ricevuto un severo avvertimento a non rilasciare interviste ai media» si legge in una nota diffusa stasera. «Anche le telefonate degli amici sono rimaste senza risposta. Almeno un attivista di Shanghai nei giorni scorsi è stato convocato dalla polizia per aver espresso l’intenzione di andare a prendere Zhang Zhan all’uscita della prigione insieme alla madre. Un’attivista dell’Henan è stata intercettata in una stazione ferroviaria mentre cercava di recarsi a Shanghai; voleva salutare Zhang Zhan o almeno mostrarle solidarietà fuori dal carcere femminile, ma le è stato impedito di comprare il biglietto ferroviario».   La campagna Free Zhang Zhan parla di «segnali estremamente preoccupanti». «Se Zhang Zhan si troverà nella stessa situazione di Chen Jianfang (un’altra attivista che nell’ottobre 2023, quando è stata rilasciata dal carcere, è stata posta agli arresti domiciliari ndr), avrà poche possibilità di ricevere le cure mediche urgenti di cui ha bisogno per riprendersi. È assolutamente inaccettabile che il governo cinese sottoponga molti difensori dei diritti umani e le loro famiglie a questo tipo di crudeltà. Anche dopo il loro rilascio, sono ancora privati dei loro diritti fondamentali. Per alcuni è come se avessero ricevuto una condanna a vita».   «Avremmo già dovuto avere notizie da lei o dalla sua famiglia» conclude la nota. «Invece, ci chiediamo dove sia, come stia fisicamente e mentalmente, che cosa sia successo alla sua famiglia e che cosa le riservi il futuro: rimarrà prigioniera in casa sua (come accaduto a Chen Jianfang)? Sarà detenuta in una struttura medica senza accesso alla sua famiglia (come capitato all’attivista dell’Hubei Yin Xu’an)? Scomparirà forzatamente (come l’avvocato per i diritti umani Gao Zhisheng)? Il silenzio parla chiaro. Esortiamo la comunità internazionale a chiedere conto al regime comunista cinese della sua orrenda pratica di “detenzione morbida” o di “non rilascio” degli ex prigionieri politici».   Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne. Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Le Filippine vicine all’espulsione dei diplomatici cinesi

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

La Cina questa settimana ha diffuso una presunta conversazione telefonica risalente a gennaio durante la quale un ammiraglio filippino accetta di fare delle concessioni ai funzionari cinesi. Il consigliere per la sicurezza nazionale ieri ha sottolineato che in questo modo Pechino sta violando le leggi locali.

 

Continuano le tensioni nel Mar cinese meridionale tra la Cina e le Filippine. Il consigliere per la sicurezza nazionale Eduardo Ano ha chiesto l’espulsione dei diplomatici cinesi dopo che questi hanno rilasciato la presunta conversazione telefonica di un ufficiale militare filippino: «i ripetuti atti da parte dell’ambasciata cinese di creare e diffondere ora rilasciando trascrizioni o registrazioni fasulle di presunte conversazioni tra funzionari del Paese ospitante – non dovrebbero essere consentiti senza autorizzazione o senza gravi sanzioni», ha affermato ieri il consigliere per la sicurezza nazionale.

 

La presunta conversazione, che risalirebbe a gennaio, è stata diffusa questa settimana. Nell’audio, un diplomatico cinese e un ammiraglio filippino di nome Alberto Carlos, discutono della disputa nel Mar cinese meridionale, dove Pechino ripetutamente invade le acque territoriali non solo delle Filippine, ma anche di altri Paesi del sud-est asiatico, per ottenere il controllo delle risorse ittiche e marine.

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Il militare filippino avrebbe accettato di «allentare la tensione ad Ayungin», un isolotto sommerso (chiamato Second Thomas Shoal a livello internazionale) parte delle Isole Spratly, dove un piccolo contingente di militari filippine vive a bordo del relitto di una nave da guerra fatta intenzionalmente arenare da Manila nel 1999 per promuovere le proprie rivendicazioni territoriali. Oggi viene utilizzata come appoggio per i rifornimenti. Carlos avrebbe promesso di limitare il numero di navi filippine che si recano alla base e fornire un preavviso alla Cina.

 

Il ministero degli Esteri cinese ha subito risposto alle dichiarazioni di Ano di ieri, affermando di «chiedere solamente che le Filippine garantiscano ai diplomatici cinesi di poter svolgere normalmente i loro compiti».

 

Le relazioni tra i due Paesi continueranno a essere tese, secondo gli osservatori, nonostante a gennaio entrambi avessero promesso di voler migliorare le comunicazioni per gestire le tensioni. Dall’inizio dell’anno ci sono stati tre scontri diretti tra la Guardia costiera filippina e la Marina cinese, ha fatto sapere Manila.

 

Nelle ultime settimane la Cina ha anche più volte fatto riferimento ad un presunto «accordo segreto» stipulato con il precedente presidente Rodrigo Duterte, effettivamente più filo-cinese rispetto all’attuale Ferdinand Marcos Jr. In base al presunto accordo, Manila avrebbe promesso di non riparare o costruire strutture a Second Thomas Shoal, ma il ministro della Difesa filippino ha dichiarato di non essere a conoscenza di nessun trattato di questo tipo.

 

Don McLain Gill, analista e docente presso l’Università De La Salle di Manila, ha spiegato al Nikkei che nel caso in cui le Filippine decidano di espellere i diplomatici cinesi, Pechino risponderebbe alla stessa maniera. Al momento la questione resta senza una vera risoluzione.

 

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Un treno di prodotti agricoli dallo Xinjiang a Salerno. Le ONG uigure: frutto di lavoro schiavo

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   Un viaggio di 10mila chilometri esaltato da Pechino come occasione di sviluppo (e di rivincita sull’uscita dell’Italia dalla Belt and Road Initiative). Ma il cotone e i pomodori dello Xinjang sono al centro della «politica di alleviamento della povertà attraverso il trasferimento di manodopera», che secondo numerosi rapporti è una forma di lavoro forzato.   Un treno carico di prodotti agricoli partito da Urumqi, nella tormentata regione autonoma cinese dello Xinjiang, e destinato dopo 10mila chilometri di viaggio tra binari e trasbordi marittimi a raggiungere Salerno, in Italia.   Il nuovo viaggio bandiera della China-Europe Railway Express è partito il 29 aprile scorso dalla Cina, con ampia copertura mediatica da parte degli organi di stampa ufficiali di Pechino, che ne esaltano i benefici per l’economia dello Xinjiang.   Oltre a rilanciare le «potenzialità» di quella Belt and Road Initiative – la nuova «via della seta» di Xi Jinping – dai cui accordi pure il governo italiano dello scorso anno sarebbe uscito, annullando il memorandum sottoscritto da Roma e Pechino nel 2019 ma senza chiudere ad altre forme di cooperazione commerciale.   A restare sullo sfondo è però la questione del rispetto dei diritti umani nello Xinjiang, regione dove gli abusi nei confronti uiguri hanno spesso anche il volto del lavoro forzato utilizzato proprio nell’agricoltura. Ad evidenziarlo è una presa di posizione pubblica lanciata in queste ore da tre dei gruppi più attivi sulla salvaguardia dei diritti della popolazione musulmana dello Xinjiang: Uyghur Human Rights Project, Uyghur American Association e Safeguard Defenders. Insieme hanno scritto una lettera aperta all’ambasciatrice italiana a Washington, Mariangela Zappia, esprimendo preoccupazione per l’iniziativa e chiedendo un’indagine accurata sull’origine dei prodotti trasportati su quel treno.   «La moderna schiavitù del popolo uiguro e i continui crimini contro l’umanità – si legge nel documento – sono stati ampiamente documentati da organizzazioni internazionali, media indipendenti e organismi governativi. L’uso del lavoro forzato in qualsiasi forma viola i principi fondamentali dei diritti umani, tra cui il diritto alla libertà dalla schiavitù e dal lavoro forzato, come sancito da diverse convenzioni e trattati internazionali di cui l’Italia è parte».   L’iniziativa della China-Europe Railway Express è rilevante anche per il peso della Regione autonoma uigura dello Xinjiang nella produzione agricola cinese: coltiva l’85% del cotone del Paese, oltre il 70% dei pomodori (producendo fino al 90% del concentrato di pomodoro destinato all’esportazione), il 50% delle noci e il 28% dell’uva. Inoltre nella regione vi sono anche coltivazioni significative di grano, mais e altri cereali.   «Prove significative – scrivono Uyghur Human Rights Project, Uyghur American Association e Safeguard Defenders, citando rapporti specifici sull’agricoltura nello Xinjiang – rivelano che i trasferimenti di manodopera nella regione uigura avvengono in un contesto di coercizione senza precedenti, con la costante minaccia di rieducazione e internamento. Molti lavoratori indigeni non sono in grado di rifiutare o abbandonare volontariamente il lavoro nel settore agricolo, e quindi i programmi equivalgono al trasferimento forzato di popolazioni, al lavoro forzato, al traffico di esseri umani e alla riduzione in schiavitù».   Uno dei volti di questo sfruttamento oggi è anche quella che Pechino chiama la «politica di alleviamento della povertà attraverso il trasferimento di manodopera» (转移就业脱贫). Concretamente: migliaia di persone vengono formate e trasferite verso lavori agricoli stagionali, come appunto la raccolta di cotone o pomodori. Inserito nel quadro del più ampio programma di Xi Jinping per la riduzione mirata della povertà, è un sistema costruito su misura di contesti sociali pervasivamente coercitivi, caratterizzati dalla mancanza di libertà civiche, come è appunto quello dello Xinjiang.   «Come membro della comunità internazionale – concludono il loro appello Uyghur Human Rights Project, Uyghur American Association e Safeguard Defenders – l’Italia ha la responsabilità di garantire che le sue pratiche commerciali siano in linea con il suo impegno per i diritti umani e gli standard etici. Permettere che merci prodotte attraverso il lavoro forzato entrino nei suoi confini non solo condona queste gravi violazioni dei diritti umani, ma mina anche la credibilità della posizione dell’Italia sulla promozione e l’applicazione dei diritti umani. Esortiamo il governo italiano ad agire immediatamente per indagare sull’origine delle merci arrivate a Salerno e a mettere in atto misure per prevenire l’importazione di prodotti ottenuti con il lavoro forzato».   Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne. Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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