Civiltà
Questa è la Terra desolata

Renovatio 21 pubblica questi estratti del capolavoro di Thomas Stearns Eliot, il poema La Terra desolata (1922). Il testo, composto dal poeta dopo un esaurimento nervoso, è da molti considerato una vetta della letteratura moderna, e al contempo un lucido simbolo dell’uomo del XX secolo annegato nel mondo moderno
Rileggendolo oggi, vediamo che tanti immagini evocate qui parlano anche all’uomo del XXI secolo, e all’esistenza ai tempi della Pandemia globale.
Il titolo originale, The Wasteland, rimanda al tema della «terra desolata» (la terre gaste) tipico della poesia epica medievali. Questa terra guasta è un territorio devastato, sterile e mortale che separa i cavalieri dal Santo Graal; lo stesso Eliot è stato fortemente influenzato dalla studiosa di folklore Jessie Weston, in particolare della sua Indagine sul Sacro Graal (From ritual to romance, 1920), dove ipotizzava che le avventure dei cavalieri in cerca della santa coppa fossero la riedizione di antichi culti di fecondità, cioè celebrazioni di un’umanità che cercava di riportare ordine e prosperità dinanzi ai ciclici sconvolgimenti dell’universo.
Il mondo moderno, quel XX secolo di cui il poeta aveva vissuto il primo ventennio, mostrava già i segni di una crisi che avrebbe portato a catastrofi ed ecatombi, e la Civiltà Occidentale già era sulla strada della desolazione, o, più propriamente, della sterilità.
Non sappiamo quale effetto provochi a chi ci segue la lettura di questi versi. Noi crediamo che solo chi ha ora il coraggio di affrontare la realtà della devastazione, e il suo ciclo eterno, possa avere le energie e la volontà di riportare l’equilibrio nell’universo.
Crediamo che la poesia aiuti, perché dobbiamo fortificare il «sangue che scuote i nostri cuori», cercare la salvezza materiale di cui hanno bisogno le nostre genti, vedere con certezza il deserto che ci si para dinanzi, e i demòni che ci sbarreranno la strada.
La terra desolata deve essere guarita. Siamo noi tutti a doverla attraversarla per ritrovare la fecondità della Vita.
I. La sepoltura dei morti
Aprile è il più crudele dei mesi
Aprile è il più crudele dei mesi, genera
Lillà da terra morta, confondendo
Memoria e desiderio, risvegliando
Le radici sopite con la pioggia della primavera.
L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse
Con immemore neve la terra, nutrì
Con secchi tuberi una vita misera.
L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse
Con immemore neve la terra, nutrì
Con secchi tuberi una vita misera.
(…)
Quali sono le radici che s’afferrano, quali i rami che crescono
Da queste macerie di pietra? Figlio dell’uomo,
Tu non puoi dire, né immaginare, perché conosci soltanto
E l’albero morto non dà riparo, nessun conforto lo stridere del grillo,
L’arida pietra nessun suono d’acque.
C’è solo ombra sotto questa roccia rossa
Un cumulo d’immagini infrante, dove batte il sole,
E l’albero morto non dà riparo, nessun conforto lo stridere del grillo,
L’arida pietra nessun suono d’acque.
C’è solo ombra sotto questa roccia rossa,
(Venite all’ombra di questa roccia rossa),
E io vi mostrerò qualcosa di diverso
Dall’ombra vostra che al mattino vi segue a lunghi passi, o dall’ombra
Vostra che a sera incontro a voi si leva;
In una manciata di polvere vi mostrerò la paura.
In una manciata di polvere vi mostrerò la paura
(…)
Città irreale,
Sotto la nebbia bruna di un’alba d’inverno,
Città irreale,
Sotto la nebbia bruna di un’alba d’inverno,
Una gran folla fluiva sopra il London Bridge, così tanta,
Ch’io non avrei mai creduto che morte tanta n’avesse disfatta.
(…)
II. Una partita a scacchi
(…)
Un bosco enorme sottomarino nutrito di rame
Bruciava verde e arancio, incorniciato dalla pietra colorata,
Nella cui luce mesta un delfino scolpito nuotava.
(…)
Forme attonite
Si affacciavano chine imponendo silenzio nella stanza chiusa.
E altri arbusti di tempo disseccati
Erano dispiegati sui muri a raccontare; forme attonite
Si affacciavano chine imponendo silenzio nella stanza chiusa.
Scalpicciavano passi sulla scala.
(…)
«Ho i nervi a pezzi stasera. Sì, a pezzi. Resta con me.
Parlami. Perché non parli mai? Parla.
A che stai pensando? Pensando a cosa? A cosa?
Non lo so mai a cosa stai pensando. Pensa»
Penso che siamo nel vicolo dei topi
Dove i morti hanno perso le ossa.
Penso che siamo nel vicolo dei topi
Dove i morti hanno perso le ossa.
III. Il sermone del fuoco
La tenda del fiume è rotta: le ultime dita delle foglie
S’afferrano e affondano dentro la riva umida. Il vento
Incrocia non udito sulla terra bruna. Le ninfe son partite.
(…)
Dei bianchi corpi ignudi sul suolo molle e basso
E ossa, gettate in una piccola soffitta bassa e arida,
Smosse solo dal piede del topo, un anno dietro l’altro.
Ma alle mie spalle in una fredda raffica odo
Lo scricchiolo delle ossa, e il ghigno che fende da un orecchio all’altro.
Un topo si insinuò con lentezza fra la vegetazione
Strascicando il suo viscido ventre sulla riva
Mentre stavo pescando nel canale tetro
Una sera d’inverno dietro il gasometro
Meditando sul naufragio del re mio fratello
E sulla morte del re mio padre, prima di lui.
Dei bianchi corpi ignudi sul suolo molle e basso
E ossa, gettate in una piccola soffitta bassa e arida,
Smosse solo dal piede del topo, un anno dietro l’altro.
(…)
Città irreale
Sotto la nebbia bruna di un meriggio invernale
(…)
Il fiume trasuda
Olio e catrame
Le chiatte scivolano
Con la marea che si volge
Vele rosse
Ampie
Sottovento, ruotano su pesanti alberature.
Città irreale
Sotto la nebbia bruna di un meriggio invernale
(…)
Poi a Cartagine venni
Ardere ardere ardere ardere
O Signore Tu mi cogli
O Signore Tu cogli
bruciando
IV. La morte per acqua
Dopo la luce rossa delle torce su volti sudati
Dopo il silenzio gelido nei giardini
Dopo l’angoscia in luoghi petrosi
Le grida e i pianti
La prigione e il palazzo e il suono riecheggiato
Del tuono a primavera su monti lontani
Colui che era vivo ora è morto
Noi che eravamo vivi ora stiamo morendo
Con un po’ di pazienza
Phlebas il Fenicio, morto, da quindici giorni
Dimenticò il grido dei gabbiani, e il fondo gorgo del mare,
E il profitto e la perdita.
Una corrente sottomarina
Gli spolpò l’ossa in sussurri. Come affiorava e affondava
Passò attraverso gli stadi della maturítà e della giovinezza
Procedendo nel vortice.
(…)
V. Ciò che disse il tuono
Dopo la luce rossa delle torce su volti sudati
Dopo il silenzio gelido nei giardini
Dopo l’angoscia in luoghi petrosi
Le grida e i pianti
La prigione e il palazzo e il suono riecheggiato
Del tuono a primavera su monti lontani
Colui che era vivo ora è morto
Noi che eravamo vivi ora stiamo morendo
Con un po’ di pazienza
Qui non c’è acqua ma soltanto roccia
Roccia e non acqua e la strada di sabbia
La strada che serpeggia lassù fra le montagne
Che sono montagne di roccia senz’acqua
Se qui vi fosse acqua ci fermeremmo a bere
Fra la roccia non si può né fermarsi né pensare
Il sudore è asciutto e i piedi nella sabbia
Vi fosse almeno acqua fra la roccia
Bocca morta di montagna dai denti cariati che non può sputare
Non si può stare in piedi qui non ci si può sdraiare né sedere
Non c’è neppure silenzio fra i monti
Ma secco sterile tuono senza pioggia
Non c’è neppure solitudine fra i monti
Ma volti rossi arcigni che ringhiano e sogghignano
Da porte di case di fango screpolato
Non si può stare in piedi qui non ci si può sdraiare né sedere
Non c’è neppure silenzio fra i monti
Ma secco sterile tuono senza pioggia
Non c’è neppure solitudine fra i monti
Ma volti rossi arcigni che ringhiano e sogghignano
Da porte di case di fango screpolato
(…)
Cos’è quel suono alto nell’aria
Quel mormorio di lamento materno
Chi sono quelle orde incappucciate che sciamano
Su pianure infinite, inciampando nella terra screpolata
Accerchiata soltanto dal piatto orizzonte
Qual è quella città sulle montagne
Che si spacca e si riforma e scoppia nell’aria violetta
Torri che crollano
Gerusalemme Atene Alessandria
Vienna Londra
Irreali
Torri che crollano
Gerusalemme Atene Alessandria
Vienna Londra
Irreali
Una donna distese i suoi capelli lunghi e neri
E sviolinò su quelle corde un bisbiglio di musica
E pipistrelli con volti di bambini nella luce violetta
Squittivano, e battevano le ali
E strisciavano a capo all’ingiù lungo un muro annerito
E capovolte nell’aria c’erano torri
Squillanti di campane che rammentano, e segnavano le ore
E voci che cantano dalle cisterne vuote e dai pozzi ormai secchi.
E pipistrelli con volti di bambini nella luce violetta
Squittivano, e battevano le ali
E strisciavano a capo all’ingiù lungo un muro annerito
E capovolte nell’aria c’erano torri
In questa desolata spelonca fra i monti
Nella fievole luce della luna, l’erba fruscia
Sulle tombe sommosse, attorno alla cappella
C’è la cappella vuota, dimora solo del vento.
Non ha finestre, la porta oscilla,
Aride ossa non fanno male ad alcuno.
(…)
Amico mio sangue che scuote il mio cuore
L’ardimento terribile di un attimo di resa
Nelle nostre stanze vuote
Che un’èra di prudenza non potrà mai ritrattare
Secondo questi dettami e per questo soltanto noi siamo esistiti, per questo
Che non si troverà nei nostri necrologi
O sulle scritte in memoria drappeggiate dal ragno benefico
O sotto i suggelli spezzati dal notaio scarno
Nelle nostre stanze vuote
(…)
C’è la cappella vuota, dimora solo del vento.
Girare nella porta una volta e girare una volta soltanto
Noi pensiamo alla chiave, ognuno nella sua prigione
Pensando alla chiave, ognuno conferma una prigione
Solo al momento in cui la notte cade, rumori eterei
Noi pensiamo alla chiave, ognuno nella sua prigione
Pensando alla chiave, ognuno conferma una prigione
(…)
Lietamente alla mano esperta con la vela e con il remo
Il mare era calmo, anche il tuo cuore avrebbe corrisposto
Lietamente, invitato, battendo obbediente
Alle mani che controllano.
Lietamente, invitato, battendo obbediente
Alle mani che controllano.
(…)
T.S. Eliot
Per questo collage di versi abbiamo utilizzato questa traduzione del poema reperibile in rete. Per chi può leggere nella lingua inglese, che a nostro giudizio rende mille volte di più il fascino rapinoso di questo componimento, il testo originale è possibile trovarlo qui.
Civiltà
Vivere liberi lontani dal mondo moderno, restando in Italia. Intervista a Gipi dei Malvisi

In tanti ci chiedono, di fronte alle notizie apocalittiche che Renovatio 21 fornisce ad abundantiam ogni dì, se mai ci sia un posto sulla Terra, un Paese straniero, in cui migrare per evitare l’orrore onnipervadente del mondo moderno che, slatentizzato, diviene sempre più sorveglianza e sottomissione, prigione tecnologica, incubo biologico ed alimentare.
Tuttavia, conosciamo qualcuno che da anni è riuscito a disconnettersi dal mondo delle macchine restando in Italia, prendendo dimora in un antico borgo disperso fra i boschi degli Appennini, dove c’è tutto quello che serve: il campo da arare con i buoi, la stalla per le mucche, la corte per le capre e gli asinelli, le oche e il gallo, il vitello e il pipistrello, la casetta con la stufa e il gatto, l’orto di immane generosità, il ruscello per sciacquare i panni.
Si chiama Villa Melesi, o comunità contadina dei Melesi. L’ha fondata lui. Sta sui monti a cavallo tra Parma e Piacenza, comune di Vernasca.
Gipi dei Malvisi è un personaggio piuttosto incredibile, che avevamo conosciuto nella scena pan-italiana degli appassionati del tabarro, dove la sua originalità torreggiava (e, considerando la galleria di personaggi che si intabarrano, capite che si tratta di tanta roba). Artigiano e artista – sono incredibili, e ben vendute, le sue sculture in fil di ferro – il dei Malvisi è oggi un uomo che ha appreso tecniche agricole antiche, ottocentesche, medievali, persino neolitiche, con le quali condurre questa vita lontana dal mondo tossico inflitto alla popolazione occidentale e non solo a quella.
Parlare con lui è trovarsi affogati in un vortice di racconti biografici, erudite citazioni e pensieri abissali espressi in una lingua euro-sincretica diacronica che all’italiano aggiunge parole – preposizioni, lemmi, espressioni, tutto – in francese, tedesco, spagnuolo, latino, inglese, italiano aulico… e giuriamo che parla davvero così, con questo eloquio antico e proteiforme, irresistibile.
Se il lettore ha problemi a comprendere, in fondo Gipi è stato così gentile da darci i suoi recapiti. Così che magari, qualche lettore curioso, può organizzarsi per andare a trovarlo. E toccare di prima mano la libertà di cui qui andiamo a parlare.
Signor dei Malvisi, è vero che questo non è il suo nome?
Primieramente yo non sono «signore» bensì contadino. Nel mio dialetto, un’isola di accento emiliano tra quello ebraico y quello ligure, il «siur» indica un benestante che non si sporca le mani. Sulle mie braghe di fustagno porto tre bottoni: antico segno del possedere un po’ di terra tuttavia non sufficiente per poter guatare gli altri lavorarla. C’est vrai: il mio cognome deriva da un guardiano delle oche astigiano. Da quando però sono ritornato ai siti aviti l’ho sostituito con la mia provenienza geografica: i Malvisi sono un villaggio della montagna piacentina dove i miei antenati vivono da 600 anni. Una volta era d’uso: Guido da Verona, Tommaso d’Aquino… Gipi era il nome di battaglia di un chirurgo partigiano, affibbiatomi da mio padre al primo vagito.
Ora dove vive?
Più che vivere, ahimè, sopravvivo: a me stesso. Purtroppo la banalità del male (i.e. una zia apparentemente affettuosa, circuita da un bieco figuro, ha venduto i miei sogni per un piatto di lenticchie) mi ha travolto ed ho dovuto abbandonare la mia terra per divenire un vagabondo. Il carico di ricordi, lo strazio per la Patria si’ bella e perduta non mi abbandonano mai. Fuggo dunque: senza posa né requie, evangelicamente pensando alla volpe provvista di una tana a me negata. Il viaggio è la mia droga quotidiana: terminato l’effetto del trip (sic), la giostra deve ripartire. Bergson definì quello ebraico «popolo ospite»; parimenti la mia magione è quella di colui che mi accoglie. Ben conscio peraltro che il mio puzzo ammorberebbe l’aere dopo tre di’ più del carducciano Cruciato, tolgo gli ormeggi sordo a qualsivoglia richiamo di sirena entro quel termine.
Come vive? Lei dice: «vivo nell’Ottocento»…
Vivevo nell’800, tra manze mugghianti, cani da caccia, gatti e polli. Una casa di pietra, nel tetto pure, con il fuoco che scaldava pentole ma più ancora animi. Una bottega di falegnameria del Trisnonno, la più antica funzionante della provincia. La spesa nell’orto e nel frutteto ed il surplus venduto tramite amici o passaparola. Una cavalla, facente funzione di automobile, che anche con temperature abbondantemente sotto lo 0 partiva imperterrita, senza antigelo. Non rifiutai la corrente elettrica similmente al mio bisnonno che, tornato da Boston nel 1911, nel ’29 fu tra i primi a volerla in casa (ho ancora le bollette, si sa mai che mi contestino il mancato pagamento). Avevo infatti un frigo (che morì, dato che il freddo della cucina era troppo intenso) ed una radio per le nuove. Oggi mi sposto per insegnare quelle nozioni così faticosamente apprese dagli ultimi che potevano insegnarmele, legate al mondo che fu. Una panda a metano che percorre 70.000 km all’anno con aspirazioni opposte. Talvolta formato Tir, sovraccarica di opere artigianali e banchi da lavoro ed esposizione per gli eventi cui prendo parte. Talaltra in veste di macchina formula 1, superando i 180 km/h, onde spostarmi dal Manzanarre al Reno con celerità superiore al pensiero (anche se il filosofo sarebbe contrario). Un equilibrio sûrement non perfetto tuttavia con una idea molto chiara, continuamente corroborata nel passare dei lustri: la mia libertà è bene imprescindibile.
Come è arrivato a questo amore per la vita di un tempo?
Allorché arrivai ai monti sorgenti dal piano padano, finiti con mio sollievo (e dei miei docenti pure) gli studi classici, avevo perfettamente chiari i miei intenti: praticare una esistenza immersa nella natura (quasi) incontaminata della mia valle. Eravamo allora nel pieno dell’edonismo reaganiano e ben pochi erano quelli che credevano in un mondo altro, diverso. Passavo (molti lo pensano ancora) per un lavdator temporis acti, lodatore del tempo passato, per posa o per ignoranza oppure per protesta. In realtà la mia decisione si è rafforzata crescendo: a 4 anni dissi, e seriamente, ai miei genitori: «vado a vivere lassù». L’imprinting del nonno, incosciente del seme immesso nel mio giovanile corazón, ha travolto irrefrenabile qualunque ostacolo. Furono lui e tutti quelli della sua generazione, nati tra fine ‘800 e primo’ 900, a stimolare la curiosità e a farmi approfondire vieppiù quel contesto che andava repentinamente scomparendo. Conoscevo il virgiliano Tityro e l’Arcadia tuttavia quei richiami non potevano che apparire frutto della fantasia del poeta, dell’interpretazione distaccata ergo finta dello scrittore. Non c’erano ombre fresche sui flautini bensì lezzo di sudore e falci fruscianti e paura delle carestie in quelle parole pronunciate nelle vespertine veglie. Potevo non innamorarmi di una storia scritta da giganti? E quanto mi apparivano sconcerie da nani gli agi milanesi?
Ci ha detto che conosce tecniche che «vengono direttamente dal Neolitico»…
C’est vrai. Mi sovviene un paragone, affatto iperbolico a mio modesto avviso. La differenza di movimento tra le legioni di Cesare e la Grand Armée del piccolo Corso non è così significativa. Ambedue usavano equini e bovini da trasporto, con conseguente notevole lentezza negli spostamenti e penuria di sussistenza. Intendo dire che in certi ambiti le evoluzioni sono state modeste se non addirittura nulle. Le persone che ho avuto la fortuna di incontrare avevano appreso tecniche dai loro padri, nonni, compaesani, che permettevano loro di vincere la natura feroce ed i duri materiali, migliorando così la propria condizione di vita, già grama. Due esempi. Senza seghe, so ricavare da un tronco quattro travetti, bastando i cunei di ferro da infilare nella corteccia: i nostri antenati, privi di altro, usavano sassi appuntiti, a tagliola, battuti da un ramo, parimenti una rudimentale mazza. Il tramezzo: pareti interne (delle case) o esterne (delle cascine) composte da pali verticali ed un intreccio di rami forti, poi intonacate con letame fresco (in Africa si usa tuttora). Un sistema che è alla base della cesteria e della tessitura e che ebbe l’ultimo colpo di coda massiccio nelle trincee della Grande Guerra (ci costruirono anche finti cannoni atti ad ingannare la ricognizione aerea avversaria!).
Cosa pensa della situazione del mondo pandemico?
Il mio pensiero non può che andare ai nostri vecchi, scomparsi con il sospetto che il mondo che avevano contribuito a creare non fosse migliore di quello che stavano lasciando. Gente che di apocalissi (usando un’espressione di Paolo Caccia Dominioni) ne aveva vissute parecchie. Gente che era usa alle fatiche, alla fame, al dolore, forse rassegnata ma mai doma. Questi hanno affrontato la Spagnola e i virus degli anni ’50 e del’ 69 ricordando benissimo i racconti dei loro nonni circa l’ondata di colera del 1855. Ebbene c’era lo spavento della guerra, giammai quello della malattia. Strano, nevvero? Il morbo veniva affrontato con una serenità di fondo. Alla base di questa solidità d’animo c’erano una fede che vince la morte ed una società costruita su relazioni familiari e sociali strette. Noi al contrario siamo monaci senza vocazione alcuna e, per giunta, senza noviziato di prova. Investiti dal «labora» (la nostra non è forse una Costituzione basata sul lavoro piuttosto che sul valore della persona ergo sulle braccia invece che sull’anima che vive di «ora» pure?), travagliamo senza pensare, come direbbe quel cattivo maestro di Sartre. Ritirandoci poi nella nostra personale cella, pardon: l’abitazione, dove ci attendono i panem et circenses promessi. Orbene: in un tessuto siffatto la presunta pandemia non poteva che accelerare il processo di distacco, alterando completamente il senso del rapporto umano. Questa influenza dai numeri troppo esigui ha spinto a dividerci ulteriormente, quasi appartenga più al campo dell’ideologia che non a quello – scontato? – della salute. Posso dirlo apertis verbis: ad oggi rivolgo la mia attenzione non tanto alla scaturigine della malattia quanto alle conseguenze che sta subendo il mondo, con ripercussioni a livello politico, economico e massimamente sociale.
Ha comperato dei buoi in previsione di un vaccino obbligatorio per la patente?
I buoi, devo ammetterlo, sono sempre stati tra i miei desiderata. Appartengono alla storia dell’agricoltura: tra le incisioni rupestri camune se ne riconosce perfettamente una coppia aggiogata che tira l’aratro. Yo ho ben conservati todos gli attrezzi: carro, carretto a due ruote, erpice, slitta… Mancavano solo i trattori ruminanti e non potevano che essere dell’antica razza (qualcuno dice portata dai Longobardi; ipotesi simpatica ma difficilmente suffragabile) «montana», diffusa tra Parma et Genova. Estinta nel mio Ducato, rimane qualche capo nell’Oltrepò ed in Liguria ma sapevo chi poteva avere ciò che cercavo, conoscendo (oltre che artigiani) contadini ed allevatori in tutta Italia. Allorché cominciò il blocco, capii che era giunto il momento e, seguendo il consiglio di Orazio, colsi l’attimo aggiudicandomi due bestie giovani e domate da lavoro nei campi. Può sembrare una follia, certo, eppure la tendenza generale è quella di stringere un cappio intorno alla nostra libertà. Lo stesso ricatto posto ai genitori, ovverosia di portare a scuola solo bimbi vaccinati, domani potrebbe essere posto a chi guida. Personalmente, di fronte all’alternativa di perire tra i flutti o di costruire un’arca, preferisco, di gran lunga, la seconda.
È vero che per un periodo si è spostato a cavallo?
Naturlich! A differenza di tanti rodomonti nostrani, ho tratto logiche e severe conseguenze dalle lunghe e vespertine discussioni con amici e dalle solitarie meditazioni circa la salvaguardia dell’ambiente. Coerentemente con altre decisioni prese sul mio stile di vita, per 11 anni sono andato a piedi per tragitti fino ai 15 km, diversamente in corriera y treno. Un incontro inaspettato mi ha portato infine a scegliere Stella, una cavalla bardigiana (1,47 al garrese, razza rustica e robusta, talvolta nevrile ma in genere docile). Una automobile perfetta: si muoveva in tutte le stagioni, mantenimento a costo 0, niente balzelli sul mero possesso. In più mi sfornava un puledro da vendere all’anno: una meraviglia! Il fatto più divertente era andare in posta, banca o in comune e parcheggiare davanti: la gente stupita usciva dai bar per vedermi e, mentre sbrigavo le mie faccenduole, l’equino rasava il prato antistante. Comodo invero per tutti, no?
Perché ora ha comprato dei muli?
In realtà è una: Julia, tre anni, figlia di una cavalla bardigiana. Nata in un pascolo d’alta quota nella montagna piacentina e sopravvissuta ai lupi, è stata domata da sella e tiro. Nell’ottica di un restringimento delle libertà individuali mi sono deciso a cercare e comprare un mulo in quanto mezzo di trasporto ideale per le condizioni del territorio in cui vorrei o dovrò vivere. Una bestia siffatta può agevolmente portare 120 kg di legna o frutta con il basto e le ceste: niente di meglio dunque per salvaguardare la mia schiena ed arrivare in posti impervi. Non solo: percepisce il pericolo, come tanta aneddotica militare racconta.
Cosa pensa del nuovo ecologismo?
È uno dei frutti amari, terribili financo, di questo mondo moderno. Una mia amica carissima, anni fa, mi definì l’ultimo degli umanisti, riferendosi all’ immagine vitruviana dell’uomo al centro dell’ universo. Oggi invece c’è l’animale e non parmi un guadagno. Nemmanco i pagani avrebbero posto una bestia sull’ara, se non per sacrificarla (mi sovvengono, ad esempio, i suovetaurilia). Hanno classificato la religione quale superstizione invocando la ragione (gente come Massimo D’Azeglio, salvo poi passare le sere ad invocare gli spiriti e far ballare i tavolini con un medium) ed ora, in nome della stessa, adorano chi ne è privo. Sento spesso dire che siamo il cancro del pianeta ed è un’affermazione che mi fa primieramente sobbalzare indi mi ferisce. A coloro che lo sostengono porgo invariabilmente un invito: andare a Pienza ed affacciarsi dalle mura in direzione dell’Amiata. Il paesaggio è straordinario, da sindrome di Stendhal. Campi e boschi, siepi e calaie: tutto ha un ordine calibrato. C’è un perfetto equilibrio tra uomo e natura, creato dal lavoro millenario di etruschi, romani, medievali per giungere fino a noi. È la mano del contadino che pianta sapientemente il vigneto, l’oliveto e lo difende dalle infestanti e dai selvatici. Il mondo occidentale era ecologico perché dotato di buon senso. Certo, alcune montagne sono state disboscate per fini commerciali, produttivi, tuttavia fino all’arrivo della casta di rapaci individui (parola di un Gramsci) l’insieme era stato preservato. Tornando al nostro presente, quella coscienza propagandata dalla ragazzina svedese mi appare ideologica, ipocrita, inutile. Ciò che stiamo ottenendo (mi fermo al caso italiano) è la distruzione totale della nostra agricoltura in favore della creazione di un ambiente dicotomico e in egual misura caotico: agglomerati urbani più o meno grandi e foreste selvagge. Uno scenario folle che solo la discendente di un popolo barbaro può volere. I latini tagliavano per seminare e creavano giardini, di là del Reno si guardavano bene dal ferire troppe piante. Aridatece i monaci di Camaldoli, primi compilatori di un manuale di silvicoltura, o quelli di Chiaravalle e le loro marcite, altro che Greta!
Che rapporto ha con la tecnologia? Per esempio come usa lo smartphone?
Ogniqualvolta ho un colloquio con gli organizzatori di manifestazioni cui desidero prendere parte, mi scuso anticipatamente per la mia scarsa dimestichezza con la tecnologia. La frase tipica, tra serio e faceto, è: «sono un uomo dell’800». In effetti non so nemmeno accendere un computer… Guardo stupito gli altri che fanno, brigano, disfano, muovono: ne colgo l’utilità ma non mi appartiene. Per poco meno di 10 anni ho avuto il telefono fisso in casa e mi sembrava di non inficiare la coerenza: come affermava orgoglioso il mio bisnonno, erano stati personaggi nati come lui nel XIX secolo ad inventare certe faccenduole come la lampadina e la radio! Quando sono partito per l’esilio perpetuo gli amici mi hanno regalato uno smartphone (che yo chiamo acutofono) e mi hanno, bontà loro, insegnato ad usarlo. I contatti, per me che vivo di relazioni ed ho sodali sparsi da Aosta a Ragusa, sono fondamentali. La funzione telefono è surely la più gettonata, passando almeno 5 ore al giorno in comunicazione con qualcuno! Whatsapp l’ho trovata di grande aiuto per le immagini: poter inviare la foto di un pezzo di ciliegio per indicare senza fraintendimenti un colore preciso non ha prezzo. Faccialibro lo uso poco o punto. Trovo che uno dei termini più abusati oggi sia «amicizia». A mio modesto avviso ci deve essere una corrispondenza tra ciò che vivo nel reale, nel quotidiano, e quello che passa nel virtuale, in rete. Non è possibile sostituire lo sguardo, un abbraccio, il tono della voce e, magari, le gambe sotto al tavolo: antico sono. Last but not least la mia garzona ha creato un profilo Instagram per poter pubblicizzare le mie opere tuttavia, almeno per ora, il passaparola vince incontrastato nella classifica di motore di vendita.
Lei è un grande sostenitore del tabarro…
Chi mi incontra senza conoscermi di primo acchito immagina yo sia un teatrante, un eccentrico, nel peggiore dei casi un picchiatello. Li capisco, per carità: rara avis vedere un tabarro. A maggior ragione se accoppiato ad un bustino (o gilet, che dir si voglia) con la catenella della cipolla. Ancor più se le braghe sono in fustagno e con tre bottoni finali (avendo un po’ di terra, i miei vecchi hanno acquisito il diritto a portarli. Un mezzadro non ne aveva affatto mentre un ricco poteva esibirne un fottio: un codice antico come quello dei ventagli e irrimediabilmente perduto): le stesse che nell’ iconografia classica porta Renzo Tramaglino. Tornando alla nera ruota: come potrei non portarlo, dato che non ho ombrelli e nemmanco cappotti? Da 20 anni mi copro con quello: in caso di pioggia anche il 15 agosto. Ne sono orgogliosissimo, me lo sento addosso come una seconda pelle ed è un biglietto da visita che mi fa identificare da lontano. I miei valori, la mia cultura si presentano visivamente, esteticamente: l’ho compreso nel tempo. No, non potrei farne a meno (ci dormo pure dentro, avvolto come in un bozzolo).
E il camminare scalzo? Ci racconta qualcosa…
Ho iniziato a Giugno di 30 anni fa, quasi timidamente. Il caldo rendeva i miei scarponi (utili per andare a falciare) opprimenti e l’istinto mi disse: ya basta! Prima solo durante i mesi estivi, successivamente ci presi gusto, allungando vieppiù la resistenza al cuoio. Ora da metà marzo a metà novembre cammino scalzo. È un fatto di salute, certamente, ma sarebbe riduttivo credere sia solo quella la motivazione. Intanto è tradizione: una volta i poveri giravano costantemente senza scarpe, le quali venivano riservate alla messa, alla festa (per me neppure quella: sono un pellegrino). In secvndis i piedi sono senzienti, similmente alle mani. Un piacere senza pari è il percepire la carezza dell’erba, il fresco del marmo, le asperità del granito, il massaggio del selciato di fiume. Mi è capitato più e più volte di affrontare la pioggia in città o di attraversare un corso d’ acqua: et voilà, il tempo di un amen e sono asciutto, diversamente le calzature bagnate. Viaggio con un occhio vigile nel guatare vetri e spine onde bellamente evitarli ma è dopotutto un piccolo prezzo che pago volentieri per il senso massimo di libertà che mi regala.
Parliamo della sua arte…
Nella mia famiglia sono più di 200 anni che c’è un falegname: ogni generazione ne ha espresso uno. Fin da piccino ho sempre sentito una forte attrazione per il legno: colori, profumi, alterazioni. Iniziai con riproduzioni di armi dell’ultima guerra per le manovre campali con gli amici poi la mia attenzione si riversò verso la scultura. Dopo aver recuperato la bottega in casa (che già fu del trisnonno) andai a garzone dal mio maestro (dopo 27 anni mi reco ancora da lui: non si finisce giammai di imparare) e dopo un anno potevo menar vanto di essere diventato un ebanista. Scelgo accuratamente i tronchi nei miei boschi, li sego e li lascio riposare in una lenta essicazione naturale. Dalle assi mature ricavo mobili scolpiti ed intarsiati, cornici in stile, taglieri, attrezzi da cucina e contadini, giuocattoli. Finisco con olio d’oliva extra vergine e di lino, gommalacca e sandracca. Il bisnonno, carpentiere negli Stati Uniti, sapeva usare il fil di ferro ed yo ho voluto fortissimamente, come Alfieri, imparare da autodidatta. Et voilà: cesteria (in tecnica mista con essenze legnose o puro), complementi di arredo, manichini, lampade, bugie con meccanismo di risalita, porta-bottiglie e porta-vasi pensili. Costruisco muri in pietra a secco, erigo tramezzi (le antiche pareti) e copro le case in lastre di arenaria. Infine, da appassionato cultore di tutto ciò che è tradizione, insegno (oltre a tutte le tecniche sunnominate) danza popolare, con coreografie supportate da un repertorio musicale più o meno antico ed abbastanza ben conservato.
Questa intervista genererà interesse e richieste di contatto da parte dei nostri lettori. Possiamo dare la sua mail e il suo numero di telefono a chi ce lo chiederà?
Claro que sì! Il mio recapito telefonico è 3335347433 (ed ha, incredibile dictv, Whatsapp) ed il mio indirizzo di posta elettronica è: gipi.malvisi@gmail.com.
Grazie signor dei Malvisi. Grazie per la testimonianza e l’esempio che ci dà.
Civiltà
Elon Musk sovranista contro il governo mondiale: «rischio per la civiltà»

Elon Musk si scaglia contro l’idea di un «governo mondiale unico» perché rappresenta un «rischio di civiltà». La dichiarazione da parte del miliardario sudafricano è arrivata durante un evento chiamato World Government Summit (WGS) tenutasi a Dubai, al quale il Musk si è collegato da remoto.
«So che questo si chiama World Government Summit, ma penso che forse dovremmo essere un po’ preoccupati di diventare effettivamente un unico governo mondiale», ha detto Musk in una videochiamata durante la conferenza WGS tenutasi nell’Emirato Arabo. «Se posso dirlo, vogliamo evitare di creare un rischio di civiltà avendo, francamente – questo può suonare un po’ strano – troppa cooperazione tra i governi».
Il magnate della tecnologia ha sostenuto che sotto un unico governo mondiale, il collasso della civiltà come quello che abbiamo visto in passato potrebbe portare a un disastro maggiore che se le nazioni fossero più indipendenti.
«In realtà, nel corso della storia, le civiltà sono sorte e cadute, ma non ha significato il destino dell’umanità nel suo insieme perché ci sono state tutte queste civiltà separate che erano separate da grandi distanze».
«Se apparteniamo troppo a un’unica civiltà, allora… l’intera faccenda potrebbe crollare. Ovviamente, non sto suggerendo la guerra o qualcosa del genere, ma vogliamo essere un po’ cauti nel… cooperare troppo», ha avvertito il padrone di Tesla, SpaceX e Twitter.
«Vogliamo avere una certa diversità di civiltà in modo tale che se qualcosa va storto in una parte della civiltà, l’intera cosa non crolli e sai, l’umanità continua ad andare avanti».
Le parole di Musk sembrano con pochi dubbi una difesa di quello che si chiama «sovranismo», ossia la primazia delle singole Nazioni e deli loro popoli rispetto a enti e mercati transnazionali.
Il proprietario di Twitter ha anche parlato del pericolo dell’Intelligenza Artificiale (AI) quando gli è stato chiesto di ChatGPT, un popolare Chatbot AI creato da OpenAI, una società che Musk ha contribuito a fondare nel 2015.
Il geniale imprenditore ha quindi sostenuto che l’Intelligenza Artificiale dovrebbe essere regolamentata e avere standard di sicurezza simili a quelli delle automobili, degli aeroplani e della medicina.
«Abbiamo organismi di regolamentazione che sovrintendono alla sicurezza pubblica di automobili, aerei e medicine, e dovremmo avere un tipo di supervisione simile per l’intelligenza artificiale», ha affermato Musk. Questo perché l’Intelligenza Artificiale rappresenta un «rischio maggiore per la società rispetto alle automobili, agli aerei o alle medicine».
Durante l’incontro globalista del WGS a Dubai quest’anno, il fondatore del WEF Klaus Schwab ha affermato che chiunque padroneggi le nuove tecnologie come l’Intelligenza Artificiale, il metaverso e la biologia sintetica «sarà in qualche modo il padrone del mondo». Il guru di Davos ha quindi promosso un concetto di «ri-globalizzazione» del mondo e ha parlato favorevolmente di «un ordine globale basato su regole».
Per quanto riguarda Musk, si tratta dell’ennesima posizione controcorrente assunta da quello che praticamente è l’uomo più ricco del mondo. In passato, si è scagliato contro l’obbligo vaccinale, gli psicofarmaci e soprattutto il problema dell’implosione demografica.
Come riportato da Renovatio 21, coronato come uomo dell’anno nel 2021 dalla rivista Time, Musk ebbe il coraggio di dichiarare che il vaccino non dovrebbe essere obbligatorio, arrivando a sostenere la protesta dei camionisti canadesi.
In passato Musk ha trattato in modo critico anche la questione delle psicodroghe farmaceutiche; l’uomo non ha avuto paura nemmeno di toccare il tabù dell’implosione demografica.
Ricordiamo ad ogni modo Musk per quando, anni prima della pandemia, disse che con l’mRNA è possibile fare qualsiasi cosa, anche trasformare una persona in una farfalla.
Riguardo l’Intelligenza Artificiale, il Musk un lustro fa spaventò il mondo dicendo di vedere le IA come una vera minaccia esistenziale per l’umanità, paragonando il progresso nel campo dell’Intelligenza Artificiale all’«evocazione di un demone».
Immagine screenshot da YouTube
Civiltà
La Siria, il suo re e la sua regina

Un video emerge dalla rete. Mostra immagini tratte dalla visita del presidente della Repubblica Araba di Siria e della sua consorte negli ospedali dove sono ricoverati i feriti a seguito dell’immane sisma della settimana scorsa. La catastrofe per la quale noi, «l’Occidente», abbiamo già detto di non voler inviare aiuti per non favorire chi non se lo merita.
Alla classe radiosa di questa coppia eravamo già abituati. Li abbiamo visti altre volte incontrare il loro popolo, li abbiamo visti anche negli ospedali quando a uccidere i siriani a migliaia non erano i terremoti, ma i terroristi e gli islamisti takfiri, più o meno tutti pagati dagli USA.
La pioggia di sangue scatenata dalla primavera araba – cioè, dal progetto americano volto a ribaltare ogni Stato mediorientale per infilare al potere i Fratelli Musulmani – si abbatteva sulla Siria ormai dodici anni fa.
La disgrazia certo non è finita: ancora oggi, non sono i tagliagole dello Stato Islamico a bombardare aeroporti, strade, città (perfino Damasco), ma i jet dello Stato Ebraico indisturbati dai media occidentali. Come altri Paesi liberi, la Siria, che porta in sé i semi della storia del mondo, va rasa al suolo.
Bashar e Asma Assad visitano un ospedale dopo il terremoto pic.twitter.com/RjbDtwiCZ4
— Renovatio 21 (@21_renovatio) February 12, 2023
Nell’arco di questo tempo di attacchi e di dolori, gli Assad sembrano non essere invecchiati di un giorno. Sono uniti, belli, coraggiosi. Sono umili. Non si nascondono, nemmeno dissimulano le proprie credenze e le proprie abitudini: Asma, che non indossa il velo, incontra con incantevole naturalezza la vecchietta che invece ce l’ha, e va bene così. La molteplicità tollerante dello Stato siriano – fatto di sunniti, di cristiani, di alauiti (come Assad) – è un dato di fatto, un’armonia civile che i padroni del mondo, scatenando contro Damasco il fondamentalismo wahabita più sanguinario, hanno cercato invano di cancellare. E sì, sono proprio gli stessi signori che nelle scuole occidentali fanno cantare insistentemente ai nostri figli i ritornelli della inclusione, della diversity, della equality, e di tutte quelle belle cose lì, vuote di senso e piene di menzogna.
Dobbiamo ammetterlo: la coppia di Damasco sprigiona un fascino antico, qualcosa che forse è diventato indicibile e si ha quasi paura a parlarne, perfino a pensarlo – nel sovrano, giustizia, bontà e bellezza si fondono insieme.
Si capisce quanto questa idea vada completamente contro il mondo moderno e il sistema politico chiamato a sorreggerlo. La democrazia ti impone di farti andar bene, più o meno temporaneamente, quello che passano le elezioni, anche se sia con evidenza privo degli attributi minimi per cui lo si possa ammirare, tantomeno amare. L’eletto, così come le sue appendici famigliari, sono gli unti dello stigma democratico e tanto deve bastare.
Guardando il video, viene quindi spontanea la comparazione con quanto c’è in circolo nel blasonato Occidente.
Negli USA, un tizio in stato di conclamata demenza senile esibisce una moglie che tutti devono chiamare doctor chissà perché e che pochi giorni fa ha baciato in bocca il first-vice-husband, marito di Kamala Harris; la first-famiglia si completa con il perverso figlio Hunter, già dipendente dal crack (mentre il padre è autore della legge che punisce manda in galera migliaia di consumatori), amante della cognata vedova, utilizzatore finale di prostitute i cui video, ritrovati nel famoso laptop, sono stati caricati perfino su siti porno; ai tre si aggiunge la figlia Ashley, pure lei munita di problemi psichici non indifferenti se nel suo diario (recuperato con un raid dell’FBI a casa del giornalista che ne era entrato in possesso dopo che lei lo aveva lasciato in giro) scrive che, forse, la sua sex-addiction potrebbe derivare dall’abitudine di fare la doccia col padre.
La Casa Bianca, ricordiamolo, rappresenta l’esempio morale che sta negando gli aiuti ai siriani indegni, perché l’embargo deve continuare.
Ma quello americano non è il solo quadretto grottesco offerto dal decadente potere occidentale.
In Francia abbiamo una situazione di coppia presidenziale sulla quale è bello tacere. Anche perché ciò che appare è appena una parte delle complicate passioni del capo dello Stato.
A Londra un ridente e misterioso indiano, discepolo del finanziere che per primo investì nella startup Moderna nel 2011, ha appeso il cappello in una famiglia di tecnocrati ultramiliardari di Bangalore. Giornali e popolazione dell’India stanno impazzendo per capire a quale casta appartenga il premier, che, molto stranamente per un PIO (Person of Indian Origin), egli giammai ha rivelato.
In Germania non è dato sapere con chi si accompagni il cancelliere, ma tanto è del tutto ininfluente, come lui. Prima anche lì c’era un first-Mann: il defilato professore universitario di chimica quantistica, marito della Merkel, che appena la moglie ha mollato il potere si è precipitato a insegnare a Torino.
In Italia, per ragioni di vedovanza, abbiamo una first-figlia (come già nel caso dell’indimenticato Oscar Luigi Scalfaro), ma è risaputo che di lui non si può, per legge e non solo, proferire parola.
Dopo questa veloce carrellata, riportiamo la mente alle immagini del video: alla semplice maestà degli Assad. Quattro anni fa sulla figura del presidente siriano scrivemmo un articolo, in occasione della bella intervista che gli dedicò Monica Maggioni senza tuttavia ottenere grande risalto sui media.
«In una guerra nazionale come questa, in cui quasi tutte le città sono state danneggiate dal terrorismo o dai bombardamenti esterni, allora puoi parlare di tutti i siriani come sopravvissuti…Faccio parte di quei siriani, non posso essere disconnesso da loro».
L’intervista diceva tutto: «non c’è stata una guerra settaria, non c’è stata una guerra etnica, non c’è stata una guerra politica: erano terroristi, sostenuti da potenze estere che avevano denaro e armamenti e occupavano quelle aree».
A Bergoglio che in quei giorni gli dava lezioni di umanità, Assad rispondeva con una lezione di logica, spiegando come «senza il sostegno del popolo non puoi avanzare politicamente, militarmente, economicamente e in ogni aspetto. Non avremmo potuto sostenere questa guerra per nove anni senza il sostegno pubblico. E non avremmo potuto avere sostegno pubblico mentre si stavano uccidendo civili. Questa è una equazione, una equazione evidente, nessuno può smentirla».
Diceva di difendere «l’integrità e la sovranità» del suo Paese, a costo della sua stessa esistenza: «il mio lavoro non è quello di essere contento di quello che sto facendo o di non essere felice o altro, non riguarda i miei sentimenti, riguarda gli interessi della Siria, quindi ovunque andranno i nostri interessi, lì andrò anch’io».
Questa disposizione dell’animo, nel sovrano e nella sua consorte, si percepisce come qualcosa di non costruito, di non artefatto; ma quale frutto naturale di una terra e di una civiltà che, intrise di storia, di cultura e di bellezza, ne irradiano i figli prediletti.
Per il mondo della dissoluzione liberaldemocratica, è qualcosa di intollerabile, che dunque va negato, nascosto, bombardato quanto prima. Il sovrano amato dal popolo, il sovrano retto, il sovrano che si immola per la sua gente (quante comode proposte di esilio gli saranno state fatte? Quante?) agisce come la luce del sole per i vampiri, che corrono isterici da tutte le parti.
Viviamo in un mondo di vampiri, e un sovrano come Assad, unito alla sua bella moglie fedele, rappresenta un sole.
È bello, è caldo, disinfetta.
Quanto ne avremmo bisogno anche noi?
Roberto Dal Bosco
Elisabetta Frezza
Immagine di Ricardo Stuckert/ABr via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 3.0 Brazil (CC BY 3.0 BR)
-
Economia2 settimane fa
Il collasso delle banche è per portarci alla moneta digitale
-
Alimentazione1 settimana fa
Scuola assegna crediti extra ai bambini che mangiano insetti
-
Cancro1 settimana fa
Rinuncia alla chemio per mettere al mondo suo figlio. Ecco cos’è una donna, ecco cos’è una madre
-
Ambiente2 settimane fa
Greta cancella un tweet apocalittico
-
Psicofarmaci2 settimane fa
Fedez e il dramma degli psicofarmaci
-
Gender1 settimana fa
Imperialismo omosessualista: il presidente dell’Uganda contro i Paesi occidentali che «impongono» l’agenda LGBT
-
Geopolitica2 settimane fa
Enorme Iceberg al largo dell’Argentina, rischio per gli interessi britannici
-
Senza categoria1 settimana fa
Messaggio di Mons. Viganò al Congresso del Movimento Internazionale dei Russofili