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Eutanasia, Michel Houellebecq non si sottomette all’ondata
Renovatio 21 traduce questo articolo di Bioedge.
Michel Houellebecq è il romanziere vivente più acclamato di Francia, un candidato perenne al Premio Nobel per la letteratura e straordinario provocatore.
«Ai partigiani dell’eutanasia piace fare i gargarismi con parole i cui significati distorcono a tal punto che non dovrebbero più nemmeno avere il diritto di pronunciarli. Nel caso della “compassione”, la menzogna è palpabile»
Aggettivi contraddittori vengono apposti sopra il suo nome come post-it particolari: brillante, pornografico, brutalmente onesto, islamofobo, violento, umanista, nichilista, ripugnante, audace, marxista, reazionario , etc.
Deve anche essere uno dei più schietti oppositori dell’eutanasia in Francia. In un recente articolo su Le Figaro, si spiega, nel suo linguaggio caratteristicamente amaro e poetico:
«Ai partigiani dell’eutanasia piace fare i gargarismi con parole i cui significati distorcono a tal punto che non dovrebbero più nemmeno avere il diritto di pronunciarli. Nel caso della “compassione”, la menzogna è palpabile. Quando si parla di “dignità”, le cose sono più insidiose. Abbiamo seriamente deviato dalla definizione kantiana di dignità sostituendo, a poco a poco, l’essere fisico a quello morale (e forse anche negando la nozione stessa di essere morale), sostituendo la capacità di azione umana con una più superficiale, più animale , il concetto di buona salute – trasformato in una sorta di precondizione di ogni possibilità di dignità umana, forse anche il suo unico vero significato».
«Il concetto di buona salute è trasformato in una sorta di precondizione di ogni possibilità di dignità umana, forse anche il suo unico vero significato»
«Detto in questo modo, raramente ho avuto l’impressione di aver manifestato in qualsiasi momento della mia vita una dignità straordinaria; e non ho l’impressione che questo possa migliorare. Finirò per perdere i miei capelli e i miei denti. I miei polmoni saranno ridotti a brandelli. Diventerò costantemente più o meno impotente, più o meno incapace, forse incontinente e forse anche cieco. Una volta raggiunto un certo stadio di degrado, finirò inevitabilmente per dirmi (e sarò fortunato se non me lo fa notare qualcun altro) che non ho più dignità».
Ma come sottolinea, la dignità fisica non è ciò che ci fa andare avanti. È la sensazione di essere amati. La fonte della dignità è relazionale, non l’autonomia, ma l’essere amati da altre persone.
La dignità fisica non è ciò che ci fa andare avanti. È la sensazione di essere amati. La fonte della dignità è relazionale, non l’autonomia, ma l’essere amati da altre persone
Continua dicendo:
«Bene, e allora? Se questa è dignità, si può benissimo farne a meno. D’altra parte, tutti hanno più o meno bisogno di sentirsi necessari o amati; e, in mancanza di ciò, stimato, anche nel mio caso ammirato. È vero che può anche essere perso; ma non si può fare molto al riguardo; altri giocano a questo riguardo il ruolo determinante. E posso facilmente immaginarmi chiedendo di morire nella speranza che gli altri rispondano: “Oh no, no. Per favore, resta con noi ancora un po'”. Questo sarebbe molto il mio stile. E lo ammetto senza la minima vergogna. La conclusione, temo, è inevitabile: sono un essere umano completamente privo di ogni dignità».
Houellebecq è una specie di catastrofista sociale. Il suo famoso romanzo Sottomissione è una visione della Francia trasformata da anni vissuti sotto la legge islamica della sharia.
«Quando un Paese – una società, una civiltà – arriva al punto di legalizzare l’eutanasia, perde ai miei occhi ogni diritto al rispetto. Diviene d’ora in poi non solo legittimo, ma desiderabile, distruggerlo; in modo che qualcos’altro – un altro Paese, un’altra società, un’altra civiltà – possa avere la possibilità di sorgere»
Continua dicendo che l’eutanasia è una sorta di test di civiltà:
«L’onore di una civiltà non è esattamente niente. Ma in realtà c’è in gioco qualcos’altro; dal punto di vista antropologico. È una questione di vita o di morte. E su questo punto dovrò essere molto esplicito: quando un Paese – una società, una civiltà – arriva al punto di legalizzare l’eutanasia, perde ai miei occhi ogni diritto al rispetto. Diviene d’ora in poi non solo legittimo, ma desiderabile, distruggerlo; in modo che qualcos’altro – un altro Paese, un’altra società, un’altra civiltà – possa avere la possibilità di sorgere».
Michael Cook
Direttore di Bioedge
Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni
Immagine di Mariusz Kubik via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 3.0 Unported (CC BY 3.0).
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Attrici giapponesi che si vestono da uomini bullizzano collega fino a spingerla al suicidio
Dal Giappone arriva l’eco di un episodio di bullismo e violenza sistematica sfociati in un suicidio all’interno di una struttura esclusivamente femminile. Una sorta di suicidio femminicida, ma ad opera di femmine.
Teatro della vicenda è per il corpo teatrale Takarazuka, un’istituzione più che secolare nel mondo dello spettacolo giapponese. Il concetto alla base del corpo teatrale è che sono soltanto attrici a salire in scena, interpretando anche i ruoli maschili. Tale idea, di per sé spiazzante, inverte completamente la tradizione del teatro tradizionale Kabuki, dove sono gli attori maschi a ricoprire tutti i ruoli.
Gli spettacoli del Takarazuka sono tuttavia distanti anni luce dal rigido formalismo del Kabuki: qui si tratta di musical che attingono dalle fonti più disparate, da West Side Story all’Evgenij Onegin, spesso spingendo a tavoletta su elementi che qualche anno fa si definivano camp o kitsch, in italiano lo si potrebbe semplicemente chiamare «pacchianeria», benché estremamente professionale e ben fatta.
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Il seguito che hanno questi spettacoli nel contesto nipponico è impressionante, ancora di più perché per la grandissima maggioranza femminile: lo scrivente ricorda di essersi imbattuto in una lunghissima coda in attesa di entrare nel teatro di Tokyo – in zona centralissima, vicino al palazzo imperiale – dove si esibisce la compagnia. Si poteva constatare che gli uomini tra la folla erano appena una manciata.
Un ambiente quindi quasi completamente femminile, al sicuro da patriarcato e maschilismo tossico.
E allora, come si spiegano allora vessazioni di gruppo, ustioni procurate con le piastre per i capelli, carichi di lavoro insostenibili assegnati al solo scopo di umiliare e di lasciare soltanto tre ore di sonno al giorno? È questa l’ordalia che ha portato la 25enne Aria Kii a gettarsi nel vuoto per porre fine alla sua vita nel settembre del 2023.
La vicenda era stata prontamente insabbiata dall’azienda che gestisce la compagnia teatrale ma è stata riportata a galla dall’ineffabile Shuukan Bunshun, testata con una lunga e gloriosa tradizione di caccia agli scheletri negli armadi. Nella primavera di quest’anno i dirigenti dell’azienda in questione hanno pubblicamente ammesso la loro responsabilità nel non essere stati in grado di vigilare adeguatamente l’ambiente lavorativo delle attrici.
Duole dire che per la società giapponese uno scenario così è tutto fuorché inconsueto: il proverbio «il chiodo che sporge verrà martellato» illustra ancora con una certa fedeltà le dinamiche sociali che si formano all’interno delle istituzioni giapponesi – siano esse scuole, aziende, partiti.
Negli ultimi tempi c’è un evidente cambiamento in atto soprattutto per quanto riguarda il mondo del lavoro, ma il bullismo allo scopo di creare coesione all’interno di un gruppo è una pratica a cui i giapponesi ricorrono abitualmente e che non sembra soffrire di particolare disapprovazione sociale.
Dal Giappone ci chiediamo con sincerità come un giornalista italiano – di area woke, ma anche solo attento a seguire i dettami del politicamente corretto elargiti ai corsi di deontologia dell’Ordine – potrebbe riportare la notizia della triste morte di Aria, con lo stuolo di angherie subite in un contesto esclusivamente femminile.
Taro Negishi
Corrispondente di Renovatio 21 da Tokyo
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Lucerna annulla il concerto della Netrebko, Berlino la invita a cantare
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La nona di Beethoven trasformata nel canto banderista «Slava Ukraini»
La direttrice Keri-Lynn Wilson, moglie del direttore generale del Metropolitan Opera di Nuova York Peter Gelb, ha annunciato che la sua «Ukrainian Freedom Orchestra» eseguirà la famosa nona sinfonia di Beethoven, quella ispirata all’ode Inno alla gioia (An die Freude) del drammaturgo tedesco Friedrich Schiller. Lo riporta EIRN.
Tuttavia, secondo quanto si apprende, la Wilson starebbe sostituendo la parola «Freude» nel testo con «Slava». «Slava ukraini» o «Gloria all’Ucraina» era il famigerato canto delle coorti ucraine di Hitler guidate dal collaborazionista Stepan Bandera durante la Seconda Guerra Mondiale. Da allora è stato conservato come canto di segnalazione dalle successive generazioni di seguaci di Bandera, i cosiddetti «nazionalisti integrali», chiamati più semplicemente da alcuni neonazisti ucraini o ucronazisti.
A causa di quanto accaduto nella prima metà del secolo, in Germania non si può cantare «Heil!» in tedesco senza invocare «Heil Hitler!», né si può dichiarare ad alta voce «Slava!» in Ucraina senza invocare lo «Slava Ukraini» canto dei sanguinari collaboratori locali del Terzo Reich, in particolare il Bandera.
La Wilson, che si vanta delle sue origini ucraine via nonna materna e della sua comunità ucraina di Winnipeg, Canada (Paese, come è emerso scandalosamente con il caso Trudeau-Zelens’kyj, pieno di rifugiati ucronazisti), ha rilasciato ieri il suo comunicato stampa.
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«La decisione di cantare il grande testo di Schiller per la Nona Sinfonia di Beethoven in ucraino è stata per noi un’importante dichiarazione artistica e culturale più ampia» ha dichiarato il direttore. «Putin sta letteralmente cercando di mettere a tacere una nazione. Non saremo messi a tacere. Il nostro unico emendamento a Schiller è che invece di cantare “Freude” (Gioia) canteremo “Slava” (Gloria), dal grido della resistenza ucraina di fronte alla spietata aggressione russa, Slava Ukraini! (Gloria all’Ucraina!)».
Notiamo l’interessante inversione in corso presso la sinistra e l’establishment: la «resistenza», oggi, la fanno i nazisti…
«Mentre l’Ucraina continua la sua lotta a nome del mondo libero, ha bisogno più che mai del nostro sostegno e porteremo con orgoglio il nostro messaggio in tutta Europa e negli Stati Uniti» ha continuato la Wilsona, che ha eseguito per la prima volta la sua versione banderizzata di Beethoven il 9 nel dicembre 2022 a Leopoli con la sua Ukraine Freedom Orchestra.
Nel 2023, l’importante casa discografica della classica Deutsche Grammophon ha registrato l’esecuzione del suo primo tour europeo a Varsavia, e quest’anno vi sarà la pubblicazione, proprio nel bicentenario dell’opera di Beethoven. Vi sarà quindi una tournée quest’estate che toccherà Parigi, Varsavia, Londra, Nuova York e Washington.
Secondo quanto riporta EIRN, «si dice inoltre che il prossimo progetto della Wilson coinvolga la sostituzione della parola “agape”» (cioè, in greco, amore disinteressato, infinito, universale), termine contenuto nella lettera di San Paolo ai Corinzi (capitolo 13), «con «agon» o «eris» (cioè, contesa, lotta, conflitto)».
Se fosse vero, sarebbe un altro tassello del quadro che si sta dipanando dinanzi ai nostri occhi. Dalla gioia alla guerra. Da Cristo a Nietzsche.
Va così, perfino nella musica classica.
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