Pensiero
Vaccino «costituzionale», avevamo predetto l’assist del governo Meloni alla Corte

Lo avrete visto, in settimana è stato depositato il testo della sentenza 14/2023 della Corte Costituzionale sulla legittimità delle misure volte all’allontanamento dal lavoro del personale sanitario che ha rifiutato la vaccinazione contro SARS-CoV-2.
Come noto, il responso era già stato anticipato, ma non le motivazioni.
Si è trattato di fatto, come tutti si aspettavano, di un giudizio finale (forse) sul green pass, ossia l’apartheid biotica inflitta a milioni e milioni di cittadini italiani, che hanno percepito i diritti espressi dalla Carta costituzionale calpestati uno per uno – a partire dal primo.
Anche se conoscevamo l’esito, non possiamo evitarci il senso di smarrimento di fronte alle parole del massimo collegio giuridico della Repubblica.
«Il rischio di insorgenza di un evento avverso, anche grave, non rende di per sé costituzionalmente illegittima la previsione di un obbligo vaccinale, costituendo una tale evenienza titolo per l’indennizzabilità» scrive la Corte. Cioè, se vi è sfuggita la logica: se ti risarcisco il danno, allora posso usare coercizione – se qualcosa va storto poi ti godi dei danari (magari dopo lunghissimi procedimenti, che per legge non riguardano le farmaceutiche produttrici), una situazione che, pare di capire, dovrebbe valere anche per chi muore.
In pratica, se lo Stato potenzialmente è disposto a pagarti, può farti del male – o anche ammazzarti. Il significato di questo passaggio ci fa venire le vertigini: è possibile esporre il cittadino ad un rischio di fronte alla prospettiva di una compensazione economica. Filosoficamente, questo è il trionfo più estremo dell’utilitarismo, la riprova che esso è oramai il sistema operativo dello Stato moderno. Ma non ne discuteremo qui.
Tranquilli, se si muore per il vaccino siam qui. Bisogna dire che non è la prima volta che provo questa sensazione. Ricordo bene, in era prepandemica, i discorsi dei dottori che vogliono vaccinarti con botte di polivalente il bambino: non si preoccupi, se il bimbo va in shock anafilattico, qui abbiamo il defibrillatore. Il genitore del piccolo vaccinando ha di che fidarsi: si dipinga nella mente l’immagine del corpicino di un piccolo di tre anni – il suo piccolo – mentre viene attraversato da immani scosse elettriche, sballonzolato violentemente, forse vivo, forse morto, sul tavolo di un ambulatorio.
Non fa una grinza: c’è il defibrillatore, allora vaccino il bambino. C’è l’indennizzo, se vengo danneggiato – magari ne muoio – quindi mi sottopongo immantinente alla sierizzazione genica sperimentale mRNA. La logica, come vedete, è la stessa. Rimedi e compensazioni, post-danno, e anche post-mortem.
La Corte va oltre, e ci parla di scienza: «in coerenza con il dato medico-scientifico che attesta la piena efficacia del vaccino e l’idoneità dell’obbligo vaccinale rispetto allo scopo di ridurre la circolazione del virus, la non irragionevolezza del ricorso ad esso, a fronte di un virus respiratorio altamente contagioso, diffuso in modo ubiquo nel mondo, e che può venire contratto da chiunque, caratterizzato da rapidità e imprevedibilità del contagio».
C’è un subordine del diritto alla Scienza, pare di capire. Già questo è un argomento enorme. Tuttavia ci colpisce come i supremi giudici parlino di riduzione della circolazione del virus. Ritenevamo che non fosse più un argomento che fosse possibile usare, dopo la confessione dinanzi al Parlamento Europeo della dirigente Pfizer, che ha ammesso che il siero mai era stato testato per ridurre il contagio – e così inficiando l’intera architettura internazionale delle restrizioni pandemiche.
La Corte, invece, rimane lì: bisogna vaccinarsi per salvare gli altri, e pazienza se il vaccino è dichiarato inefficace per questo scopo dalla stessa farmaceutica produttrice, pazienza se persino Bill Gates, che all’OMS «dona» molta più denari della Repubblica Italiana e sui vaccini ha investito forse ancora più soldini, sia arrivato anche lui a questa conclusione.
Pazienza perché, ripetiamo, c’è una «coerenza con il dato medico-scientifico che attesta la piena efficacia del vaccino e l’idoneità dell’obbligo vaccinale rispetto allo scopo di ridurre la circolazione del virus», una frase che oggi non comprendiamo come si possa giustificare.
Vi sarebbe molto altro da scrivere, tuttavia quest’articolo serve ad altro. Non riguarda la Corte Costituzionale, che, a differenza degli USA, mai si è resa vera protagonista della politica nazionale, ma, appunto, la politica stessa – cioè la politica del governo.
Vogliamo ricordare al lettore uno degli articoli di Renovatio 21 più letti negli scorsi mesi. Si intitolava «La trappola del decreto di reintegro dei medici non vaccinati». È stato pubblicato il 4 novembre 2022.
Lì mettevamo in guardia rispetto agli entusiasmi delle moltitudini rispetto al varo del decreto legge 162/2002, il primo atto del governo Meloni, l’atto con cui la romana avrebbe – scrisse il quotidiano La Verità – «smontato la gabbia del COVID».
Il decreto – quanti non lo capirono! – non prendeva nessuna posizione rispetto alla siringa mRNA di Stato, si limitava ad accorciare (di pochissimo) i tempi: l’obbligo vaccinale per i sanitari decadeva quindi subito invece che a fine dicembre.
La manovra, quindi, ci era sembrata subito altamente sospetta.
«Non prendendo alcuna posizione sulla siringa di Stato, il decreto crea un vuoto che non può essere lasciato esistere, un vuoto che, immancabilmente, chiamerà qualcuno che lo riempirà. E noi pensiamo alla Corte Costituzionale» avevamo preconizzato.
«È inevitabile: quello che è considerato il più alto organo di garanzia di rispetto della Carta sarà chiamato, una volta per tutte, a dirimere la questioni dei vaccini, che si trascina dall’anno lorenziniano 2017, e che ora non è più rinviabile, specie quando la Costituzione è chiamata in causa da coloro che erano, e in larga parte ancora sono, giudicati dall’esprit du temps come nemici pubblici, i no-vax. Quindi, il decreto Meloni è un cross fatto in area per la Corte Costituzionale? Parrebbe: e aggiungete che il portiere è a farfalle i giocatori della difesa sono già negli spogliatoi. Basterà appoggiarla in rete».
Che possiamo dire? Il cross è arrivato in area, e l’attaccante – la Corte – l’ha schiacciata in rete: «l’imposizione di un trattamento sanitario obbligatorio trova giustificazione in quel principio di solidarietà che rappresenta la base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente» sono le parole della sentenza di cui stiamo parlando. In breve, il vaccino non solo è lecito, è coperto dalla Carta. Parole che resteranno per sempre; parole che a loro modo ora sono legge suprema.
È accaduto quello che temevamo: l’assist del governo ha prodotto il vaccino costituzionale.
Non è che lo diciamo noi piccoli sciagurati. Lo abbiamo sentito pochi giorni fa anche dalle labbra di un insigne costituzionalista, il professor Carlo Iannello, dell’Università Vanvitelli della Campania. In un’intervista a La Verità, il professor Iannello sostiene che «l’anticipazione del reintegro dei sanitari diventa così parte della motivazione che giustifica la ragionevolezza della norma. Cosa sarebbe successo se il governo non avesse anticipato la fine dell’obbligo vaccinale?»
Già, cosa sarebbe successo senza questa strana mossa di novembre? Glielo chiede anche il giornalista Alessandro Rico, che gli pone una bella domanda: «sta dicendo che, paradossalmente, il governo Meloni e il Ministro Orazio Schillaci hanno servito un assist alla Consulta per salvare il decreto di Mario Draghi?». Quel «paradossalmente» ci perplime, ma la domanda è più che buona, e pure la risposta.
«Ero qui che volevo arrivare» replica il costituzionalista. «Il giudice costituzionale ha potuto fare una valutazione ex ante, cioè mettendosi nella prospettiva del legislatore ad aprile 2021, proprio perché l’obbligo, a fine novembre 2022, non era più attuale. Altrimenti, la valutazione ex ante sarebbe stata impossibile: la Consulta non avrebbe potuto glissare sullo scenario Omicron».
«È impossibile pensare che sia stato fatto apposta?» chiede cautamente il giornalista.
«Non lo posso affermare», risponde con altrettanta cautela il professore.
Qui invece la palla l’abbiamo vista partire a novembre, quando tanti stappavano lo spumante.
Del resto, non è chiaro cosa vi aspettavate.
Il ministro della Sanità scelto dalla Meloni è un membro del CTS (davvero: pensateci un attimo). E non è che non si veda.
Scopriamo che la commissione sul COVID indetta dal deputato Galeazzo Bignami (che conosciamo perché aveva partecipato ad un evento di Renovatio 21 sul caso Bibbiano, tema per cui l’onorevole si era speso con generosità) riguarderà, a quanto capiamo, mascherine, respiratori, forse di Bergamo, e poco altro – non le morti improvvise (che, memento Camilla, erano partite da subito), non i decessi in eccesso (che stanno martoriando il pianeta), nemmeno i patti e gli SMS tra il CEO di Pfizer e la Von der Leyen. A capo della Commissione ci hanno messo l’onorevole Faraone renziano, quello che andava alla TV nazionale per dire: «spero che potremo approvare una legge che obblighi al vaccino tutti gli operatori sanitari, così come spero nell’approvazione di uno scudo penale per i medici… Trovo paradossale e incredibile che la nostra legislazione preveda che un medico vada sotto processo perché vaccina e al tempo stesso metta al riparo i medici che contagiano in corsia».
Il problema del biennio COVID, insomma, sono gli appalti per le mascherine. Un po’ come il problema di Palermo, «cioppo ciaffico».
La Meloni, ricordatelo, ha firmato al G20 di Bali per il passaporto vaccinale globale: non è che l’hanno obbligata, dicendole «firma qua o ti togliamo la tessera di sovranista». Il lettore capisce che è la stessa che ha dichiarato in ogni modo – facendolo dire perfino ai famigliari – che non avrebbe toccato l’aborto, cosa che poi ha rivendicato perfino nel suo discorso di insediamento, e piazzando come ministro della Famiglia Eugenia Roccella – un fenomeno che abbiamo chiamato, lo sapete, «inchino a Moloch», a cui la premier si è prestata con brio.
Noi dubbi non ne avevamo, almeno dal 25 settembre 2021 – abbiamo scritto 2021, non 2022. Ricordate? Piazza Duomo, sabato, qualcuno ha l’idea di far fare un comizio della Meloni – con megapalco e tesserati ammaestrati con le loro bandierine a favore di telecamera – proprio nel giorno e nelle ore in cui si ritrovavano spontaneamente in Piazza Fontana (cioè, a 100 metri…) i no green pass, numericamente molto, molto superiori ai sostenitori della Meloni.
Giorgia, rammentiamolo, in quel momento era all’opposizione. E il lavoro dell’opposizione, uno pensa, è saldare attorno a sé, per quanto possibile, ogni altra forza si opponga al governo. Un ammiccamento al popolo no-green pass le avrebbe fatto guadagnare chissà quanti voti. E invece niente. La Meloni praticamente fugge dalla scena. In piazza vi sono addirittura cenni di scontro tra i no-green pass e i sostenitori di FdI, con in mezzo i celerini.
Abbiamo spesso mostrato questi video. Dicono davvero tutto.
Quindi, davvero, cosa vi aspettavate?
Quanto a noi, che possiamo dire: Renovatio 21 ha avuto ancora una volta ragione. E con largo anticipo. A inizio novembre, tra i coriandoli per il decreto, avevamo visto partire il cross malefico. Avevamo fiutato la trappola.
Ora, se non l’avete ancora fatto, realizzatelo: di queste tagliole maledette ne vedremo ancora moltissime, alcune già ci hanno morso a sangue le gambe. Pensate all’Ucraina. Sono piazzate lì per immobilizzarvi, per ferirvi, per prendervi di sorpresa. Perché oramai siamo animali nel bosco, con i cacciatori che credono di disporre della nostra vita come credono.
Capitela una volta per tutte: le elezioni non hanno cambiato nulla. La battaglia per la vostra sopravvivenza è tutto meno che finita.
Roberto Dal Bosco
Pensiero
Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.
Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.
Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…
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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.
L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.
Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)
Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)
Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.
È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.
Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).
Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.
A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.
Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.
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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.
Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.
Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.
Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.
La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).
Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)
Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.
Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).
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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.
La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.
La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.
Roberto Dal Bosco
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Bizzarria
Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese


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Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0






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Geopolitica
«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».
Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.
«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».
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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».
Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».
L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».
L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».
La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».
«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».
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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.
Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».
Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.
Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.
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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)
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